Camminano piano, ma ne hanno fatta di strada, gli zombie. Il film che li ha consacrati – “La notte dei morti viventi”, di George A. Romero – è del 1968. A distanza di 42 anni, assistiamo oggi a un ritorno in auge di questi mostracci.
D’altronde, se si chiamano “morti viventi”, un motivo ci sarà.
Dopo la passione per i vampiri (a patto che siano emo e portino capigliature assurde) e un breve e praticamente ignorato rigurgito per i lupi mannari, è dunque tornato il momento degli zombie che, se apparentemente, rispetto agli altri mostri classici, possono sembrare la cosa più lontana dall’archetipo dell’umanità, sono a una seconda analisi la più vicina.
Tecnicamente, in gergo Fantastico, sono chiamati “non-morti”: cadaveri, che non si possono quindi definire vivi, ma che continuano a muoversi, camminare, mangiare.
In origine erano immortali; non potevano essere uccisi, se non dal rispettivo Bokor, ovvero lo stregone Hoodoo che li aveva rianimati. È proprio da questo genere di cultura della magia necromantica africana che scrittori di libri, film ma soprattutto fumetti andarono a pescare per presentare al pubblico i morti viventi. Fino al 1968 questi mostri erano semplici cadaveri rianimati più o meno temporaneamente dal necromante di turno. Niente analisi psico-sociologica: gli zombie e il loro Bokor erano cattivi affamati di carne umana, e l’eroe li doveva sconfiggere (riuscendoci praticamente ogni volta), fine della storia.
Poi arriva questo tizio chiamato George A. Romero, un giovane cineasta indipendente che con un budget ridotto e un cast e una troupe di amici e conoscenti, tira fuori “La notte dei morti viventi”. Il film ha un impatto devastante su critica e pubblico: mentre la prima corre ai ripari sconsigliando a chi può di evitare di andare a vedere “una costante orgia di sadismo” (Variety), “un film spazzatura, alquanto sciocco” (New york Times), i fortunati che vedono il film al cinema hanno il primo, gustosissimo assaggio di quel genere che avrebbe presto preso il nome di “splatter”.
Il seguito ufficiale del film di Romero – “Dawn of the dead” (“Zombi” in italiano) – uscì ben dieci anni dopo, a opera dello stesso regista, ma nel frattempo era già iniziata la zombie-mania, grazie a remake, spinoff, sequel e prequel apocrifi, e quant’altro. Certo, ebbe il suo peso il fatto che il primo film, per un errore del distributore, uscì senza copyright (motivo questo per cui trovate in videoteca novantamila versioni dvd diverse del film, e per cui potete scaricarlo gratuitamente da internet, ad esempio qui), ma non fu solo questo. Romero aveva cambiato il modo di fare film horror. In particolare, è interessante analizzare i cambiamenti riguardanti gli zombie: Romero li rese ben più temibili dei loro parenti Hoodoo, descrivendoli come incoscienti mostri senza padrone affamati di carne umana; ne moltiplicò a dismisura il numero, attribuendo la loro creazione a un non meglio specificato virus, ma contemporaneamente li fornì di un punto debole, che prima non avevano: il cervello. Gli zombie post-Romero, insomma, sarebbero paradossalmente più facili da uccidere, rispetto ai loro antenati Haitiani, ma la loro terribile, angosciante, disperante e inesorabile avanzata, per quanto lenta, spinge i protagonisti dei film a impazzire e/o litigare tra loro ben prima che gli zombie arrivino materialmente a scoperchiar loro il cranio e nutrirsi della loro materia cerebrale.
Dopo “Zombi”, Romero ha curato la regia di “Day of the dead” (1985), “Land of the dead” (2005), “Diary of the dead” (2007) e il recente “Survival of the dead” (2009). Si deduce quindi che la passione per i morti viventi non è mai ufficialmente passata – se saltiamo a piè pari gli anni ’90, dominati da una sfilza di mostri nuovi come Freddy Krueger o Jason Vorhees – ma assistiamo oggi a un vero e proprio revival. Libri, fumetti, film, e uno dei più importanti tra i nuovi media: i videogiochi.
È ormai un bestseller il libro di Seth Grahame-Smith, “Orgoglio e pregiudizio e Zombie”, remake del classico di Jane Austen reso un po’ più brillante dalla presenza dei non-morti. La formula si è rivelata così fruttuosa che il libro ha dato origine a un vero e proprio nuovo filone letterario.
Non si contano i fumetti di zombie. È del 2005 la miniserie Marvel in cui gli autori si divertono a zombificare i loro ben noti supereroi, ma non mancano certo serie dedicate ex-novo al fenomeno. Anche in Italia, il Dylan Dog di Tiziano Sclavi esordisce nel 1986 con l’albo intitolato “L’alba dei morti viventi”.
Inutile dire come il cinema abbia fatto un’ingorda scorta di zombie. Se la maggior parte delle produzioni consistono in filmacci di serie Z, dobbiamo però anche rendere conto di esperimenti interessanti come quello di Danny Boyle (il regista di “The millionaire”) del 2002: “28 giorni dopo”, in cui assistiamo, per la prima volta dopo Romero, a una novità nella fisiologia dei morti viventi: il virus che ha causato il loro stato li rende rapidissimi e scattanti, demolendo il cliché della loro lentezza. Poco conta che se poi il film a metà deraglia completamente e perde di vista quello che voleva dire: l’idea è passata ed è stata apprezzata, tant’è che l’amorevole famiglia degli zombie da quel momento si divide in due, per sempre.
E sono infatti della seconda famiglia gli zombie del videogioco “Left 4 Dead”, di Valve, 2008, e relativo seguito dell’anno successivo. Il miglior gioco d’azione con zombie vede infatti assalti di immense orde di zombie corridori, e aggiunge alle paure già note la minaccia delle mutazioni genetiche: nascono zombie che esplodono, zombie che saltano decine di metri, zombie che sputano acido ed enormi zombie muscolosi capaci di lanciare automobili.
Non credo abbiate bisogno di me, per capire che ci siamo spinti ben oltre l’idea originale degli zombie.
E infatti, tutte queste novità e “aggiornamenti” non hanno fatto altro che de-metaforizzare e banalizzare sempre di più la figura dello zombie Romeriano. I mostri di “28 giorni dopo” sono senz’altro più letali e pericolosi, ma non hanno spessore; ci sono dieci volte più zombie nel videogioco “Dead Rising” che in tutti i film di Romero messi assieme, ma vengono fatti fuori mille volte più velocemente; al cinema è appena passato “The Horde”; in TV “The walking dead”, adattamento d’autore di una graphic novel del 2003. Grande, altri zombie! Però, se ci vediamo il pilot, scopriamo che si tratta di una seriuccia scialba e piatta, con un cast indegno e delle battute stantie e orribili, con un inizio copiato e incollato da “28 giorni dopo” e con una serie di cliché e di roba già vista. Non c’è nemmeno il tentativo di creare una sottolettura di profonda critica sociale come fece Romero 42 anni fa, si tratta solo di mostracci sfigurati che ci fanno paura solo perché vogliono mangiarci i cervelli. È paura “bassa”, di serie B; dovete ammetterlo.
Quello che Romero voleva fare nel 1968 – oltre a uno shockante horror pieno di sangue, ovviamente – era fornire una seconda chiave di lettura che ci permettesse di capire in che stato ci siamo ridotti come umanità, che ci permettesse di notare l’orrore strisciante della nostra realtà quotidiana.
Mi sembra già di vedere qualcuno di voi lettori che storce il naso e fa per chiudere il browser: quella che ho appena scritto è infatti la più ovvia analisi del lavoro di Romero, che avrete già sentito in tutte le salse e che potete trovare su internet scritta anche meglio di come ho fatto io (ad esempio qui).
È ovvia, sì, ma non commettete l’errore di ritenere banale ciò che è ormai entrato nell’immaginario collettivo. Approfondiamo un attimo…
Ne “la notte dei morti viventi”, oltre alla palese critica al razzismo, Romero ci offre l’opportunità di vedere come un gruppo di sconosciuti provi a cooperare per salvarsi la vita da una minaccia terribile e sconvolgente, invano. I personaggi del film muoiono uno dietro l’altro a causa di una serie di decisioni sconsiderate, di litigi interni, di una stupidissima spinta a prevalere gli uni sugli altri. Ciliegina sulla torta, il protagonista, unico superstite, viene scambiato per uno Zombie e ucciso da un gruppo di cacciatori, lasciandoci il dubbio che fossero più degli assassini forniti di una scusa per sparare cartucce a caso, che dei salvatori in cerca di sopravvissuti.
Ma è il secondo film, “Zombie”, del ’78, a forzare la mano sul concetto chiave che – mia opinione – regge ancora oggi la passione che la gente nutre nei confronti dei morti viventi: I MORTI SIAMO NOI.
Il film è tutto ambientato in un enorme centro commerciale, e vediamo gli zombie che continuano a fare quello che facevano in vita: vanno in giro con i carrelli della spesa, addormentati, senza senso e senza scopo, privi della luce della ragione, abbandonati ai loro pensieri.
Sì, certo, i morti viventi non hanno pensieri, ma vi faccio notare che – per fortuna – essi non esistono. Noi sì, però.
Siamo noi infatti, quelli che girano con i carrelli della spesa (o in macchina, o al lavoro…) pensando ad altro, privi della ragione, addormentati come zombie. Come ne “La notte dei morti viventi”, in situazioni che richiederebbero cooperazione e reciproco supporto sappiamo solo mostrare il peggio di noi, egoisticamente, stupidamente; come in “Zombi” tutto quello che pensiamo ci serva per vivere si trova all’interno di un centro commerciale, e siamo pronti a sacrificare la vita del nostro prossimo pur di avere l’ultimo telefono o vestito alla moda; come ne “Il giorno dei morti viventi” ci mettiamo a studiare lo zombie catturato e lo sbeffeggiamo, urlandogli contro la sua non-umanità. E non ci accorgiamo, nemmeno lontanamente, che siamo noi ad aver perso la nostra.
Tutto questa manfrina per dire cosa?
Di svegliarci un po’ e tirare fuori il caro vecchio senso critico. Non accontentiamoci di un po’ di make up su attori che ormai non sono nemmeno più credibili, muovendosi più come nel video di Thriller che come dei corpi morti magicamente animati! Non facciamoci bastare qualche scena d’azione con un po’ di budella finte che saltano qua e là!
Se constatiamo la povertà del prodotto, cosa rispondiamo quando ci viene chiesto “perché ti piacciono gli zombie? Perché ancora non ti sei rotto le palle?”
C’è dell’altro, oltre quell’inquietante cadavere che si avvicina a noi con le mani tese, la mascella disfatta e gli occhi vacui: c’è una spinta all’autoconoscenza.
Non fraintendiamo la spinta di quel pensiero profondo per una passione per gli Zombie a prescindere; non ingurgitiamo ciecamente tutto ciò che pubblicitari e presidenti di compagnie senza scrupoli ci rovesciano nel piatto. Cerchiamo di capire che non basta qualche secchiata di sangue finto per fare un film come “la notte dei morti viventi”.
“Quando non ci sarà più spazio all’inferno, i morti camminerano sulla terra”… Beh, vi dò la notizia: all’inferno stanno dando via gli ultimi posti proprio in questo momento. Affrettatevi o preparatevi alle conseguenze.
George A. Romero: “La notte dei morti viventi”, 1968. Wikipedia.
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