Santa Maradona: la sregolatezza pura mi esalta

Torino. Andrea, Bart, Lucia e Dolores: giovani, carini e disoccupati. Basterebbero queste tre parole per riassumere in breve il senso e la trama di questo lavoro, uno scorcio di vita in una città non più tetra e satanica – come la tradizione vuole – ma che, anche se solare e pulita, respinge in ogni modo i suoi figli. Andrea è quello che le prova tutte per avere un posto di lavoro degno della sua laurea in lettere ma senza fortuna; Bart invece, è sempre davanti alla televisione al limite dello stress; i due sono amici e dividono lo stesso appartamento, in costante gara fra loro a chi racconta cazzate sempre più stupide e inutili. Lucia, indiana, è a un esame dalla laurea mentre Dolores è il compromesso lavorativo della quale Andrea s’innamora. Il lavoro come nuova maledizione che si abbatte su questa città, la Juventus come squadra vincente, il compromesso come tradimento. Saltando da un colloquio di lavoro all’altro, Andrea si innamora perdutamente di Dolores contro la quale sbatte un pomeriggio mentre si precipita correndo a un appuntamento con l’ennesimo direttore del personale. Una storia d’amore improvvisa e appassionata che paradossalmente sarà d’aiuto a tutti i protagonisti, spingendoli a ritentare il salto: inventarsi un nuovo futuro e cambiare tutto ciò che non piace.

Cosa significa il titolo ce lo spiega il regista : “Santa Maradona è una canzone di Manu Chao del 1994, che – compresa la tournée ancora in corso – il cantante franco-spagnolo utilizza per chiudere i suoi concerti. In questa canzone si mescolano cori da stadio, telecronache, musica punk: un modo di rendere epico il mondo del pallone. Maradona diventa un santo protettore che vegliava sugli italiani e che ora non c’è più. Gli hanno aggiunto Santa come per metterlo sul calendario. Nel film c’è questa stessa commistione di elementi: commedia, azione, dramma, cartoni animati, musica, e naturalmente calcio. E un’analoga voglia di rendere epico il quotidiano: due persone che parlano, il volto di una persona che si ama, le chiacchiere quotidiane.”

Ma l’avventura dei quattro avanza rapidamente tra battute salaci e divertenti, fino alla discussione urlata tra Andrea e Bart, che si vomitano addosso verità dure e drammaticamente dolorose.

Questo dialogo serrato è uno scatto ben preciso delle paure, delle insicurezze, dell’insoddisfazione che ci spinge a cercare qualcosa di meglio. Per quelli che dell’aperitivo in centro alle sei, della passeggiata al parco e del cinema la domenica pomeriggio si sono rotti i coglioni. Perché a volte siamo tormentati dal desiderio perenne di cose lontane, dalla ricerca di un altrove che non conosciamo, dalla volontà di fare qualcosa convinti che si possa cambiare e fare meglio.

Perché spesso ci troviamo risucchiati da un vortice, da quel movimento continuo da cui non riusciamo a uscire. E ci rende insoddisfatti, scalpitanti e desiderosi di abbandonare il vecchio per la ricerca di un altrove. Sullo sfondo, una Torino che è sinonimo di sicurezza, continuità e impegno garantiti dalla fabbrica. Con il rischio di perdere la percezione di sé, delle proprie idee e della propria personalità. Perché diciamolo: molti di noi hanno giurato “Non farò mai la fine dei miei genitori”.

Non perché disprezziamo le loro scelte ma pensiamo di volere altro con tempi, modi, ritmi diversi. Cosa sia poi questo altro è da definire.

Ma spesso ci lasciamo travolgere da meccanismi in cui non ci riconosciamo e viviamo come se fossimo distaccati da noi stessi, per inerzia o abitudine. Università, lavoro, amici di sempre, partite di calcetto e magari il grande amore. Accontentarsi? O forse è la normalità la vera rivoluzione?

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L’uomo in più: questo sconosciuto

L’uomo in più.

Un film che è un capolavoro assoluto.

Un film che chi lo ha visto lo ha amato.

Un film che è troppo sconosciuto.

Non si può non rendere onore a Sorrentino per questo film.

Questa non è una recensione, è un osanna a questo lungometraggio.

Due personaggi, stesso nome, caratteristiche e caratteri opposti.

Due modi diversi di affrontare il successo e il declino, due persone fondamentalmente deboli, insicure, come la maggior parte di noi, che affrontano la vita come meglio sanno fare. La vita ci pone davanti a delle scelte e delle situazioni che affrontiamo quotidianamente e cerchiamo di farlo alla nostra maniera, pensando che sia quella migliore.

Con i nostri stessi occhi è difficile guardare i nostri errori e ancora di più ammetterli.

Con i nostri stessi occhi è difficile capire chi è la persona di cui ci possiamo fidare, e ancora più difficile comportarsi sempre in modo che lei si possa fidare di noi.

Ma quando poi ci rendiamo conto di alcune cose, la reazione può essere inaspettata.

Nel film i due personaggi sono interpretati benissimo da Toni Servillo e Andrea Renzi; gesti, abitudini, movimenti ma soprattutto parole e modo di parlare ci fanno entrare in una realtà parallela, dove abbiamo a che fare con uomini veri e non con attori. Tutti i personaggi che girano intorno ai protagonisti sono vicini a noi: li incontriamo nei bar, per strada, in ufficio. Ci sono personaggi viscidi, mediocri e personaggi semplici, forse pure un po’ all’antica, che forse sono la parte più sana della società descritta. La critica spietata al mondo del calcio e dello spettacolo si fonde, senza dover trovare colpi di scena eclatanti, nella descrizione dei momenti di vita quotidiana dei protagonisti, che si ritrovano spesso in completa solitudine. La timidezza e la sobrietà di Antonio Pisapia viene congelata in due parole, quando in televisione riceve i complimenti per un goal in rovesciata lui ribadisce: “mezza rovesciata”. La strafottenza e la spavalderia di Tony Pisapia viene espressa magistralmente nel lungo monologo finale, ma bastano anche qui tre parole, che vengono ripetute varie volte nel corso del film: “mi sono svegliato tardi”, quando motiva alla figlia la sua assenza al funerale del padre.

Il film è un cult per i fan di Sorrentino, ma in generale per i cacciatori di citazioni… Non c’è frase che rimanga dimenticata, non c’è espressione che non diventi icona; l’ambientazione napoletana, inoltre, facilita l’immaginazione (per chi è della zona) nella costruzione della connessione fra i due, punto che fino alla fine lascia in bilico lo spettatore.

Insomma, iniziamo con la meritocrazia: questo è un filmone!

Il molosso

Gli articoli della rubrica sono disponibili anche su www.polsodipuma.blogspot.com

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