Si dice che il cinema sia nato con i fratelli Lumiére, con quel famoso spezzone di un treno che arriva in stazione, che fece fuggire a gambe levate gli impreparati spettatori.
Questo ci suggerisce due cose: 1) il cinema è una tecnica narrativa che funziona per immagini – in movimento, ma pur sempre immagini -; 2) il cinema è nato come intrattenimento.
Mentre sul primo punto credo che nessuno possa ribattere alcunché, è guerra spietata da quel giorno nel 1895 sulla seconda affermazione. Per quanto i puristi si sforzino di creare sotto-etichette all’infinito, fino a realizzare il buffo paradosso per cui ogni nuovo film diventa un’etichetta, la verità è che le interpretazioni sulla settima arte si riducono a due: c’è chi pensa che debba essere solo intrattenimento, talvolta anche fine a sé stesso, e chi invece pensa che debba necessariamente comunicare qualcosa, a diversi livelli di profondità.
Tutta questa manfrina per dire che oggigiorno sostanzialmente questo modo di vedere il cinema non è cambiato granché: i cinefili possono ritrovarsi in sala beceri baracconi visivi con robottoni realizzati tutti in CGI, e nella sala accanto raffinatissimi e ricercatissimi film dalla lavorazione decennale, talmente ambigui che anche trasmettendo il primo e il secondo tempo invertiti, nessuno se ne accorge per nove giorni.
Ma per fortuna, ci sono anche registi giovani e intelligenti che riescono a coniugare le due cose senza affondare negli eccessi. Ne stanno spuntando diversi (uno dei miei preferiti è Duncan Jones, figlio di David Bowie) e questa cosa mi allieta. Uno di loro si chiama Matthew Vaughn, ha già diretto Stardust (dal best seller di Neil Gaiman) e Kickass (adattamento del fumetto di Mark Millar), e ora è nelle sale con X-Men: L’inizio, primo vero lavoro di responsabilità affidatogli dal reparto cinematografico della Marvel.
Il carico era gravoso: scrivere un film sulle origini del gruppo degli X-Men restando al passo con i tempi ma contemporaneamente non discostarsi più di tanto dal primo film della saga, diretto dall’allora enfant prodige Bryan Singer (ormai un po’ perso, diciamocelo) ben undici anni fa.
Il progetto non era ardimentoso solo per questo motivo: la continuity Marvel è probabilmente la cosa più complicata da capire dopo la teoria delle Superstringhe. Personaggi che muoiono, resuscitano, si spostano in infiniti universi paralleli, vengono clonati, sostituiti da alieni mutaforma, cambiano sesso (no, questo forse ancora non è successo)… Figurarsi se ognuno di loro ha una storia e un’origine univoca!
Si trattava di sceglierne una, o più probabilmente fare un misto di tutte, e fonderle insieme per adattarle alla versione cinematografica. Compito questo che è riuscito davvero molto bene al gruppo di sceneggiatori, di cui fa parte anche Vaughn.
Ed ecco quindi che il vecchio professor X Patrick Stewart passa la staffetta al talentuoso ma ancora poco famoso James McAvoy (Wanted, Espiazione), e Ian McKellen cede l’elmo di Magneto a Michael Fassbender. Due scelte azzeccatissime, in particolare il secondo: si è visto poco in giro (era Stelios in 300), ma con la sua incredibile interpretazione in questo film si è garantito almeno sette contratti nei prossimi due anni.
Il cast è il vero fiore all’occhiello di questo film: a parte alcune comparse piuttosto inutili (Edi Gathegi / Darwin) e qualche attore cane raccomandato (Zoe Kravitz, figlia di Lenny), è impressionante e piacevolissima la sequela di volti noti: Rose Byrne (Troy, 28 settimane dopo), Oliver Platt (I tre moschettieri), Jason Flemyng (Snatch, Solomon Kane)… Persino le comparse più umili portano i connotati del padre di Dexter (James Remar) e quelli del diavolo di Reaper (Ray “il padre di Laura Palmer” Wise), per non parlare di uno dei capitani delle navi, inquadrato appena tre volte, che è niente meno che l’immenso Michael Ironside (Scanners, Top Gun), o i cameo di Rebecca Romijn (la Mystica adulta) e soprattutto dell’unico vero Wolverine, Hugh Jackman, che dice una sola, perfetta, frase. L’accostamento tra vecchie star sempre in grandissimo spolvero come Kevin Bacon e alcune giovani promesse come Nicholas Hoult (Hank McCoy, già visto in A single man) e Jennifer Lawrence (protagonista di Un gelido inverno, 4 nomination agli ultimi Oscar) funziona alla grande ed è una vera gioia per gli occhi.
Molto intelligente l’impianto narrativo. La storia della nascita del conflitto tra Charles Xavier e Magneto non è isolata e decontestualizzata come ci si sarebbe potuti aspettare, ma anzi è inserita negli anni della guerra fredda con maestria. Si percepisce il senso di pericolo mondiale mentre si imparano a conoscere i protagonisti della vicenda; una lezione appresa pari pari da Watchmen (un capolavoro che continua a fare scuola a distanza di ventiquattro anni) o, per raffrontarlo con qualcosa di più attinente, dal primo X-Men.
Matthew Vaughn ha insomma imparato molto con soli due film all’attivo. Ha dimostrato ancora una volta, dopo Kickass, di saper raccontare una storia interessante mentre diletta la vista con combattimenti ed effetti speciali, peraltro senza mai rendere l’inquadratura confusa, ma anzi rimanendo assolutamente chiaro e preciso persino nelle scene più agitate. Non fa che infiammare la speranza di poter vedere bei film piacevoli – pur sempre di intrattenimento – che non scadano nell’autocompiacimento, da un lato o dall’altro. Ora come ora, però, mi piacerebbe vedere come se la cava con un soggetto diverso da un film fantasy/di supereroi. Cosa che forse non succederà mai, dato che il suo prossimo progetto è il seguito di Kickass. Speriamo che non si fossilizzi sulle solite cose, sarebbe un vero peccato.
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Ah! Ecco scoperto il segreto della altrimenti inutile Winx in questo film!
Gran bell’articolo per un gran bel film.
Eheheh… Strano che il padre non abbia voluto prendere parte alla colonna sonora. Ma forse sarebbe sembrato troppo sfacciato 😀
Be’, magari anche un po’ di decenza: riesci a immaginare X-Men con colonna sonora ‘please believe in me, cause what I need is for you…’? Mmmm…no, no, dài, ci arrivano pure loro 😉