Dai, sinceramente: cosa avete pensato quando avete visto il trailer di “Codice Genesi” (riportato a fondo articolo)? Avete pensato: “ancora film post-apocalittici?”, avete pensato “bah, l’ennesimo filmetto d’azione”, avete pensato “Tsè, Denzel Washington ormai non azzecca più un film da anni”, avete pensato “i fratelli Hughes?! Quelli di From Hell?! Per carità!” (ok, questo forse non l’avete pensato. So che From Hell è piaciuto a tanta gente ma, da fanatico lettore di Alan Moore, per me rimane un film orribile).
Ed è più o meno con lo stesso vostro scetticismo che sono entrato in sala. Scetticismo mitigato solamente da una sottile speranza nata dalla locandina, dove Denzel sembra un personaggio preso di peso dal videogioco-capolavoro “Fallout” (e infatti il film sembra attingere a piene mani da questo gioco, chi lo conosce se ne accorgerà, gli altri diano un’occhiata a questa immagine). Che volete farci, non c’è nessuna maniera per farmi venire a noia l’ambientazione apocalittica post-nucleare.
La trama è presto detta: 30 anni prima dell’epoca del film, a causa delle guerre e dell’inquinamento, “nel cielo si aprì un buco e ne scaturì una pioggia di fuoco”… Eli (Denzel Washington) non si dilunga molto e spiega ancora meno… Buco nell’ozono? Distruzione mutua assicurata? Apocalisse divina? Fatto sta che ci ritroviamo in un mondo desertificato dove l’acqua costa quanto un calciatore odierno e i cannibali sono distinguibili da tipici tremori; un mondo dove arrivare vivo alla fine della giornata è un miracolo e se vai in giro disarmato sei considerato uno sprovveduto (nonché un uomo morto che cammina). Nulla di dissimile insomma da quell’ambientazione a cui decine e decine di altri film, libri, fumetti e videogiochi ci hanno abituati, prima fra tutti la mai dimenticata e mai troppo amata serie di Mad Max (in Italia: Interceptor, Il guerriero della strada, Mad Max: oltre la sfera del tuono), di George Miller con l’esordiente Mel Gibson, 1979.
Codice Genesi rimane sulla falsariga di Mad Max anche registicamente: inquadrature lente e ampie, lunghe panoramiche sul territorio brullo e il cielo grigio; il film si prende i suoi tempi, e senza fretta segue il passo lento del buon Eli, in viaggio verso Ovest per una missione sconosciuta che comprende la consegna di un particolare libro, capace forse di cambiare le sorti dell’umanità. I fratelli Hughes cominciano a distaccarsi da Miller con la prima scena d’azione: inquadratura fissa a campo largo, in silouhette. Una cosa che non ricordo di aver mai visto prima, semplicemente bellissima. Non è l’unica scena originale del film; molte altre soluzioni creative (piani sequenza arditi, riprese circolari, eccetera…) mi hanno ricordato un altro film, anch’esso post-apocalittico ma molto diverso quando a background: quel “I figli degli uomini” di Alfonso Cuaròn del 2006 che non mi stancherei mai di rivedere.
Ma le ispirazioni non si fermano qui: uno dei personaggi del film fischietta più volte il motivetto di uno degli immortali western di Sergio Leone, e l’idea stessa di un personaggio che cerca di portare in salvo l’ultima copia di un libro importantissimo per l’umanità rimanda immediatamente alla trama di quel caposaldo della fantascienza letteraria: Fahrenheit 451 di Ray Bradbury (di cui fece una riduzione cinematografica niente meno che François Truffaut, nel ’66), in particolare con il concetto degli uomini-libro.
Rimandi immediati che non fanno che confermare la teoria che porto avanti da quando studio cinema: non importa che quello che racconti sia per forza originale e nuovo, conta come lo racconti. Tutti copiano, fa parte del lavoro di scrittura, ma Codice Genesi mette insieme tanti elementi diversi con un’eleganza e una capacità che sinceramente sembravano completamente trasparenti (diciamo pure assenti) in From Hell.
La sceneggiatura di Gary Whitta (all’esordio) è buona e robusta: pochi dialoghi ben dosati, che non vanno mai sopra le righe e dicono esattamente quello che c’è da dire; personaggi ben caratterizzati e accadimenti ben piazzati che non fanno pesare la particolare calma della regia. Gli Hughes perdono un po’ di eleganza sul finale, risultando un po’ ridondanti, forse per la preoccupazione – non fondata – di non aver spiegato abbastanza. Ho trovato particolarmente rozza la chiusura del film, la classica “americanata” che si spiega male e di cui si poteva fare a meno, ma considerando le aspettative con cui ero andato al cinema, è grasso che cola.
Il cast è di tutto rispetto: oltre a Denzel Washington – che, sì, forse ha sbagliato parecchi copioni negli ultimi anni, ma rimane un grande attore, altamente espressivo – nella parte della nemesi di turno abbiamo il grande Gary Oldman, istrionico come sempre; la spalla femminile è affidata alla bellissima e bravissima Mila Kunis (forse sono un po’ di parte, dato che ne sono follemente innamorato), voce originale di Meg Griffin, anche lei un mistero, dato che sceglie pochissimi copioni, ma non sempre di qualità (“Max Payne” l’avete visto? Spero di no per voi); infine, apprezzatissime comparsate di Tom Waits (visto recentemente nella fantastica parte del Diavolo in “Parnassus” di Terry Gilliam) e di Malcolm McDowell.
Ad avvolgere e sottolineare l’atmosfera di abbandono e solitudine, una bellissima colonna sonora originale di Atticus e Leopold Ross e Claudia Sarne, compositori che avevano già lavorato con gli Hughes ma che qui danno il meglio di loro confezionando musiche d’atmosfera minimaliste ed essenziali, eppure emotivamente coinvolgenti.
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