[stextbox id=”custom” big=”true”] Vi presentiamo oggi la nostra nuova rubrica, (pre)Cari Amici, che si occuperà di tutte le diverse forme di precariato che ci sono nella attuale società italiana. È un nuovo esperimento per Camminando Scalzi che richiede la vostra partecipazione, la vostra voce diretta. Vogliamo dare parola a tutte quelle persone che si trovano in una condizione di precariato (non per forza soltanto lavorativa), che sono costrette a combattere ogni giorno contro l’indistruttibile muro dell’incertezza del proprio futuro e dell’impossibilità di poter fare progetti a lungo termine nella propria vita. Questa rubrica nasce proprio per dare la voce al comune cittadino ogni giorno costretto a combattere per le cose che gli spetterebbero di diritto, un cittadino che vive lontano da una realtà politica arroccata nelle sue cattedrali d’ebano, lontane, lontanissime dalla realtà quotidiana. E noi riteniamo che sia importante farvi raccontare le vostre storie, sfogarvi, denunciare quello che non funziona nella nostra società. La nostra prima storia è quella di Daniela Scarpa, che ci racconta cosa significa essere contemporaneamente madre e aspirare a voler fare il proprio lavoro, quello dell’architetto. Vi auguriamo buona lettura, e vi invitamo a raccontarci la vostra storia, contattandoci cliccando sul riquadro qui a lato.
La redazione di Camminando Scalzi[/stextbox]
Sono un architetto e sono una mamma.
Lotto per poter rendere reale questa affermazione senza trovarmi costretta a precisare la triste e raccapricciante verità: ero un architetto appassionato e brillante e la mia scelta di diventare mamma mi costringe da ormai undici mesi a una pausa professionale. Dico pausa per non dire brusca fermata a tempo indeterminato, parole che meglio descrivono la mia reale situazione, ma che non amo pronunciare perché rimango un’inguaribile ottimista.
Ma cominciamo dal principio della mia storia, un racconto che potrebbe essere quello di ogni giovane donna che, come me, si affaccia armata di buoni propositi, tanti sogni e mille speranze al complicato mondo del lavoro nel nostro Paese. Vorrei poter dire di essere una precaria ma, purtroppo, non mi spetta neanche questo tanto discusso titolo. Si cerca di fare qualcosa per sanare la ferita del precariato in Italia dimenticandosi che c’è chi sta anche peggio.
Sono una libera professionista e scriverlo mi provoca ogni volta un misto di ilarità e disperazione. I giovani architetti italiani, quelli fortunati che come me hanno trovato il modo di impegnarsi in qualcosa il più possibile simile a un lavoro, spesso collaborano con studi professionali avviati, per accumulare esperienza, per seguire lavori interessanti e soprattutto per assicurarsi un fisso mensile che, anche se minimo, è senza dubbio fondamentale in un mondo che offre poche opportunità persino a chi è sul mercato da decenni. Nell’attesa di avviare la tanto bramata libera professione, la maggioranza degli architetti finisce a fare nient’altro che il dipendente per un altro architetto, sopportandone gli umori e le pretese, senza la neppur minima garanzia sociale tipica di tutti i lavori dipendenti, a tempo indeterminato o precari che siano. Quello che si instaura nel nostro campo è una collaborazione tra professionisti in possesso di partita iva; questo tipo di rapporto in genere prevede una fattura mensile di quota fissa che il professionista titolare dello studio rilascia al collaboratore esterno selezionato, in cambio del suo impegno a portare avanti uno o più progetti, senza vincoli di presenza in studio o orari fissi.
Detta così non sembrerebbe neanche poi così male. Ma soffermandosi un attimo salta agli occhi la paradossale situazione di chi, come ho fatto io per circa sette anni, trascorre le sue giornate (e nottate…) chiuso in uno studio non suo senza avere la possibilità di dedicarsi a nient’altro, guadagnando un fisso minimo che dovrebbe essere completato da introiti ottenuti da lavori personali, lavori che nella realtà non possono essere cercati né portati avanti per mancanza di tempo. Siamo di fronte a un tipo di collaborazione flessibile sulla carta, ma che nella realtà si tramuta in una sorta di schiavitù legalizzata perché scelta liberamente dal professionista che offre la sua collaborazione, se di scelta si può parlare. Sì perché l’alternativa all’accettare queste assurde condizioni è non lavorare presso gli studi di architettura, e dunque non lavorare. Neanche a dirlo, in questi rapporti professionali, anche se protratti negli anni, non esiste alcun tipo contratto o accordo scritto. Niente trattamento di fine rapporto, niente malattia o ferie pagate, nessun tipo di assistenza. Una giungla selvaggia dove chi è più forte riesce a malapena a sopravvivere.
Come potete immaginare la situazione si complica quando una donna, a trent’anni suonati, decide che è giunta l’ora di diventare mamma; una scelta consapevole che fino a vent’anni fa era legittima e quasi scontata, ma che al giorno d’oggi è considerata pura follia. Per una giovane architetto diventare mamma significa, nella maggioranza dei casi, perdere il lavoro. Una mamma non può dedicarsi completamente alla finta collaborazione esterna e flessibile proposta dagli studi di architettura perché, nella realtà, ciò che si richiede è un impegno e una dedizione totale, ovviamente non compatibile con gli impegni di una donna che deve occuparsi dei propri figli. Diventare mamma significa smettere di guadagnare da un giorno all’altro, interrompere ogni attività professionale e ottenere, se si è fortunate, la famosa pacca sulla spalla con tanti auguri per la nuova vita. Diventare mamma significa ignorare a che cosa si va incontro, non sapere se mai qualcuno avrà di nuovo voglia di offrirti un lavoro, vivere senza avere la minima idea di che direzione prenderà la propria vita professionale; significa vivere nell’incertezza totale e accettare di essere mantenuta (scusate la bassezza del termine ma è quello che più si avvicina alla realtà delle cose) per un tempo non definito dal marito o dal compagno di turno, con l’aiuto aggiuntivo dei propri genitori felici e grati del nuovo ruolo di nonni. D’improvviso ci si sente incapaci di badare a sé stesse e al figlio in arrivo, pervase da un senso di impotenza e di delusione. Certo, dimenticavo, voi mi direte che ci sono i premi di maternità degli enti previdenziali. Avete ragione: grazie ai 4000€ lordi ricevuti dalla Cassa degli Architetti e degli Ingegneri, vivrò felice e contenta fino al compimento dei diciotto anni di mio figlio. Con una retta di circa duemila euro all’anno (che ovviamente continuo a pagare) la somma ricevuta è davvero generosa e utile.
Insomma una donna che ha lavorato con impegno e passione per tanti anni, che in molti casi ha acceso un mutuo per l’acquisto di una casa, che altre volte ha un affitto da pagare, che in ogni caso aveva una sua vita portata avanti grazie a un lavoro impegnativo e totalizzante quale è fare l’architetto, d’improvviso si ritrova senza la possibilità di sopravvivere se non accettando generosi aiuti esterni . Con l’umiliazione e la frustrazione annesse. In più la cosa peggiore è la triste scoperta che, nel nostro campo, a quegli studi così bravi a spremerti e a usarti quando sei giovane e senza pensieri, il lavoro di una mamma che ha la sola esigenza di una reale flessibilità e di orari semplicemente umani non interessa più.
Mio figlio ha undici mesi e a oggi, nonostante l’impegno quotidiano nella ricerca di un lavoro che possa sposarsi con l’essere mamma, sono a casa senza far nulla. Nessuna possibilità di collaborazioni part time. Nessuna offerta di collaborazioni interne o esterne che siano. Nessuna proposta e nessun contatto. Niente di niente.
Solo il rimpianto di non essere riuscita prima ad avviare un qualcosa che assomigliasse a una libera professione, di non esserci riuscita per l’impegno dedicato a quelle stesse persone che oggi rifiutano il mio lavoro.
Solo tanta rabbia. La rabbia di chi ha impiegato la sua vita per cercare di costruire qualcosa di bello ed è costretto a fermarsi, a riporre tutto in un cassetto e a sperare – perché la speranza è l’unica cosa che rimane – di riaprirlo un giorno.
In un Paese che non fa altro che parlare di festini e droga, giovani donne e vecchi malati, mi chiedo se non sia ora di dedicarsi alle cose serie, tipo provare a regalare la serenità alle giovani famiglie che stanno cercando con tutte le loro forze di costruire il proprio futuro.
Daniela Scarpa