"Gli occhi di Giacomo" ovvero D.N.R. – DA NON RIANIMARE.

[stextbox id=”custom” big=”true”]Inauguriamo oggi la rubrica “Med and the City”. L’autrice è Betty Bradshaw, già autrice di vari post sulla medicina, alcuni dei quali molto particolari… Vi invitiamo a rileggerli tutti a questo link [/stextbox]

Giacomo. Sì, si chiamava Giacomo. O forse… si chiama Giacomo.

Non so più nulla di lui, dal lontano 2007.

Lo conobbi nel periodo in cui ero consulente presso un centro dedicato agli stati vegetativi e di coscienza minima. Fu un’esperienza molto forte lavorare in una struttura del genere, sebbene gli spot della consulenza non siano paragonabili all’intensità del tempo pieno. È difficile descrivere le emozioni e i pensieri che scaturiscono dal contatto con realtà così particolari e così diverse da quelle in cui capita di imbattersi nel corso di laurea o di specializzazione. Non sei mai abbastanza pronto.

Ciò che mi sorprese la prima volta che entrai in “reparto” fu il silenzio. Un silenzio che non è quello della notte e nemmeno quello che immagino se penso alla fine, al vuoto, alla morte. È un silenzio buio ma denso: permettendomi una sinestesia, lo paragonerei al mare di notte. Sai che è il mare, ma non riesci a guardarci dentro e non sai che cosa si muove vicino a te. Fare il bagno di notte nel mare non mi è mai piaciuto, forse proprio per quel senso di vulnerabilità di fronte al nero che ti ricopre e a cui appartieni. La seconda cosa che mi colpì al bancone degli infermieri fu la presenza di un enorme acquario, popolato di stupendi pesci tropicali, silenziosi, leggeri, sottili. E mentre ero intenta a seguire le loro evoluzioni leggiadre con gli occhi sgranati e il naso appiccicato al vetro come una bambina, d’un tratto si materializzò davanti ai miei occhi un grosso e sgradevole pesce nero, di fronte al quale preferii abbandonare lo spettacolo. Le metafore interpretative si sprecano. La mia, piuttosto banale, mi indusse a credere che l’acquario non fosse lì per caso, che i pesci eterei e cangianti rappresentassero le anime dei pazienti e che il pesce nero non fosse altro che uno spettrale memento per tutti.

I degenti erano anziani signori il cui cuore aveva smesso di battere per un tempo molto, troppo lungo; ma non abbastanza da esaurire tutte le energie vitali, soprattutto quelle dei “centri di comando”, come per uno scherzo beffardo del destino (fortemente aiutato da soccorritori-Rambo che non sanno quando è il momento di lasciar andare). Ragazzi usciti di strada dopo una serata con gli amici e mai tornati a casa. Giovani uomini e padri di famiglia le cui arterie cerebrali avevano deciso di inondare il cervello di sangue, rompendosi, per non si sa bene quale protesta verso chi o cosa, lasciando però indenne proprio il fulcro della vita.

Giacomo però era diverso. Lui sentiva e vedeva tutto. E tutto comprendeva. Una gravissima malattia neurologica lo aveva travolto intorno ai 60 anni, e nel giro di 3 lo aveva portato all’impossibilità di muovere quasi tutti i muscoli del corpo. Una sera sopraggiunse un affanno improvviso, il respiro divenne sempre più difficoltoso e i familiari – la moglie e le sue due figlie – non adeguatamente informate su ciò che sarebbe accaduto (e forse anche su quanto impietosa e rapida fosse la malattia) lo portarono al pronto soccorso. Lì Giacomo ebbe una grave crisi respiratoria. Non esistendo in Italia (per questi malati e non solo) una legge che regolamenti la procedura e il diritto al non trattamento, Giacomo fu intubato, senza che fosse espresso un consenso suo (peraltro in stato di semi-incoscienza) o dei parenti (non informati sulle gravissime ripercussioni che avrebbe avuto sulle loro vite quel gesto comandato da altri, o meglio, dall’alto).

Fu intubato. E poi tracheostomizzato e ventilato artificialmente. Per sempre. Perché ogni tentativo di svezzarlo dal respiratore fu vano.

Nel giro di alcuni mesi Giacomo perse progressivamente l’uso di quasi tutti i muscoli, sino a poter muovere solo gli occhi. E fu in quella fase della malattia che lo conobbi. Era così ormai da anni.

Entrando nella sua stanza mi soffermai nell’anticamera e, senza essere vista, ebbi il tempo di perlustrarla con lo sguardo: era tappezzata di foto, Giacomo che inforca una bici in cima a una montagna carica di neve, Giacomo che scala una parete di roccia, Giacomo il giorno delle nozze mentre sorride felice con la sua moglie biondissima e innamoratissima, Giacomo giovane che abbraccia un bebè con una tutina rosa, Giacomo che abbraccia un secondo bebè con una tutina rosa a fiori. Sull’altra parete le foto non includevano più Giacomo: la moglie biondissima abbracciata a due splendide ragazze, una delle quali incoronata d’alloro e ricoperta da una toga, forense, la moglie biondissima mentre bacia l’altra ragazza vestita a nozze e radiosa, come la mamma tante foto e tanti anni prima. Spostai dall’armadio lo sguardo verso il fondo del letto: due arti inermi e magrissimi riempirono i miei occhi e il rumore di un respiratore affaticato le orecchie. Di lì una cascata di emozioni mi si rovesciò addosso, compreso il senso di colpa, la fastidiosa sensazione di essere una guardona impertinente. Il cuore sobbalzò nel petto con capriole sgraziate, il volto si avvampò di un calore insano e preoccupante. Senza rendermene conto mi ritrovai fuori dalla stanza, con un respiro doloroso e irregolare, aggrappata alla cartelletta di plastica stretta al punto da avere le nocche delle dita completamente bianche.

Cercai di appellarmi al buon senso, al distacco gelido con il quale i professoroni ti dicono di guardare i malati, a un ente soprannaturale che mi aiutasse a non farmi sopraffare ancora dalle emozioni.

Respirai a fondo, chiusi gli occhi ed entrai. Lo visitai e fu straziante. Parlai con Giacomo, dicendogli che avrei provato con un farmaco a lenire il dolore che avvertiva a tutti gli arti (la beffa della natura matrigna vuole che in questa malattia il movimento sia proibito e la sensibilità, invece, viva e vitale). I dolori erano stati comunicati da Giacomo ai medici del centro, in un linguaggio cui, sapevo per certo, non avrei mai potuto accedere. Cercai nel suo sguardo un cenno di assenso. Ma nei suoi occhi leggevo solo dissenso, diffidenza, lontananza. Quelli come me, i medici, avevano portato a tutto questo. Quelli come me lo riducevano a questo strazio. Quelli come me non lo avevano informato. Quelli come me non gli avevano permesso di decidere. Per non crollare davanti a lui e alla sua sferzante accusa, provai a rievocare alla velocità della luce le teorie secondo le quali Giacomo avrebbe una degenerazione di una parte del cervello che regola la critica, il giudizio, le emozioni, rendendo apatici, indifferenti, privi di emotività. Ma con una violenza inaudita, l’idea che questa ipotesi non fosse altro che un giustificativo per far dormire tranquilla tutta la comunità scientifica si impossessò di me. E a quel punto, sentii gravare sulle mie spalle un peso enorme. Insostenibile. Quasi mi uscì di bocca la parola “scusa”.

Gli sorrisi grevemente, mi aggrappai alla cartelletta, unica certezza della giornata, e feci per uscire dalla stanza. Le lacrime stavano prendendo il sopravvento, per cui accelerai. Come un vortice nella testa già ebbra volarono pensieri del tipo: ma se fossi io, non sarebbe tremendo vedermi tutti i giorni in canoa o immersa in acque cristalline, risentire le braccia che pagaiano e nuotano e non riuscirle a muoverle? Non vorrei morire se vedessi mio marito che mi sorride nel giorno di nozze? Non vorrei che mia figlia avvocatessa vendicasse la mia sofferenza orribile punendo un sistema malato che dilania e uccide le persone, fingendo di salvare ciò che la natura ha creato?

Quasi mi misi a correre, ma il mio sguardo riuscì a catturare l’ultimo frammento che mi fece rabbrividire: sulla porta, in bella vista, il disegno di un bimbo raffigurava i nipoti di Giacomo. Davide, Noemi, Riccardo: D-N-R. Da non rianimare.

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