Quando si guarda un film, un film dell’orrore o un thriller, quello che nelle intenzioni degli sceneggiatori dovrebbe mettere maggior ansia è il “potrebbe succedere pure a te”. L‘immedesimazione, è questo quello che spaventa; che dietro la porta, o nell’armadio, piuttosto che fuori dalla stanza proprio mentre ti stai addormentando, ci sia un pericoloso killer. O che ti ritrovi immischiato in un intrigo internazionale. O magari che un folle sadico se la prenda con te per uno sguardo di troppo. Che chi ti vuole bene impazzisca e ti insegua con un’ascia. Film, appunto, nulla più. Quello che invece fa davvero paura è che tu ti possa ritrovare in galera per la maglietta del colore sbagliato, o peggio morto ammazzato per una canna tenuta in tasca o un paio di schiaffi in un autogrill. E questo non è un film, questa è la vita vera.
Quello che fa paura, davvero paura, è che in uno stato democratico, dove a dispetto dei desideri di un capo partito un po’ bassetto e decisamente spelacchiato le libertà personali sono tutte garantite, una persona si possa ritrovare con la vita rovinata (se non peggio) per motivi assurdi, futili o addirittura inesistenti; una persona come tutte le altre – attenzione – perfettamente normale, integrata, con i suoi amici, i suoi amori, le sue cazzate. E che -come se tutto il resto non fosse già gravissimo- si associ l’imbarazzo delle Istituzioni o addirittura il negazionismo e la menzogna come meccanismo forzato di discolpa.
Stefano Gugliotta è rimasto in galera fino ad a oggi perché indossava una maglietta rossa mentre passava vicino allo Stadio Olimpico il 5 maggio scorso. È stato arrestato e menato in maniera selvaggia perché anche il sospetto che i poliziotti stavano cercando aveva una maglietta rossa. Ora, permettetemi una piccola annotazione: non mi sembra che indossare una maglietta rossa fuori dall’Olimpico in occasione di una partita della Roma sia un elemento poi così selettivo.
Aldo Bianzino è morto a 44 anni nel 2007 dopo essere stato arrestato per spaccio. Gli inquirenti rinvenirono e sequestrarono nel suo casolare 110 piantine di Marjiuana. Ufficialmente è morto per infarto, anche se nel referto autoptico si rilevano lividi e costole rotte, lesioni epatiche e cerebrali.
Giuseppe Uva, 43 anni, viene portato nella caserma dei carabinieri di Varese per stato di ubriachezza. È il 14 giugno 2008. Rimane per 2 ore in balia dei militari, prima del trasferimento al pronto soccorso locale e la morte causata dall’inspiegabile somministrazione di sedativi e tranquillanti lì eseguita. I medici rimangono gli unici indagati di questa storia, per le lesioni si sta ancora procedendo contro ignoti.
Federico Aldovrandi muore nel 2005, dopo essere stato fermato sotto gli effetti della ketamina per le percosse subite. Ufficialmente, anche qui, si parla di infarto, ma il referto autoptico rileva la possibilità di un’anossia cerebrale posturale. Soffocamento indotto dalla mancata espansione toracica, causata da qualcuno seduto o in piedi sulla schiena del giovane.
Marcello Lonzi, 29 anni, muore nel 2003 nel carcere di Livorno, ufficialmente per arresto cardiaco. La schiena è coperta di ecchimosi e striature viola, il volto tumefatto. Ancora nel registro degli indagati non è riportato alcun nome.
Manuel Eliantonio, 22 anni, muore nel 2008. Tossicodipendente, condannato a 5 mesi di reclusione per resistenza a pubblico ufficiale sotto gli effetti della cocaina, muore a 10 giorni dalla scarcerazione ufficialmente per intossicazione da butano. Il corpo è martoriato, pieno di lividi e segni di emorragie interne. A oggi non si hanno notizie di procedimenti penali.
Riccardo Rasman, 34 anni, muore in casa sua nel 2006. Soffriva di un disturbo schizoide, viene trovato con le manette e le mani dietro la schiena, filo di ferro alle caviglie, bavaglio alla bocca, lividi sulla schiena oltre che lesioni causate da un piede di porco e un manico di ascia. La morte sopraggiunge per asfissia posturale.
E si potrebbe continuare.
Il rischio è quello di cadere nella demagogia populista, delle signore di paese, “son drogati, ben gli sta”, ma a ben guardare la maggior parte di noi avrebbe potuto essere al posto di un Aldovrandi o un Gugliotta. Attenzione, non si vuol far di tutta l’erba un fascio; le nostre forze dell’ordine fanno quotidianamente uno splendido lavoro ed è giusto che possano lavorare serenamente, e a maggior ragione quello che si condanna e che si dovrebbe condannare universalmente è la gratuità del gesto violento, nel quale vengono riversate le frustrazioni personali, lo sfogo sul vulnerabile. Al posto della condanna decisa di certi eventi, utile anche per ripulire un’immagine sempre più infangata di un corpo di polizia visto come fascista e violento, si ha invece un atteggiamento attendista, imbarazzato, come se di questa patata bollente non si sappia poi che farne.