Rileggendo Accabadora

[stextbox id=”custom” big=”true”]Una nuova autrice su Camminando Scalzi!

Vi presentiamo Silvana Cerruti. All’interno dello SPI CGIL si occupa del  coordinamento donne pensionate e di Laboratori sulla memoria per rendere fruibili i ricordi degli anziani alle nuove generazioni. Uno dei suoi progetti “Il Laboratori delle memorie al femminile” ha vinto il premio Generazioni indetto da Liberetà mensile dello SPI CGIL . Il libro che raccoglie le  memorie si intitola “La guerra all’improvviso”.

L’articolo che state per leggere è una riflessione sul libro Accabadora, scaturita da una rilettura fatta una domenica pomeriggio….[/stextbox]

Michela Murgia, autrice dello splendido romanzo d’esordio Accabadora (Einaudi) ha vinto il Premio Campiello 2010, con 119 voti su 300.

Accabadora. ‘Acabar’, in spagnolo, significa finire. E in sardo accabadora è colei che finisce. Maria, bambina, vive in casa dell’anziana sarta Tzia Bonaria Urrai e tutti sanno a Soreni che, pur non essendo parenti, la piccola è destinata diventare la sua erede. Maria è spaventata dalle uscite notturne della vecchia vestita di nero, ma capirà che la sua è una pazienza quasi millenaria delle cose della vita e della morte. Il suo compito è quello di entrare nelle case per portare una morte pietosa: il gesto finale e amorevole dell’accabadora, l’ultima madre.[1]

Rileggo Accabadora. Ne voglio discutere con un gruppo di pensionate al “Posto delle fragole” di Riccione, il luogo in cui si incontra il coordinamento donne dello SPI.

Eutanasia –  testamento biologico – Eluana… sono rimasta folgorata quando ho capito la missione  di  Tzia Bonaria. Per questo desidero condurre una discussione sull’argomento e su tutte le implicazioni morali, etiche e sociali  che lo caratterizzano, partendo proprio da questo libro e aiutata dalla scrittura asciutta e incisiva di una grande Michela Murgia.

Continuare a occuparci dei grandi temi che dividono la politica  è indispensabile, e soprattutto non si deve fare l’errore di accantonarli  per seguire lo sfarfallìo mediatico del momento.

Prendo appunti perché  una parte di me rilegge il libro e l’altra continua a essere impantanata nello schifo dell’attualità che mi assedia, ed ecco a pagina 11 i pensieri si confondo e si uniscono:

Maria, ragazzina osserva in silenzio Tzia Bonaria che ufficialmente sembra faccia la sarta. Sta prendendo le misure a un uomo considerato importante, che è giunto accompagnato da una ragazzina:

“Tzia Bonaria non si lasciò impressionare e misurò Boriccu Silai con la cura che usava sempre, osservandogli le forme sotto la cintura con l’occhio esperto di chi dal poco capisce tutto.

–          Da che parte lo portate? – chiese alla fine secondo l’usanza dei sarti minuziosi, guardandogli la patta. Lui si voltò verso la ragazzina appoggiata al muro facendo un cenno con la testa.

–          A sinistra, – rispose  per lui…”

In silenzio la donna si alza e con fermezza, adducendo troppo lavoro lo manda da un’altra sarta. E conclude:  “Che vadano in malora, un lavoro perso… Ma di certe cose la misura esatta è meglio non conoscerla, Maria. Hai capito?”

Integrità morale? Dignità? Rettitudine? Non so che termine usare per descrivere questo atteggiamento, sono termini in rottamazione, non si usano più, mi rimane “disgusto”. Il disgusto può aiutarci a prendere le distanze dal malcostume, a scatenare una sana indignazione nei confronti di persone o situazioni che sono assunte al ruolo di normalità.

Michela Murgia

E non penso solo ai fatti di questi giorni, alla pochezza di un uomo, alle donne politiche che si ostinano a difendere un vecchio patetico satrapo. Penso a quella che viene considerata normalità: ai programmi in cui nei flash dello zapping intravedo vecchie signore svestite di paillettes che sculettano per accalappiare altrettanto vecchi signori, ragazze che furiosamente cercano di attirare l’attenzione di qualche giovane seduto su un trono, giovani donne che vestite da un filo interdentale  aiutano aitanti presentatori, bambini allo sbaraglio trasformati in maschere di se stessi per imitare cantanti famosi.

Cosa è accaduto al nostro paese, a una parte del popolo italiano?

Ritorno alle parole di Michela Murgia a pagina 62, Nicola per farsi giustizia da solo nei confronti di un vicino di casa che gli ha spostato i confini, dà fuoco al raccolto, ma mentre scappa un colpo di fucile lo raggiunge.

Otto testimoni  confermano che si è trattato di un incidente di caccia, il maresciallo dei carabinieri non ci crede ma : “Ci sono posti dove la verità e il parere della maggioranza sono due concetti sovrapponibili, e in quella misteriosa geografia del consenso, Soreni era una piccola capitale morale. Il verbale fu scritto, firmato e archiviato…”

La verità e il parere della maggioranza sono due concetti sovrapponibili, appunto.

Questo è diventato un paese dove una buona parte delle persone non ha ascolto, non ha senso critico, non è obiettiva e  se la prende con il dito di chi  indica loro la palude di malcostume che sta avanzando lentamente ma inesorabilmente sospinta dalla quotidiana insinuazione di quali siano i nuovi valori: l’apparire, il lusso, la sfrontatezza, l’impudenza, la menzogna.

Per uscirne dobbiamo alzare lo sguardo al di là dei nostri  orizzonti limitati dalla pressione mediatica manipolata, riprenderci la nostra dignità, darle voce  e fare ascoltare il  dissenso per spronare quelli che si dicono “politici” a creare una vera alternativa concreta e costruttiva e  vincere il timore di farsi carico delle proprie responsabilità.


[1] Accabadora di Michela Murgiahttp://www.Il messaggero.it

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2011, Istruzioni per l'uso.

Per questo nuovo anno, la sfida tra due colossi della tecnologia, Apple e Microsoft, si prospetta abbastanza interessante.

Apple, già dal 6 Gennaio, ha dato il via a un progetto del quale abbiamo già parlato in passato ovvero il Mac App Store, che pare abbia deluso molti sviluppatori (a causa di vari limiti), e in tanti sperano nell’arrivo di Cydia anche sul Mac (il cosidetto Jailbreak è una pratica che invalida la garanzia del prodotto, pertanto CS non lo consiglia, l’utilizzo è a rischio e pericolo dell’utente, ndCS).
Restando in ambito mac arriverà in estate il nuovo OsX chiamato Lion del quale abbiamo già parlato.
Nel settore mobile invece, tra maggio e giugno Steve Jobs (sperando guarisca presto) presenterà i nuovi modelli di i-phone 5 e di i-pad, e nei prossimi mesi sarà lanciata la versione bianca dell’i-phone 4.
Microsoft ha invece presentato, al CES di Las Vegas, tantissimi nuovi tablet sviluppati in collaborazione con Arm.
Instant fundas ha pubblicato la lista di tutti i modelli presentati, quindi l’elenco sotto non è altro che una traduzione della pagina per voi lettori di Camminando Scalzi:
Motorola XOOM
Uno dei migliori tablet presentati, senza dubbio. Basato sul sistema operativo mobile Google Android, versione 3.0, è stato “incoronato” come miglior gadget tecnologico di tutta la manifestazione.
Dotato di caratteristiche di tutto rispetto, la “tavoletta” prodotta da Motorola ha un largo display da 10.1″ (con risoluzione 1280 x 800 pixel), peso 730 grammi, processore dual core NVIDIA Tegra 2 da 1 GHz, 1 GB di RAM, due fotocamere (anteriore e posteriore) rispettivamente da 2 e 5 mpx con registrazione video in HD Ready (720p), memoria interna  da ben 32 GB, supporto al Wi-Fi, integrazione dei servizi online “sociali” quali Facebook, Picasa, Twitter.
Notion Ink Adam
La tavoletta d’India, durante il CES ha raccolto una sorprendente attenzione. Basato sul chip NVIDIA Tegra 2, nel tablet è installata una versione altamente personalizzata di Android 2.3 Gingerbread. Lo schermo è di 10.1 pollici con una risoluzione di 1024 x 600 pixel, possiede una fotocamera da 3.2 mpx girevole e uno slot per inserire le microSD.
Un tablet economico rispetto ai suoi rivali, visto che il prezzo si aggira da 376$ a 550$.
Tablet Acer
Iconia Tab A500
Acer certo non poteva stare a guardare mostrando, durante il CES, diversi interessantissimi tablet. Il primo di questi è Iconia Tab A500. Dispone di un display touchscreen da 10.1 pollici, un processore NVIDIA Tegra 2 da 1 GHz, compatibilità con le reti 4G Verizon, ovviamente negli USA visto che da noi questo tipo di connettività non ancora esiste.
Il sistema operativo installato è Android 3.0. Dispone di una porta USB 2.0, micro USB per l’inserimento dell’apposito cavo, uscita HDMI. Presente anche, nella parte posteriore, una fotocamera con flash LED.
Iconia Dual Screen
Un prodotto rivoluzionario, senza ombra di dubbio. Si tratta di un portatile (sì, un vero e proprio PC) avente un doppio schermo touch screen senza tastiera fisica. Ambo i display hanno 14 pollici con risoluzione 1366 x 768, multi-tocuh, processore Intel Core i5 nelle varianti 480M / 560M / 580M. Processore grafico Intel da 128 MB di RAM, porta VGA e HDMI, microfono integrato, 2 porte USB 2.0 ed una 3.0. Al suo interno è presente Windows 7.
Vizio Tablet
La tavoletta Vizio Tablet è un “piccolo” tablet avente un display da 8 pollici, basato su Android, montante un processore da 1 GHz, 4 GB di spazio disponibile, slot per le microSD, porta microUSB e HDMI. Ulteriori dettagli non sono stati resi noti.
BlackBerry PlayBook
Anche BlackBerry non manca di certo all’appello. Ha da poco mostrato un suo tablet dalle caratteristiche di tutto rispetto. Display da 7 pollici, CPU da 1 GHz, 1 GB di RAM, fotocamera anteriore da 3 mpx, posteriore da 5 (con registrazione video in HD), il tutto condito dal sistema operativo BlackBerry Tablet OS.
La connettività è ben farcita: Wi-Fi, Bluetooth, microUSB, porta HDMI.
MSI Winpads
MSI ha mostrato due tablet. Uno basato su Windows 7 Home Premium (modello Winpad 100W) e l’altro basato su Android (modello 100A).
Per quanto riguarda il primo, è alimentato da un processore da 1.66 Ghz Intel Atom Z530, 2 GB di RAM ed un dico SSD da 32 GB di memoria. Presenti inoltre due porte USB, una HDMI, una webcam e un lettore di schede di memorie SD. Inoltre, il tablet dispone del G-Sensor (un dispositivo di rilevamento), un localizzatore GPS, un sensore ambientale, Wi-Fi con l’opzione 3G disponibile. Insomma, un vero e proprio PC!
L’altro tablet, equipaggiato con Android, differisce dal primo per il chip ARM Cortex A8 e per la quantità di RAM inferiore, 1 GB. Il resto delle specifiche sono identiche al suo “gemello”.
Asus Eee Pad Transformer
Forse il più accattivante. Si tratta di un tablet “convertibile” in un vero e proprio netbook. Dotato di un display da 10.1 pollici, può essere separato dalla tastiera o può essere collegato alla periferica. Dispone di una CPU NVIDIA Tegra 2, 512 MB di RAM per eseguire Android 3.0 (Honeycomb). Ha il bluetooth, WLAN, due fotocamere, un lettore di schede SD e una porta HDMI.
Asus Eee Pad Slider
Un vero e proprio PC portatile dotato di una tastiera fisica e uno schermo che, a “scivolo” può coprire e mostrare i tasti. Anch’esso ha una CPU NVIDIA Tegra 2 con 512/1 GB di memoria. Le altre specifiche, per la maggior parte, sono del tutto simili al modello precedentemente descritto.
Asus Slate EP121
Si tratta del più potente tablet esistente. Ha caratteristiche hardware straordinarie: CPU Intel Core i5M, fino a 4 GB di RAM, disco SSD da 64 GB, display da 12.1 pollici con tecnologia IPS e risoluzione 1280 x 800, wireless-N, HDMI, USB, bluetooth 3.0, lettore schede SD, fotocamera 2 megapixel, Windows 7 Home Premium.
Samsung Sliding PC 7
Altro dispositivo a scorrimento presentato al CES 2011. Viene fornito con una CPU Intel Z670, un ampio display da 12.1 pollici con risoluzione 1366 x 768, 2 GB di RAM e disco SSD da 32 GB. Opzionalmente potrà integrare anche la nuova tecnologia WiMAX. La connettività è 3G e il sistema operativo installato è Windows 7.
Lenovo LePad
Il tablet di Lenovo è equipaggiato con Android, una CPU dual core Snapdragon da 1.3 Ghz, 1 GB di memoria e disco SSD disponibili nelle varianti da 16 e 32 GB. La risoluzione dello schermo è di 1280 x 800 pixel. Dispone di bluetooth, Wi-Fi, 3G, uno slot per una SIM ed una webcam. L’interfaccia utente, basata su Android, è stata completamente personalizzata da Lenovo.
Dell Streak 7
Funzionante con Android 2.2 (aggiornabile alla versione 3.0), il tablet prodotto da Dell dispone di un display da 7 pollici, processore dual core Nvidia Tegra 2 da 1 Ghz e 16 GB di memoria interna. Ha una fotocamera posteriore da 5 megapixel nella parte posteriore, un’altra da 1.3 megapixel nella parte anteriore per effettuare le videochiamate.
Toshiba 10.1-Inch Tablet
Toshiba ha presentato un tablet da 10.1 pollici alimentato da una CPU Tegra 2 con sistema operativo Android 3.0. Lo schermo ha una risoluzione di 1280 x 800 pixel, visualizza video a 720p e 1080p, ha una porta HDMI, una doppia fotocamera, una porta USB, Wi-Fi, bluetooth e GPS.
Tra le novità “future” di Microsoft, il rilascio di una nuova versione di Internet Explorer e dell’arrivo di Kinect su pc.
Tornando agli smartphone non dimentichiamoci di Android, OS proprietario della grande G, che nel mercato degli smartphone è in continua crescita e a un passo dal superare gli avversari di Cupertino.
Per quanto riguarda i tablet android ha chiuso il 2010 uscendo nettamente sconfitto da iPad, che attualmente detiene il 90% delle quote di mercato, secondo una ricerca condotta da IMS Research.
Sarà quindi un anno duro, e sicuramente “quelli di Android” andranno molto avanti. Hanno già annunciato una nuova versione del sistema operativo che passerà alla versione 4.0 e che prenderà probabilmente il nome di “Ice Cream” rispettando la tradizione di nominare ciascuna versione del software con nomi di dolciumi: Cupcake, Donut, Eclair, Froyo, Gingerbread, Honeycomb e infine ICE CREAM.

Tra marea nera e fanghi rossi

Martedì 11 gennaio 2011, nelle coste di Porto Torres, la petroliera Emerald ormeggiata nel terminal di Fiume Santo (polo chimico del nord Sardegna al confine con il Parco Naturale dell’Asinara) sta immettendo olio combustibile nelle condotte d’alimentazione di uno dei due gruppi ad olio ancora attivi nell’impianto della società tedesca EON, una fra le aziende energetiche più grandi al mondo.

Il nero petrolio che da oltre due settimane colora le limpide acque marine delle coste settentrionali dell’isola oramai comincia a tingere anche i 18 km di spiagge colpite da questa deprimente catastrofe naturale, da Porto Torres a Punta Tramontana… Enormi chiazze di liquido scuro e nauseabondo si stanno infatti formando sopra e sotto la sabbia, e nessuno è ancora in grado di stabilire l’entità dei danni ambientali di tale disastro.

E’ stato un “imprevedibile guasto meccanico nella linea di drenaggio del collettore manichette posizionato all’interno della banchina”, hanno dichiarato i responsabili di EON. Ci sono però molte questioni che non quadrano, come spiega il giornale online Ecologiae. “Prima di tutto l’allarme – spiega Marco Mancini – lanciato 36 ore dopo la fuoriuscita del carburante dalla nave cisterna Esmeralda”. Quel fatidico martedì notte scorre infatti senza interventi o segnalazioni, senza che nessuno decida di assumersi le responsabilità dell’accaduto, e “quando risuona l’allarme è oramai troppo tardi – spiega Agora Vox il 26 gennaio. – Il mare è stato violentato da 18.000 litri di catrame misto ad olio”.

Nelle ore successive all’incidente il sindaco Beniamino Scarpa venne peraltro più volte tranquillizzato con la garanzia, da parte dell’azienda responsabile, che non ci fossero pericoli né problemi di alcun genere. Nel frattempo, da Platamona a Stintino, davanti all’area marina protetta del Parco Nazionale dell’Asinara, le chiazze d’olio continuano a spostarsi verso l’arcipelago protetto della Maddalena.

Intanto i quotidiani parlano di un piano dell’Eni che avrebbe in progetto di installare nella stessa zona il più grande deposito costiero di idrocarburi del Mediterraneo, incrementando quindi il traffico delle navi cisterna e, di conseguenza, il rischio di ulteriori incidenti…

Un tempo si parlava di Sardegna come di un’isola da sogno, dove i paesaggi inviolati e la natura incontaminata riuscivano ad attirare visitatori da tutto il mondo e rendevano gli abitanti del territorio orgogliosi di essere nati in una terra così meravigliosa. Oggi i quotidiani parlano invece della marea nera di Porto Torres, della sindrome di Quirra per l’uranio impoverito prodotto dal poligono militare, dei fanghi rossi dell’Eurallumina di Portovesme e delle mutazioni genetiche nel dna dei bambini che vivono nella zona dello stabilimento petrolchimico di Sarroch.

La rabbia prende quindi il sopravvento, ed io comincio a chiedermi fino a che punto dovremo arrivare, noi sardi, per capire quale tesoro siamo stati capaci di svendere al peggior offerente e quanto lo rimpiangeremo il giorno in cui non avremo più la possibilità di tornare indietro…

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Sindrome del burnout ovvero lavoratori “in fiamme”

[stextbox id=”custom” big=”true”]Una nuova autrice su Camminando Scalzi!

Betty Bradshaw è un medico specialista, una ricercatrice che si definisce la “Mafalda” del suo settore: contestataria, ribelle, preoccupata per le sorti del mondo, incallita utopista… nel suo primo articolo ci parla della “sindrome del burnout”…. buona lettura! [/stextbox]

Può sembrare paradossale che in questi tempi devastati da una dilagante disoccupazione si decida di trattare proprio il tema del burnout. Tuttavia, continuando a leggere si comprenderà come, in realtà, questa sindrome ben si collochi nel momento storico e sociale che stiamo vivendo.

Il termine burnout, in inglese, significa “bruciarsi”. La sindrome da burnout (o semplicemente burnout) è definita come “l’esito patologico di un processo stressogeno che colpisce le persone che esercitano professioni d’aiuto, qualora queste non rispondano in maniera adeguata a carichi eccessivi di stress che il proprio lavoro li porta ad assumere”. Per “professioni d’aiuto” s’intendono quei lavori nei quali l’individuo si relaziona con un soggetto che necessita della sua prestazione: ad esempio medici, infermieri, insegnanti, operatori sociali, psicologi, avvocati, ricercatori, forze dell’ordine. Lo stress di cui si caricano questi individui non è solo quello del lavoro in sé, ma anche quello della persona assistita.

Tuttavia, poiché i problemi che ne scaturiscono pervadono l’impegno, le emozioni e il rapporto che la persona ha nei confronti del proprio lavoro, questa sindrome è identificabile in qualsiasi organizzazione professionale.

Quali sono le cause del burnout?

Il sovraccarico di lavoro è uno dei principali elementi scatenanti: il carico di lavoro è tale da non permettere all’individuo di recuperare energia fisica e psichica. Pensiamo agli operai FIAT che hanno appena “subìto” la riduzione delle pause di lavoro, ai medici che fanno turni ininterrotti di 24 ore, ai ricercatori (sottopagati o non pagati…) che non hanno orari o formule di controllo sul tempo trascorso sul posto di lavoro, a chi svolge professioni con turnazioni massacranti, spesso decise insindacabilmente ai vertici: queste persone andranno inevitabilmente incontro a un sovraccarico… E con quali ripercussioni?

Analogamente, se il tipo di lavoro non è adatto alla persona, alle sue competenze e possibilità, il soggetto si sentirà disorientato, frustrato, incapace di svolgere correttamente le proprie mansioni, temendo di commettere errori e, in alcuni casi, compromettendo la propria posizione e mettendo a rischio gli eventuali destinatari. Gli esempi si sprecano: laureati che fanno i postini (con tutto il rispetto per i postini), operai, infermieri e impiegati spostati da un reparto all’altro a prescindere dalle competenze acquisite, persone che accettano mansioni fisicamente onerose, pur non possedendo i requisiti fisici per svolgerle… E potremmo andare avanti all’infinito.

Anche l’eccesso di carico emotivo è fonte di stress e disagio psichico: la morte, la vita, la povertà, la miseria, le tragedie, il degrado cui sono esposte ogni giorno molte categorie professionali (ad esempio i soccorritori, le forze dell’ordine, gli oncologi, gli operatori sociali) non possono essere illimitati. Deve esistere una via di uscita istituzionale (e non la psicoterapia a spese del singolo) ove incanalare le “scorie tossiche” che questi professionisti si portano sulle spalle.

E ancora: quando il lavoratore ritiene che ciò che fa o vuole fare non riesca a influire sull’esito di un determinato evento sviluppa un senso di impotenza. L’esempio balza immediatamente all’occhio: tutti coloro che lavorano in strutture dove codici etici, morali, procedurali, economici predefiniti e immodificabili travalicano qualsiasi principio del singolo individuo. Un esempio per tutti? Pensiamo a un medico obbligato a non praticare o praticare aborti, a rianimare o non rianimare un malato, coscienza personale a prescindere.

E continuiamo con la mancanza di controllo, di riconoscimento, di senso di comunità e di equità che dilaga nella stragrande maggioranza dei posti di lavoro. Quanti di noi hanno dovuto fronteggiare richieste iperboliche senza avere a disposizione le informazioni e le risorse per poterle soddisfare? Quante volte abbiamo atteso speranzosi un “grazie!” che non è mai arrivato? Con quanta tristezza abbiamo costatato che non potevamo fidarci dell’intorno, che dietro le spalle occhieggiavano sciacalli pronti a occupare la nostra sedia e impugnare il progetto cui stavamo dando anima e corpo? Quante persone ci hanno “sorpassato” (se non addirittura scavalcato) senza che esistesse un valido e giusto motivo perché ciò accadesse?

E dunque, viste le cause, quali sono i frutti di questa minuziosa semina? Quali sono le conseguenze per chi è affetto da burnout?

Esaurimento emotivo, disturbi psichiatrici, senso di scarsa realizzazione personale, inutilità e inadeguatezza.

A seguire: rabbia, frustrazione, cinismo, aggressività, assenteismo, comportamenti di fuga e allontanamento dal posto di lavoro, scadimento della qualità di vita e del lavoro.

E infine, morte professionale. Con progressivo abbandono dell’individuo a stili di vita pericolosi per sé e per gli altri (abuso di sostanze, commissione di reati…). In alcuni e non pochi casi sfortunati lo sfilacciamento esistenziale conduce sino al suicidio.

È possibile che molti stiano pensando: in questo momento il lavoro è sacrosanto, fortunato chi ce l’ha (qualunque esso sia) e bando alle ciance medico-psicologiche! Ma è sbagliato pensarla così! In primis, il burnout non riguarda solo i lavoratori che ne sono afflitti: chi affiderebbe suo figlio alle cure di un chirurgo che è diventato cinico, è aggressivo e non dorme da 22 ore? Chi prenderebbe un treno sapendo che il conducente è depresso e ha fatto 4 notti di fila, cercando di dormire di giorno in mezzo al “trambusto” di pensieri angosciosi? Chi si sottoporrebbe a una nuova terapia, “scoperta” dall’incompetente figlio del Barone Rampante, cui il comitato etico e scientifico non possono dire di no?

Il burnout è un problema collettivo e riguarda tutti, in ogni momento! Ancor di più se un tasso di disoccupazione preoccupante spinge inevitabilmente le persone ad accettare sempre e comunque un lavoro, a qualsiasi condizione.

E infine, sforziamoci di guardare oltre la “crosta” fatta di paura, di senso di precarietà, di instabilità, di vuoto: oltre c’è il dovere e il diritto di svolgere un lavoro decoroso, adatto alle proprie competenze, rispettoso delle esigenze fisiche e psicologiche di ognuno,  guidati da una leadership non machiavellica, bensì astuta e lungimirante, capace di intuire che un lavoratore soddisfatto delle proprie mansioni, inserito in un contesto equo e nella condizione di svolgere e non di “subire” un lavoro rende molto di più di un lavoratore “bruciato”.

Il primo articolo della Costituzione recita infatti: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”… non su un falò.

Fonte | wikipedia

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Ci stiamo ricascando.

Ne parlavo proprio qualche giorno fa qui su Camminando Scalzi: la strategia – tutta italiana – adottata di aspettare che le acque si calmino (magari confondendo un po’ le idee e usando i media come neanche il Joker di Frank Miller) distribuendo bugie, false verità, ma soprattutto – unico obiettivo da raggiungere – convincendo le persone. Se una cosa la ripeti in TV una, due, dieci, cento volte, quella cosa, per quanto possa essere falsa, comincerà ad avere una sua autonomia, una sua identità. Inizierà a comparire il dubbio “e se fosse così? Se fosse davvero perseguitato dai giudici?”. Ovviamente mi riferisco a una certa fetta di pubblico, conscio (e speranzoso) che molti di voi la TV non la accendano neanche più viste le condizioni in cui versa oggi. Mi riferisco a quella fetta di pubblico che idolatra Maria De Filippi, che passa i pomeriggi a vedere Uomini e Donne con i vecchi che si corteggiano, in uno squallido spettacolo ridicolo e patetico, che fugge dalla realtà quotidiana, dalla crisi e da tutto il resto… Fetta di pubblico (elettorato-pubblico) facilmente influenzabile, tanto cattolica-praticante sotto certi punti di vista quanto omertosa-senzaopinione dall’altra. Insomma: con una mano prego, con l’altra nascondo i miei (e gli altrui) peccati nelle tasche sporche, sperando vengano dimenticati. Vi ricorda qualcuno?

L’analogia è semplice, e spiega un concetto che ormai comincia a entrare nelle teste di tutti noi. Il nostro Imperatore Maximo B. rappresenta quella fetta di italiani a cui piacciono i culi, le tette, le raccomandazioni e la vittoria a tutti i costi. Perché lui è uno che ce l’ha fatta, e vogliono tutti diventare come lui. Ecco perché ha sempre ragione. Anche quando ci sono sospetti (e ben più che sospetti, spesso) che combini cose fuori dal normale, invece rimane tutto assolutamente normale, tutto statico. I cattivi giornali dell’Opposizione sbraitano inutilmente, i movimenti politici di opposizione cercano di aizzare le folle e sperare in una reazione; reazione che non arriva mai, perché siamo sempre incastrati in questo adorabile maledetto Paese dove un Premier è sospettato dell’organizzazione di festini osè, ma nessuno si indigna, nessuno dice niente. Sì ok, si sbraita, si fanno i post sui blog di protesta, si linkano le vignette anti-B. su Facebook, si fanno quattro proclami, ma chi lo dovrebbe prendere e mandare a casa sua (prima) e dai giudici (poi), non fa niente. Rimangono tutti lì in un limbo, ad aspettare che anche questa tempesta passi, quasi spaventati di fronte alla possibilità di dover prendere in mano la situazione. E poco importa che l’Imperatore Maximo non durerà per sempre. Per ora c’è, e speriamo che duri a lungo. Procrastinate at procrastination.

Ci stiamo ricascando ancora una volta. Passano i giorni, appaiono discutibili memorie difensive in cui TUTTO quello che è accaduto appare finto, falso, si smontano le costruzioni dei PM (cattivi PM! Subito una leggina punitiva per loro, dannati persecutori! Cattivi!), si cerca prima di tutto di fare un processo mediatico (ma non erano loro a dire che la Sinistra fa i processi mediatici?), si scagiona il Premier in tutte le sedi possibili e immaginabili (soprattutto le sue di sedi, tipo la Rai e Mediaset), si invita Ruby a fare la parte della santa da Signorini (e non si capisce chi sia più diabolico tra i due… Roba da pelle d’oca), perseguitata e aiutata dal Santo Imperatore Maximo. Un uomo buono, ma così buono che aiuta tante ragazze (possibilmente belle), che paga affitti, che dona soldi… Ma così, per bontà d’animo. Ma com’è che tra tante persone aiutate non si sente parlare mai di una vecchina rimasta senza un soldo, di un terremotato, di un disoccupato che ha tre figli da curare? Strano eh? Stranissimo.

Ma insomma, basta continuare a dire che è solo un semplice benefattore, a ripeterlo una, dieci, cento, mille volte. Prima o poi qualcuno ci crederà, e poi qualcun altro. E nel frattempo la faccenda sarà dimenticata, così come tutte le altre, a suon di Santanchè che urla nei programmi televisivi (e poi se ne va), di telefonate di B. (che come una adolescente chiama, urla, insulta, e poi attacca), e di tutti gli esponenti di centrodestra che difendono a spada tratta il Premier, anche sull’indifendibile affaire delle prostitute ad Arcore (ma guai a chiamarle prostitute eh! Si mina la dignità delle donne… Mica organizzando feste e lap dance, ma chiamandole prostitute, stiamo bene attenti…)

Chi di dovere, il Presidente della Repubblica, le altre forze politiche, ma anche i suoi alleati che conservano ancora un briciolo di dignità politica e non siano ridotti a ripetere le sue parole in eterno, faccia qualcosa. Quest’uomo è il peggior Premier che l’Italia potesse avere, perché rappresenta tutte le debolezze e tutti i difetti del Paese, li estremizza, e li trasforma in virtù.

Non caschiamoci di nuovo.

L'oro di Napoli è tornato

Se siete tifosi del Napoli ed avete meno di ventiquattro-venticinque anni allora questa è la miglior stagione di sempre della vostra squadra del cuore da quando la seguite. Già, perchè gli azzurri non adavano così bene in campionato dalla stagione del secondo scudetto, che risale al 1990. Scomodare Maradona e compagni è una cosa blasfema, ma proviamo a fare comunque un paragone. Il Napoli ha quaranta punti dopo ventuno partite attualmente: a quei tempi “El pibe de oro” e compagni col conteggio odierno ne avrebbero avuti quarantaquattro (quanti ne ha il Milan, attuale capolista della Serie A), contando anche due gare in più del girone di ritorno, visto che a quei tempi si giocavano andata e ritorno di diciassette giornate per trentaquattro complessive.

C’è però da sottolineare una cosa. Quel Napoli storico di successi in trasferta ne fece solamente due, non sei come la truppa di Mazzarri, con la principale differenza che fu l’assoluta superiorità schiacciante nelle partite casalinghe, quando al “San Paolo” anche il solo pareggiare per le squadre avversarie era una gioia immensa. Cosa hanno invece in comune? Vediamo i confronti diretti con le grandi. In quell’anno il risultato al “Meazza” contro l’Inter fu lo stesso, ovvero un tre a uno per i nerazzurri (al San Paolo però fu due a zero per il Napoli). Contro la Juventus successo per tre a uno  Napoli (la tripletta di Cavani ha duque fatto anche meglio) ed un pari a Torino. Contro il Milan un successo per parte (e qui per eguagliare Lavezzi e compagni dovrebbero espugnare San Siro). Con i tre punti a vittoria il Napoli di Maradona avrebbe chiuso a settantadue punti, con una media di 2,11 punti per match. Per fare lo stesso l’attuale formazione partenopea dovrebbe chiudere ad ottanta punti, forse davvero troppi considerando che dovrebbe farne altri quaranta, ma quel che è certo è che un Napoli così bello non si vedeva da quei tempi. Il capocannoniere fu Maradona con sedici gol e Cavani è già a quattordici.

Visto che il Napoli è ancora in corsa su tre fronti (Villareal e soprattutto Inter permettendo) proviamo anche a fare un parallelisimo anche sulla Coppa Italia. Gli azzurri non la vincono dal 1987 (anno del primo scudetto) ma sono arrivati in finale nel 1989 (perdendo nel doppio confronto con la Sampdoria di Vialli, Mancini e Pagliuca) e nel 1997 (la dolorosa sconfitta col Vicenza, dove non bastò l’uno a zero dell’andata firmato da Fabio Pecchia, ribaltato dal tre a zero targato Maini-Rossi-Iannuzzi. Come andò invece nel 1989-90? Così così, perchè dopo i turni preliminari, che erano simili a quelli odierni, le cose promettevano bene ma finirono male. Al primo turno venne eliminato il Monza ai rigori dopo l’uno a uno del San Paolo, con errore decisivo del portiere lombardo Davide Pinato e rete di Giuliani, mentre al secondo venne spazzata via la Reggina per due a zero sul neutro di Avellino. Si giocò poi una fase a gironi, con le dodici squadre rimaste divise in quattro gruppi con la prima che si sarebbe qualificata per le semifinali ed il Napoli regolò Bologna e Fiorentia. La semifinale col Milan però fu amara: dopo lo zero a zero del “Meazza” arrivò un clamoroso 1-3 al “San Paolo ed addio Coppa.

Chiudiamo anche con una comparazione sui singoli. Questo Napoli segna molto di più rispetto a quello, ma subisce anche troppe reti, nonostante De Sanctis sia a mio parere nettamente meglio di Giuliani. Baroni e Corradini erano così superiori a Cannavaro e Campagnaro? Probabilmente, ma non si tratta di un distacco abissale. Centrocampo? Moduli diversi, ma comprimari identici. Gargano non è Alemao e Pazienza non è Crippa ok, ma è anche vero che un trittico d’attacco come Hamsik-Lavezzi-Cavani viene battuto solo perchè il Napoli del 1990 aveva il più grande giocatore della storia di questo sport. Abbiamo scherzato forse, ma nonostante una comparazione rimanga scomodissima alle pendici del Vesuvio è più che lecito sognare.

Mai come quest’anno.

Immigrazione: convivenza modello Gran Torino

[stextbox id=”custom” big=”true”]Torna a scrivere per Camminando Scalzi Giovanni Paci, consulente e ricercatore indipendente che opera nel campo della programmazione e dell’analisi delle politiche e dei servizi sociali. Ha 45 anni. È editor del blog pratichesociali dove vengono raccolti contributi sui temi della giustizia sociale, dei diritti umani, delle migrazioni e della ricerca sociale. È possibile seguirlo anche su Twitter.

A questo link i suoi articoli per questa blogzine. [/stextbox]

Ci sono due modi di essere curiosi del mondo, due modi di esplorare la realtà che ci circonda. C’è chi è portato a cercare e a muoversi nell’infinitamente grande e chi nell’infinitamente piccolo. Chi è attratto dalla profondità del mare e chi dalla sua estensione. Chi prende la via che porta alla vetta del monte, chi imbocca la strada che porta dall’altra parte del mondo. Talvolta queste esigenze hanno, dentro di noi, un peso uguale e ci troviamo tirati e lacerati tra il desiderio di radici, di casa, di terra, e quello di lontananza, di distacco, di spazio. Superficialmente, queste dimensioni sono state spesso contrapposte, identificando le radici nella conservazione e la partenza con il progresso. C’è invece una straordinaria consonanza tra chi cerca in profondità e chi in estensione, ed è provocata dal sincero desiderio di non dare per scontato ciò che abbiamo di fronte, dall’intuizione che le cose sono sempre più di ciò che appaiono e dall’aver compreso che non accettare la realtà per come ci viene rappresentata ma andare alla ricerca di nuove visioni e rappresentazioni del mondo può riservarci straordinarie sorprese.

Clint Eastwood ha diretto e interpretato un bellissimo film, uscito quasi tre anni fa, intitolato “Gran Torino“. Un vecchio operaio della Ford in pensione, reduce della guerra di Corea e vedovo, non vuole andare via dalla propria casa sebbene il quartiere in cui vive sia ormai diventato un ghetto degradato abitato da immigrati, soprattutto orientali. Lì ha tutte le sue cose: oltre alla Ford modello Gran Torino, un garage pieno di attrezzi e oggetti accumulati in una vita; piccole cose, ognuna con il proprio senso e significato. Il film si snoda lungo l’intrecciarsi delle esistenze del vecchio pensionato scorbutico e diffidente con quelle dei vicini vietnamiti, soprattutto di un ragazzo e di sua sorella, con cui il vecchio entrerà sempre più in sintonia fino a trovare nella difesa della loro vita il senso ultimo della propria esistenza.

La poesia del film è data non solo dai contrasti tra la durezza del mondo esterno e la dolcezza degli animi dei protagonisti ma anche dalla scoperta che vite apparentemente così lontane, come quella di un reduce di guerra attaccato alla propria terra e alla propria patria e quelle di due ragazzi immigrati di seconda generazione, hanno in realtà un ampio terreno comune dove poter costruire relazioni profonde e significative.

Cos’è che permette tutto questo? Cosa fa sì che si possano sperimentare sentimenti profondi come l’amicizia, il rispetto, l’amore fraterno tra chi vive la propria esistenza legato alle radici e chi è alla ricerca di nuovi approdi e nuovi riferimenti? Cos’è che permette non solo la convivenza ma la relazione profonda tra persone tanto diverse che si trovano a condividere lo stesso spazio vitale, lo stesso pezzo di strada, la stessa bottega, lo stesso barbiere, lo stesso ospedale? Il vecchio operaio pensionato non fa sconti a sé stesso. Sa benissimo che la vita lo costringe continuamente a fare i conti con i propri errori, e che restare legato alle proprie radici, alle piccole e grandi cose della propria esistenza non può mai essere una forma di difesa dagli altri, ma un modo per non fuggire dalle proprie responsabilità e per non perdere le proprie risorse morali. I giovani immigrati non fanno sconti a loro stessi. Sanno che occorre andare al di là delle apparenze, delle barriere, delle paure, se vogliono conquistarsi la dignità a cui hanno diritto. Sanno che non ci sono scorciatoie per realizzare una vita degna di questo nome: rispetto di sé e degli altri, coraggio di aprirsi al nuovo che li circonda.

Tra chi esplora il mondo muovendosi – per desiderio o perché costretto – e chi esplora il mondo restando a casa – per desiderio o perché costretto – c’è uno spazio immenso di comprensione e di relazione. Chi dice il contrario, o ha paura o ha interessi di piccolo cabotaggio. Non è facile discutere con loro: magari potremmo consigliargli un buon film.

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Umberto Rotondi – La musica come Idea.

L’ estetica musicale di Umberto Rotondi si può benissimo sintetizzare con una frase dei suoi appunti, questa riportata nel libretto del cd: “Penso. Dunque non sono”.  Essa è carica di molteplici significati. Traspare la sottile ironia con cui si capovolge il sillogismo cartesiano “Penso. Dunque sono”, ironia che è anche auto-ironia. Ma la considerazione più importante è che il suo è pensiero puro: non vi è altro rapporto con le cose se non con la loro stessa essenza. Potremmo dire: Perotinus, Bach, Varese e quindi Rotondi. Egli si professa platonico asceta della musica e missionario dell’arte. Rotondi fu persona introversa, schiva a qualsiasi velleità di palcoscenico e di pubblici proclami; dopo un brillante successo ottenuto a inizio carriera – un Leone d’oro alla mostra del cinema di Venezia per il commento sonoro di alcuni documentari naturalistici – si chiuse nell’amore della sua missione musicale.

Questo cd monografico è frutto della stretta collaborazione no-profit  tra la Bottega musicale “Santa Maria de Jesu”, creata e diretta dal M° Enrico Renna e l’Espressivo Studio, del M° Carlo Speltri, con sede a Rotondi (curiosa omonimia del destino).  Gli interpreti sono i discepoli della Bottega musicale, tutti con alle spalle una formazione accademica di diverso grado e tutti con un progetto condiviso: fare musica nella sacralità del convento S.Antonio di Oppido Lucano, ospiti di P. Pellegrino Tramutola e P. Adelmo Monaco, musica con  spirito di comunità. Sono lontani l’ambiente chiassoso e caotico della città e il mondo musicale fatto di solisti e primedonne. Il disco costituisce il doveroso omaggio a un compositore che ha avuto poche glorie in vita, come molti grandi nella storia della musica,ed è un prezioso documento delle sue opere, di cui l’umile spirito è destinato a conservarsi grazie alla memoria dei suoi discepoli e delle generazioni successive.

Tracklist

1. Cinque episodi per arpa
2. Fantasia per clavicembalo
3. Osservando i disegni di Marzia per chitarra
4. Il tocco della medusa per pianoforte
5. Brucia lassù alto  per chitarra (U. Rotondi/ E. Renna)
6. Pour Livia   per violoncello
7. Marcia funebre  per pianoforte
8. Cinque miniature   per voce femminile e pianoforte (su testi di Marco Vitale)
9. Per Annamaria, ovvero, il flauto  per flauto

La miope strategia della Fiat di Marchionne

Il referendum proposto da Marchionne alla sede FIAT di Mirafiori è passato con 2.735 sì contro 2.325 no. Una percentuale del 54,05% di votanti favorevoli, che pare abbiano raggiunto la maggioranza soprattutto grazie al voto degli impiegati. Ma “il discorso sugli impiegati è fin troppo facile – spiega Paolo Griseri su La Repubblica online del 16 gennaio 2011. – Il loro livello di autonomia sul lavoro è molto alto; non fanno i turni, non hanno il problema delle pause, in buon parte fanno parte del sistema gerarchico di controllo aziendale. C’è da stupirsi che ben 20 abbiano votato no. Gli altri 421 hanno detto sì. Ma se si escludono gli impiegati dal conto, la fabbrica è divisa come una mela: 2.315 sì e 2.306 no”.

Appena 9 voti in più per i favorevoli, anche se tra le tute blu della catena di montaggio, laddove il lavoro è più duro, è stato il “no” a prevalere: chiaro indice della preoccupazione degli operai che subiranno le conseguenze di questo nuovo accordo. Sono loro che dovranno far scendere il livello medio di assenteismo sotto il 6% (ora è all’8%), altrimenti da luglio 2011 i dipendenti che si assenteranno per malattie brevi (non oltre i cinque giorni) a ridosso delle feste, delle ferie o del riposo settimanale per più di due volte in un anno non gli verrà pagato il primo giorno di malattia. Dal 2012 se l’assenteismo non sarà sceso sotto il 4% i giorni di malattia non pagati saranno invece due. Le ore obbligatorie di straordinario passeranno da 40 a 120 all’anno, con 15 sabati lavorativi, e come già previsto per lo stabilimento di Pomigliano, coloro che non rispetteranno gli impegni assunti con l’accordo rischieranno sanzioni in relazione a contributi sindacali, permessi per direttivi e permessi sindacali aggiuntivi allo Statuto dei Lavoratori (fonte: Il Fatto Quotidiano). E questi sono solo alcuni dei punti inseriti dal referendum…

Oggi Marchionne parla di una “sfida per la nuova Fiat, con stipendi tedeschi e azioni per gli operai”. Resta solo da capire se la sfida di investire nel mercato internazionale dei suv troverà un riscontro positivo nella realtà o si trasformerà nell’ennesima illusione di un’azienda incapace di mettersi davvero in gioco.

Viviamo in una società afflitta dall’inquinamento dell’aria, dalla carenza di parcheggi, dal caro benzina e da una crisi economica che non incentiva particolarmente la vendita di automobili troppo costose. Viviamo in una società in cui il mercato dell’auto si è praticamente saturato, con una media di due macchine per ogni nucleo familiare. Viviamo in una società in cui si parla di auto ibride, elettriche, di riduzione del traffico, di incentivi sui mezzi di trasporto pubblico e car sharing, e tutto ciò che la geniale mente di Marchionne riesce a partorire è un investimento su jeep e suv da vendere oltreoceano?! Più che una sfida questa decisione mi pare una scelta miope, tesa ad assecondare solo il peggio del mercato globale, dove la competizione arriva a mettere in discussione le pause degli operai e i loro giorni di malattia per adeguarsi ai peggiori standard di lavoro e produzione. Un sistema in cui si gioca sempre al ribasso, coi diritti e la qualità della vita, perché tanto a rimetterci sono sempre e soltanto i soliti poveri stronzi…

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L’invincibile B.

Parlare di politica in questi giorni tumultuosi è veramente difficile. L’ennesima vicenda giudiziaria che ha colpito il nostro Imperatore Maximo la fa da padrone su tutti gli organi di stampa. Non si sente parlare d’altro: Ruby, Nicole Minetti, il giro di squillo, le notti bunga bunga

Un’atmosfera desolante, in un momento in cui il Paese ha tantissimi problemi, problemi di non facile soluzione, mentre tutta l’attenzione si sposta sull’ennesimo vizietto politico, sull’ennesima vicenda degradante che coinvolge il Presidente del Consiglio. Siamo stanchi. Siamo stanchi di vederci rappresentati da una persona che ha degli evidenti problemi a rapportarsi con le donne (per dirla politically correct), che viene coinvolto in uno scandalo che in qualsiasi altro paese occidentale avrebbe portato alle immediate dimissioni di chiunque, dal sottosegretario al ministro, dall’assessore del comune di venti abitanti al capo di stato. Da noi non funziona così, e lo sappiamo bene. Ma siamo stanchi anche di questo, di dire “da noi non è così” o “da un’altra parte non sarebbe successo”. Siamo stanchi di quindici e passa anni di governo berlusconiano, di scandali, di processi rinviati, di legittimi impedimenti.

Cadono le braccia. Viene da pensare che il Silvio Berlusconi sia davvero invincibile. Rappresenta il più grosso problema della politica italiana, ne è il portabandiera: il rimanere attaccati alla propria poltrona. Poco importa il modo, l’importante è il risultato, in una distorsione totalmente negativa del machiavellico fine che giustifica i mezzi. E pazienza se si va a trans, se si va a puttane o se si manda a puttane il Paese in cui viviamo. L’importante è rimanere attaccati nella posizione più ambita da tutti, quella inattaccabile.

Immagino un normale cittadino che si fosse trovato invischiato nella stessa brutta vicenda (ultima di tante.) Sarebbe stato processato, arrestato e tutto il resto senza neanche passare dal via. Ma se sei un politico hai un’arma in più. È come pescare “uscite gratis di prigione” al Monopoly; qui si chiamerebbe “non andate mai a fare un processo”. Siamo stanchi di questo degrado politico, di questa politica vecchia. Nel 2011 stiamo ancora a farci mille domande sulle notti brave del premier, a chiederci chi sia la fidanzata immaginaria apparsa casualmente proprio in questo momento di scandalo. Cosa deve accadere perché questo Paese si indigni e si svegli una volta per tutte e mandi a casa un uomo anziano che si sta distruggendo da solo ossessionato dai suoi vizi? Possibile che dobbiamo ancora sentire frasi politically correct come quella del Presidente della Repubblica che dice “Serve chiarezza”? Serve chiarezza? Ma siamo davvero diventati così stupidi e inutilmente garantisti? Sei coinvolto in uno scandalo sessuale dai contorni inquietanti? Bene, a casa, vatti a difendere, poi se ne riparla.

È ovvio che tutte le cose andranno provate in sede giudiziaria, che le prove andranno vagliate (sebbene le evidenze di fatto siano già sotto gli occhi di tutti, ad esempio qui), che bisognerà vedere se è tutto vero  e tutto il resto, e su questo non ci piove. Ma in una situazione del genere bisogna prendersi la responsabilità morale e politica di dire “ok, mi avete accusato, mi dimetto e mi difendo in tribunale”. Tutto qua. Fantascienza.

L’Imperatore Maximo sembra davvero “invincibile”, rimane là sul suo trono, respinge ogni attacco, attorniato dai suoi fedelissimi che lo difendono a spada tratta, da una Chiesa che misteriosamente tace in questi giorni (ma d’altronde si sa, fanno più male alla famiglia i DICO che le puttane minorenni e le porno-orgie del potere)… ma sì, sarà tutto inventato, aspettiamo che si sgonfi anche questa faccenda, magari portando Ruby in TV dal suddito Signorini, rimontiamo la storia, convinciamo la gente che è stata tutta una bufala. Passate un paio di settimane ce lo saremmo dimenticati tutti questo brutto evento, si sgonfierà. Ed ecco il più grande potere dell’Imperatore: qualsiasi cosa accada, nega, evita i tribunali, si arrocca nel suo palazzo, e con un po’ di tempo e pazienza tutto si dimentica. È stato così per scandali ben più gravi (da un punto di vista politico) nel passato, dei tanti soldi pubblici sperperati, dei risultati non raggiunti e tutto il resto, figuriamoci se non ci riesce anche questa volta per quattro ragazze sgallettate. La storia della D’Addario ce lo ha dimostrato non più tardi di un anno fa. O Noemi Letizia. Che fine hanno fatto queste vicende? Ce le siamo dimenticate, semplicemente, perché si parla di altro, perché si tentenna, perché ognuno vuole rimanere al proprio posto, e guai a rompere l’equilibrio delle cose.

Poi pazienza se il nostro capo di Governo, la persona che dovrebbe rappresentare tutto il Paese, che dovrebbe essere dotata di un’etica e di una moralità al di sopra del comune, abbia il leggero vizietto di organizzare serate che manco Alvaro Vitali ai tempi d’oro avrebbe immaginato.

La cosa sconcertante e triste e che, in tutto questo, a prenderlo in quel posto siamo sempre noi comuni cittadini. E a noi manco ci pagano…