The imaginarium of Doctor Parnassus – Recensione

Se dovessi fare un elenco degli artisti più geniali e controversi della Storia – quelli che hanno sempre seguito il loro istinto in barba a tutti e tutto, destino avverso compreso – Terry Gilliam sarebbe senz’altro tra i primi posti. Ma lo sapete di chi diavolo stiamo parlando?

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Brevemente: membro “tecnico” dei Monty Python, firma innumerevoli puntate del celebre “Flying Circus“, nonché capolavori come “La ricerca del sacro graal”, “Brian di nazareth” e soprattutto il definitivo “Il senso della vita”. Dopodiché, esordisce da regista autonomo (non è corretto, ma facciamo finta che lo sia) con “Brazil”, rivisitazione in chiave onirica e strettamente personale di 1984 di Orwell.

Già si dovrebbe capire, solamente osservando i suoi particolarissimi cartoni animati per i film dei Python e le strane scene oniriche di Brazil, che genere di narrazione Gilliam prediliga. Ma se questi esempi non bastassero, ecco che tre anni dopo esce (in sordina) “le avventure del barone di Munchausen”, storia che si adatta alla perfezione all’inesauribile fantasia di Gilliam. Il film ha una lavorazione estremamente travagliata, cosa questa che assumerà presto i connotati di una maledizione per l’eccletico regista.

Nel ’91, dopo aver discusso a tavolino con Alan Moore riguardo l’impossibilità di ridurre Watchmen ad un film di due ore e mezzo, esce “la leggenda del re pescatore”, splendida commedia agro-dolce con un Robin Williams al suo picco prima della discesa nell’oblìo; nel ’95 “L’esercito delle dodici scimmie” dove Gilliam sperimenta con i viaggi nel tempo grazie al muso più duro dell’Universo conosciuto (Bruce Willis) e un Brad Pitt che comincia a staccarsi con successo dall’immagine di fighetto scemo, dimostrando il suo talento attoriale. Nel ’98, ecco “Paura e delirio a Las Vegas”, una malatissima storia che fa doppietta con il Lebowski dei Coen (dello stesso anno) per quanto riguarda le personalità borderline.

Poi, la tragedia.

Nel 2000, dopo un anno di tira-e-molla con varie case di produzione, sembra partire finalmente la lavorazione di “The man who killed Don Quixote”, adattamento del Don Chisciotte di Miguel de Cervantes mescolato con “Un americano alla corte di Re Artù” di Mark Twain, con Depp come spalla del protagonista.

Ma la maledizione di Gilliam si esprime in tutta la sua violenza.

Problemi di produzione di ogni tipo, compreso un aquazzone inspiegabile in mezzo al deserto, che danneggia gran parte dell’attrezzatura. Problemi con il casting, sia prima che durante che dopo (Jean Rochefort, che interpretava Don Chisciotte, si infortuna gravemente e obbliga tutta la troupe ad una sosta forzata). Problemi (ancora) con la produzione, che rompe le palle per le deadline e per i soldi. Il film inesorabilmente salta, e Gilliam sembra apparentemente lasciar perdere tutto. Per cinque anni.

Quando torna alla ribalta, nel 2005, qualcosa è cambiato: esce “I fratelli grimm e l’incantevole strega”. Una vera schifezza (c’è pure quel “vuoto pneumatico” di Matt Damon e la più sopravvalutata attrice italiana vivente, via…).

Più tardi, nello stesso anno, esce “Tideland – il mondo capovolto”, una rilettura dark di “Alice nel paese delle meraviglie”. Il film ha un’anima più indipendente rispetto a quella vagamente da blockbuster dei Grimm, e la cosa è testimoniata anche dalla sceneggiatura più intimista e (forse troppo) criptica. In Tideland si possono trovare molte interpretazioni e sottotesti; io personalmente l’ho visto come uno sfogo. In quel film ho sentito tutta la frustrazione di Gilliam. Frustrazione per l’incredibile sfortuna che l’ha perseguitato per tanti anni, per la (temporaneamente) mancata capacità di esprimersi, per l’essere incompreso o comunque compreso da pochi, sia tra la critica che tra il pubblico. Tideland non viene calcolato di striscio da nessuno.

The imaginarium of doctor Parnassus

Con tre anni di pausa, dopo Tideland del 2005, riecco Gilliam.

The immaginarium of doctor Parnassus” ha tutte le carte in regola per segnalare il ritorno di Gilliam ai fasti di un’epoca che sembra – se non finita – quantomeno sfocata.

Purtroppo, si comincia a parlare di Parnassus non in merito a notizie trapelate dal set, ma per la prematura e accidentale morte di uno dei suoi protagonisti, Heath Ledger. Ledger aveva finito di girare il nuovo capitolo del Batman di Nolan (regalandoci un Joker eccezionale) e aveva completato anche tre quarti delle riprese di Parnassus. Il film era momentaneamente in pausa per motivi di produzione (la maledizione di Gilliam…).

Dapprima, Gilliam è preso da scioccata tristezza (apprende della morte di Ledger leggendo le notizie su internet) e sconforto. Pensa di buttare via tutto – siamo a gennaio del 2008 – poi, fortunatamente, parlando con il resto del cast (in particolare con lo sceneggiatore Charles McKeown), prende la decisione di ultimare ugualmente il film in omaggio al lavoro di Ledger, che non si è fermato alla recitazione ma ha apportato il suo talento creativo e le sue idee anche alla storia e all’ambientazione.

Grazie alle possibilità della storia (e dell’immaginazione), a sostituire Ledger nel quarto di film mancante non è un attore, ma addirittura tre: Johnny Depp, Jude Law e Colin Farrell. Tutti molto amici di Ledger, hanno devoluto i loro interi compensi a sua figlia Matilda Rose, avuta con l’attrice Michelle Williams.

Finita l’esamina cronistica, veniamo al film.

La storia è semplice: Parnassus, monaco di un ordine che continua in eterno a “raccontare la storia che regge l’Universo”, vince una scommessa con il Diavolo (uno stupefacente Tom Waits, in un’interpretazione del Maligno che va ad affiancarsi come qualità ed ammaliamento a quelle di DeNiro in “Angel’s heart”, Pacino in “Devil’s advocate” e il Ray Wise di “Reaper”) e diventa immortale. Secoli dopo, a causa di un secondo patto, rischia di perdere l’anima della sua unica figlia (Lily Cole, modella dalla intrigantissima bellezza al suo primo film importante).

La storia è chiara, ma non si dipana in maniera banale. Alcune delle critiche che ho sentito provenire dal pubblico riguardano proprio la sceneggiatura, che è stata ritoccata più volte sul set stesso, sotto l’influenza creativa di chi ci lavorava (ad esempio Ledger). Per questo motivo, ha forse perso un po’ di coesione ed omogeneità, in favore però dell’omaggio alla fantasia che questo film vuole essere.

E’ esattamente questo il punto: Parnassus è un tributo accorato alla potenza dell’immaginazione, che oggigiorno stiamo perdendo a pezzi per strada. Chi attraversa lo specchio di Parnassus si ritrova catapultato in un mondo meraviglioso, ma la gioia che ne ricava proviene più che altro dalla consapevolezza che quel mondo meraviglioso si trova dentro di sé.

Gilliam ha detto che il personaggio di Parnassus contiene molti elementi autobiografici: non stento a crederlo. Si rivede nei profondi ed espressivi occhi di Christopher Plummer quella luce particolare che trapela anche dallo sguardo di Gilliam. La volontà di una ricerca interiore, di un’espressione artistica che spesso viene negata per contingenze esterne e la più rognosa delle nemiche: la sfortuna banale. Si vede in Parnassus la determinazione di un uomo saggio che vorrebbe illuminare le persone, ma che con il passare degli anni si scontra contro i muri della realtà gretta e meschina che loro stesse si costruiscono intorno.

Andare a vedere Parnassus è un’esperienza liberatoria, per tutti quelli che credono ancora nel sogno e nella fantasia, e per quelli che conoscono (o stanno scoprendo) il mondo della spiritualità e della magia.

Non fatevi ingannare dal mercato cinematografico attuale: se una storia non è perfettamente inquadrata, se non rispetta ogni singola regola della sceneggiatura e della drammaturgia preferendo divagare, se pure ha dei buchi, non è detto che stiate vedendo un brutto film. State senz’altro vedendo un film diverso. E, credetemi, oggigiorno non è di certo un male.

Chi cerca in “Parnassus” una destinazione, ha sbagliato film: Parnassus è un viaggio, e si può gustare solo in quanto tale. Per parafrasare Machiavelli: “si abbia in Parnassus a vedere il mezzo, e non il fine”.

La recensione di Fantasymagazine, pur promuovendo il film con la sufficienza, lo accusa di mancanza di quid. E’ probabile che chi non ha familiarità, seppur minima, con il mondo dell’esoterismo perda qualche riferimento e messaggio nascosto, e che abbia la percezione di un film non comunica nulla, alla fin fine. Che non abbia uno scopo, che non sia intelligente.

Non è così. Parnassus racconta una storia che ha a che fare con l’essenza stessa dell’umanità. Parla della crescita interiore e di tutte le difficoltà annesse al suo ottenimento. Parla dell’immaginazione e della sua importanza fondamentale nell’arricchimento dello spirito, al di là di scempiaggini come razza, sesso, età, credo.

Chi racconta questa incredibile storia (che regge l’Universo) è uno dei più grandi narratori visionari che il mondo abbia mai conosciuto. Peccato che non gli si renda il merito che gli spetta. Ma immagino che per questo ci sia tempo, nell’apocalisse culturale e oltre.

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