Provate a chiedere a chiunque di elencarvi i paesi dove si sta combattendo una guerra. Nella migliore delle ipotesi i conflitti conosciuti non arriveranno a dieci, ma la maggior parte delle persone si limiterà a citarvi i nomi delle guerre famose, quelle di cui possiamo seguire quotidianamente gli sviluppi grazie alle notizie diffuse a raffica dalla carta stampata e dai telegiornali: Israele-Palestina, Libia, Afghanistan, Iraq saranno gli stati che quasi tutti pronunceranno, convinti di aver dato una risposta esauriente.
Purtroppo il triste elenco dei paesi che da anni sono devastati da guerre civili, lotte fra diverse etnie, ribellioni contro tiranni oppressivi e regimi militari è molto molto più lungo. Attualmente nel mondo le guerre in corso sono trentuno. Guerre che causano tantissimi morti ogni giorno e che andrebbero raccontate, tutte quante, senza nessun pregiudizio e senza decidere a tavolino quelle da rendere famose e quelle da lasciare lì, nel dimenticatoio (abbiamo linkato un elenco nell’articolo “La legione dei pacifinti” di Griso, ricordate? ndR).
Ma perché certe guerre diventano l’argomento preferito di tutti i telegiornali e le testate giornalistiche nazionali, mentre certe altre vengono accuratamente evitate? E ancora, perché la comunità internazionale e gli stati definiti “democratici” si battono per liberare alcuni popoli da regimi oppressivi, mentre ignorano e si disinteressano a situazioni altrettanto cruente e disperate?
Per rispondere a queste domande bisogna affrontare l’argomento in un modo decisamente più ampio. Senza scendere nei dettagli di ogni conflitto, ognuno politicamente e strategicamente diverso, si possono trovare delle linee guida che ci aiutino a capire come mai non tutte le guerre sono uguali.
Un’analisi più approfondita della situazione attuale ci porta a individuare tre possibili strategie che in genere vengono adottate dagli stati che esportano democrazia nel Pianeta (per quello che può significare “esportare democrazia”).
La prima consiste nell’intervento armato contro uno degli schieramenti in guerra. L’obiettivo ufficiale è sempre liberare lo Stato in questione dal dittatore o dai ribelli di turno e porre fine alle atrocità che ogni guerra infligge quotidianamente alla popolazione civile. In realtà in questi casi si decide di intervenire in maniera radicale per difendere gli interessi economici che gli stati ricchi hanno nell’area del conflitto, e che vengono minacciati dai nuovi possibili scenari politici generati dalla guerra. Di queste guerre si deve parlare, e i media in genere ci bombardano di informazioni etichettando buoni e cattivi e spingendo gli ascoltatori a schierarsi emotivamente con chi arriva a salvare quei poveri popoli indifesi (uccidendo e usando la violenza, ma questo è solo un dettaglio…).
La seconda è quella che viene chiamata “intervento umanitario o di pace” e che porta, o dovrebbe portare, esclusivamente aiuti umanitari di ogni tipo ai popoli che vivono in un Paese dove si sta svolgendo una guerra. Già parlare di missione militare di pace in un Paese dove si combatte, dovrebbe se non altro destare qualche sospetto sulle reali intenzioni degli stati che aiutano così altruisticamente il prossimo. Mi piacerebbe un giorno capire che cosa significa realmente fare una missione di pace, come se l’arrivo di una marea di militari armati, per di più stranieri, serva a portare la pace in quei posti devastati dalla guerra. La verità è che si adotta questa strategia perché non si vuole volontariamente intervenire nel conflitto, per non interferire con gli interessi delle nazioni ricche che sono economicamente coinvolte, pur scegliendo di essere presenti sul territorio. Anche di queste missioni-non guerre si parla eccome. Come lasciarsi sfuggire l’occasione di apparire dei pacifisti capaci di rischiare la propria vita recandosi nelle zone di guerra con il solo scopo di aiutare chi soffre?
La terza strategia, sicuramente la peggiore, è il non intervento. Letteralmente ignorare che in certi stati si combatte da decenni, dimenticarsi che quelle popolazioni sono ridotte allo stremo e alla fame, chiudere gli occhi davanti alle numerose morti di civili, di donne e di bambini, e spingere quei posti nel limbo della disinformazione globale, perché si sa, se di una cosa non si parla, di fatto quella cosa agli occhi dei cittadini del mondo non esiste. E dunque silenzio.
Gli interessi economici legati alle guerre dimenticate sono molteplici. Per prima cosa le armi. Queste guerre sono quasi tutte localizate nei paesi poveri, il cosiddetto “Sud del Pianeta”. Paesi che non producono nulla, figuriamoci armi. Dunque il mercato delle armi dei paesi industrializzati è alimentato da quei conflitti silenziosi che chi le produce non ha alcun interesse a far cessare. In secondo luogo la presenza di petrolio e altre materie prime. Si tratta di aree ricche che vengono depauperate, sfruttate e derubate dai potenti del Pianeta senza che nessuno possa intervenire. La guerra aiuta a mantenere vivo il mercato, in modo che sia più facile da gestire e con un margine di guadagno decisamente più ampio. Molte di queste guerre sono sostenute e finanziate da potenti lobby economiche e finanziarie occidentali che hanno interesse a lasciare che la guerra vada avanti indisturbata. Non è un segreto che queste lobby finanzino dittatori e ribelli in cambio di vantaggiose condizioni di sfruttamento di giacimenti di petrolio, oro, diamanti, uranio, koltan, cobalto e rare materie prime ormai indispensabili per la produzione delle più avanzate tecnologie.
Solo per fare qualche esempio, in Sudan dal 2003 ad oggi i due gruppi armati Army (Sla) e del Justice and Equality Movement (Jem) combattono, uniti dal 2006, contro il regime del presidente Omar al-Bashir. Il bilancio è drammatico: circa 300 mila morti, 200 mila profughi fuggiti in Ciad e un milione e mezzo di sfollati interni. Inoltre dalle testimonianze di diversi abitanti e operatori umanitari è emersa la presenza di veri e propri lager dove si consumano le più atroci violenze a danno di guerriglieri e popolazione civile: persone torturate, civili uccisi nei modi più terribili, donne violentate. Anche i ribelli pare si siano macchiati delle peggiori atrocità nei confronti di quella stessa popolazione civile che dichiarano di voler liberare. Una guerra atroce per contendersi il territorio del Darfur, ricco di petrolio. Secondo Amnesty International Iran, Cina, Russia, Bielorussia e alcune società lituane, ucraine e inglesi sarebbero tra i principali fornitori di armi del governo Sudanese. Gli stati Uniti, Israele ed Eritrea invece pare finanzino e sostengano i ribelli.
In Costa d’Avorio dal settembre 2002 a oggi si stimano circa 3 mila morti. Un colpo di stato ai danni del presidente Laurent Gbagbo ha dato il via a una guerra civile che contrappone l’esercito ivoriano e i ribelli delle Forze Nuove, schieramento che comprende tre formazioni armate. Russia, Inghilterra, Romania e Angola forniscono al governo ivoriano armamenti, elicotteri da combattimento e milizie private. I gruppi ribelli invece ricevono armi dal Burkina Faso, da Liberia e Sierra Leone, anche se pare che le armi da loro usate siano principalmente quelle sottratte da depositi e caserme governative occupate. Il Paese ancora oggi versa in uno stato di confusione generale a scapito, come sempre, della popolazione civile, costretta a subire i continui scontri tra governo e ribelli, tra le cui file si registra la presenza di numerosi bambini-soldato. Bambini che non conoscono altro che guerra e violenza. Bambini che dovrebbero giocare e sorridere, invece di uccidere.
Ma queste sono quelle guerre di cui non si deve parlare. Tutto deve filare liscio, niente deve intromettersi nei vergognosi affari di chi si arricchisce grazie a tutta questa violenza. E così vige la regola del silenzio. Silenzio della comunità internazionale, silenzio dei media, silenzio della gente. Ma la disperazione di quei popoli che gridano il proprio dolore, che cercano aiuto, che sperano che qualcuno si accorga di loro, non può e non deve mai più rimanere inascoltata. Probabilmene viviamo in un mondo sordo. Ma non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire.

Informazioni e dati tratti da: http://it.peacereporter.net