Il viaggio è un fenomeno antico dettato dalla voglia di cambiare, di conoscere e di scoprire.
Una ricerca che può essere indefinita ma è determinata dal bisogno personale e indiscutibile di condizioni migliori. Probabilmente del sé e della propria identità. “Everyone wants to be found”. Bob e Charlotte possono definirsi due turisti in questo senso: la loro esperienza di viaggio permette il superamento del confine e della prospettiva di origine, abilita al dialogo costruttivo e mette alla prova.
La solitudine del protagonista incontra al bar dell’albergo quella di Scarlett Johansson, moglie trascurata di un fotografo in carriera. I due si sbirciano, si raccontano, frequentano le mille luci e qualche karaoke di una città in perenne fibrillazione a perdere. Infine si separano, dicendosi qualcosa di ovvio che pure non sapremo mai. La regista Sofia Coppola racconta il viaggio di Bob e Charlotte su un doppio binario: da un lato dà un affresco realistico dell’ultramoderna società giapponese, che cerca di conciliare la propria cultura con quella occidentale. È anche questo a provocare nei due protagonisti un senso di smarrimento: si ritrovano faccia a faccia con una società che, sulle prime, sembra declinata in eccesso su quella dell’ovest ma che risulta di fatto inaccessibile e misteriosa.
La sapienza registica della Coppola riesce, con classe e profonda sensibilità psicologica, a usare come metafora una società straniante per raccontare il fallimento di due vite sentimentali e della vita di coppia giunta al capolinea. Il film da un certo momento vira, cambia rotta e diventa più privato, si lascia alle spalle tutta l’alienazione provocata da una metropoli soffocante. La regia si rifugia nelle camere di Bob e Charlotte riprendendoli quando si contorcono sul letto non riuscendo a dormire, nelle varie sale dell’hotel dove soggiornano, affetti da quel mal di vivere così simile per entrambi. I dialoghi sorprendentemente calzanti, astratti ma allo stesso tempo profondi, lasciano intuire più che spiegare. Il tutto viene facilitato dall’evidente vitalità del rapporto fra i due personaggi, che interagiscono dando un tono di leggerezza e tenerezza a tutto il film; nei loro sguardi e nei loro silenzi.
È questo il senso del loro viaggio. Lost in translation è un film fatto di attimi, sguardi ed emozioni: è riservato a chi ha provato quel languore irripetibile che attraversa lo stomaco quando ci si innamora di uno sconosciuto. E non importa se è al bar di una città che non si conosce o un giardino pubblico. Toglie il respiro.
L’eccezionalità sta nella vulnerabilità e nella malinconia che traspaiono dietro la maschera umoristica, in sostanza, in quel particolare sentimento definito “il piacere della tristezza”. Dopo “Il giardino delle vergini suicide”, Sofia Coppola si conferma cineasta fatta e finita: scrive (premiata con l’Oscar) e dirige con mano sicura, non confonde sentimento e sentimentalismo, trae prestazioni strepitose dagli attori. È cinema che intriga. Fa viaggiare. E pensare. Come recita la colonna sonora, è dedicato a chi sogna e pretende per sés “more than this”.
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