Abbiamo intervistato Luca Telese , attualmente giornalista de “Il Fatto Quotidiano” e di La7, che ci ha concesso una piacevole chiacchierata sui temi a noi cari della libertà di informazione e del mondo del giornalismo in Italia. Telese ha lavorato per dieci anni al Giornale, per poi passare al quotidiano diretto da Antonio Padellaro, oltre a essere autore televisivo (Chiambretti c’è, Batti e Ribatti, Cronache Marziane), conduttore di Tetris, si occupa anche della collana Sperling&Kupfer “Radici nel presente”, dedicata a vicende storico-politiche scomode.
Qui trovate il suo sito ufficiale e qui il suo blog su ilfattoquotidiano.it
Camminando Scalzi: Nella biografia di wikipedia a te dedicata si legge che sei stato “giornalista parlamentare ed ex portavoce del partito Rifondazione Comunista e poi nell’ufficio stampa del Movimento dei Comunisti Unitari” e che il 21 agosto 2008 ti sei definito “un comunista italiano a lungo impegnato in un giornale di destra”. Potresti raccontarci come sei riuscito a conciliare la linea editoriale del quotidiano in cui hai lavorato per 10 anni (Il Giornale) e le tue personali opinioni politiche?
Luca Telese: Quando sono entrato al Giornale ero dichiaratamente di sinistra; sapevano come la pensavo, e quindi mi hanno preso dicendomi “a te garantiremo la libertà di scrivere quello che pensi, non ti imbavaglieremo, perché di giornalisti di destra ne abbiamo già tanti”. Inoltre io facevo cronaca, non facevo editoriali. Raccontavo tendenzialmente quello che vedevo. C’è una cosa che spiego sempre, cioè che la libertà di stampa è una condizione soggettiva. Al Corriere della sera, dove ero prima, con un contratto che scadeva ogni tre mesi, ero oggettivamente più libero ma anche oggettivamente meno libero. Se invece sei in un giornale più schierato (come il Giornale), però ti hanno preso, ti hanno voluto e ti hanno fatto un contratto a tempo indeterminato, è il loro interesse che tu funzioni, non hanno interesse a imbavagliarti.
CS: Uno dei principi cardine della professione giornalistica è l’obiettività. Dalla tua esperienza personale ritieni che sia davvero possibile, per un giornalista, scegliere la notizia e raccontarla in modo neutrale e oggettivo?
LT: Non esiste la neutralità perché ogni racconto è per definizione soggettivo. Esiste la possibilità di essere onesti nel racconto che si fa ed esiste la possibilità di spiegare ai lettori, raccontare insieme a quello che si vede qual è il proprio punto di vista, qual è il proprio modo di vedere le cose. Quindi non è oggettivo, ma è onesto, questa è la grande differenza. Ovviamente ci deve essere un minimo di aderenza ai fatti, e c’è gente che viola anche quella. Ma tolta questa, c’è proprio un bisogno di raccontare. Io racconto quello che vedo e dico come lo vedo e perché.
CS: Il principio di obiettività si scontra molto spesso anche con le scelte editoriali del giornale per cui si scrive. Nel corso della tua carriera giornalistica hai mai subito pressioni politiche o censure?
LT: Sono stato licenziato più o meno sei volte, e ognuno di questi licenziamenti era una censura non riuscita. Quindi c’era una reazione, o il prodotto di una fama di rompicoglioni che uno si fa. I licenziamenti che ho avuto sono le censure che non ho accettato, diciamo.
CS: Dall’esterno il Fatto Quotidiano viene percepito come un giornale innovativo, perché non accetta finanziamenti pubblici ed è esclusivamente finanziato dalle vendite, dalla pubblicità e da una SpA realizzata ad hoc, dove ciascun azionista non può possedere oltre il 16% delle azioni complessive (per evitare che vi sia un azionista di maggioranza). Trovi che questa formula riesca a garantire una maggiore libertà al giornale? Per la tua personale esperienza, ad esempio, hai riscontrato delle differenze quando sei passato da Il Giornale (di proprietà della famiglia Berlusconi) a Il Fatto Quotidiano?
LT: Ho lasciato Il Giornale, in cui avevo un’ottima condizione personale, per poter costruire un giornale in cui ci fosse un’ottima condizione collettiva. Il Fatto è il primo giornale che io conosca, tra i tanti in cui ho lavorato, dove non c’è il cono d’ombra. Cioè il luogo buio dove non puoi scrivere, che è dove risiede la proprietà del giornale. Al Fatto questa cosa non c’è.
CS: Il giornalista Giuseppe Altamore nel libro “I padroni delle notizie”, ha scritto che la maggior parte degli introiti delle società editoriali oggi provengono dagli inserzionisti pubblicitari e che questo influenza molto le scelte dei direttori delle testate. Ritieni che abbia ragione? Pensi che, in un periodo di crisi della carta stampata, anche un giornale indipendente come il Fatto Quotidiano potrebbe cedere alle pressioni degli inserzionisti?
LT: Nel nostro caso non possiamo cedere perché già siamo un giornale che macina utili in maniera prodigiosa. Noi non abbiamo in questo momento nessun problema. Anche se avessimo pubblicità zero avremmo comunque dei profitti. Siamo un’isola felice e non abbiamo problemi di inserzioni. Non risentiamo della crisi. Siamo anche molto morigerati: avevamo un obiettivo di pareggio molto basso proprio perché non volevamo essere dipendenti da nessuno.
CS: Pensi che la libertà d’informazione in Italia sia compromessa dal noto conflitto d’interessi del premier Silvio Berlusconi? E come spieghi il fatto che la Freedom House ci collochi sempre in posizioni bassissime sul fronte della libertà di informazione?
LT: Sicuramente il conflitto di interessi è un grave vulnus che dovrebbe essere aggirato, ed è una delle coglionerie (sic) del centro-sinistra, una di quelle per cui si passa alla storia, il fatto di non aver cancellato il conflitto di interessi con una legge. È importante però anche dire che non è che Berlusconi vince perché ha le televisioni. Berlusconi vince perché è più convincente degli addormentati del centro-sinistra. Il conflitto di interessi c’è, e il tentativo di Berlusconi di controllare l’informazione anche. Anche i democristiani controllavano l’informazione, certo non con la scientificità. Si potrebbe battere Berlusconi anche se avesse sei canali. Detto questo, il conflitto di interessi c’è ed è una zavorra pesantissima per chiunque lavora nei giornali di Berlusconi. Il fatto che io fossi libero quando ero al Giornale è perché non scrivevo di Berlusconi. Se avessi scritto di Berlusconi sarei stato molto colpito dal conflitto di interessi. Il mio modo per ritagliarmi la mia libertà al Giornale era non scrivere di Berlusconi.
CS: Cosa pensi dell’Ordine dei giornalisti e del fatto che l’Italia sia uno dei pochissimi paesi europei ad averne uno? Tenendo conto delle svariate problematiche che affliggono il giornalismo italiano, ritieni che l’Ordine sia realmente in grado di tutelare la libertà di espressione dei giornalisti e il diritto di buona informazione dei lettori?
LT: Purtroppo l’Ordine in Italia è un apparato burocratico che solo ogni tanto si ricorda di quale dovrebbe essere la sua funzione. Amministra tendenzialmente dei fondi previdenziali (male), amministra una cassa sanitaria (male), e ogni tanto si ricorda di fare le grandi campagne in difesa della libertà di stampa. È un’anomalia che non è giustificata dal modo in cui lavorano.
CS: Il futuro dell’Informazione: ci troviamo in un’epoca in cui il giornalismo cede ogni giorno di più il passo a un’informazione dal basso, libera. La gente sta imparando a crearsi il proprio giornale virtuale, ed è una realtà che prende sempre più piede, con veri e propri scoop (vedi Wikileaks). Come dovrà evolversi il giornalismo tradizionale per sopravvivere?
LT: Il giornalismo tradizionale può sopravvivere se si rinnova. Se perde la presunzione di superiorità, se perde la sua assoluta capacità di appiattirsi sul potere, cosa che in questo momento non sembra abbia la minima intenzione di fare. Poi si dice la cazzata epocale “c’è la crisi ai giornali perché c’è Internet”. Il Fatto è un giornale che è nato da internet, è arrivato sulla carta dopo essere nato come sito. C’è sempre un enorme spazio di mercato per la carta. Quindi se i giornali si rinnovano e diventano interessanti hanno tutta la possibilità di vendere e guadagnare consensi e credibilità dai lettori. Non lo fanno; anzi fanno esattamente il contrario, di questi tempi. I giornali sono macchine di tristezza, sono chiusi a qualunque rinnovamento. Se arriva un giovane deve essere iperprecario e il babbione che sta accanto a lui deve guadagnare il doppio, sennò non funzionano, i giornali.
CS: Giovani e giornalismo. Una domanda secca e concisa: quale futuro c’è per i giovani che vogliono intraprendere questa carriera?
LT: Intanto dico di non cedere alla committenza. Tendenzialmente nei primi vent’anni della tua carriera tutto quello che ti chiedono è sbagliato, quindi uno dovrebbe fare il contrario. Quando entrai nei giornali mi chiedevano le cose che non mi piacevano e che non sapevo fare e che neanche a loro servivano; è proprio un esercizio sadico che i giornali di oggi fanno e che la generazione dei bolliti cinquanta-sessantenni tende ad applicare. Semplicemente loro ammazzano tutto quello che si muove, sono invidiosi del gap generazionale. Sono meno preparati e più cialtroni, quindi l’unico modo che hanno per dominare la nostra generazione e le successive è nonnizzarle; questa è la costante dei giornali italiani: analfabeti, impreparati, hanno studiato poco, tiravano il libretto agli esami, hanno un’idea vecchia del potere, quindi per loro il giornale non è manco la questione di fare il giornale, ma un luogo di potere. I giovani dovrebbero rifiutare tutti gli input, dato che tutto quello che ti chiedono è sbagliato. Dovrebbero formarsi per cazzi propri sulle cose che ritengono importanti (scusate la crudezza oxfordiana). E soprattutto crederci, perché alla fine ci si arriva. Tolti i servi e i raccomandati, in giro c’è una tale quantità di brocchi che alla fine si fa carriera.
CS: Ti ringraziamo per il tempo che ci hai dedicato.
LT: Grazie mille a voi tutti.