Nel mio ospedale c'è: un gioco di ieri, un incubo di oggi

Nel mio ospedale c’è.

Nel mio ospedale c’è una tale quantità di edifici semidistrutti e fatiscenti che non sembra di stare in Italia, ma a Tripoli dopo l’ultimo bombardamento. E in questi edifici… ci sono ancora i reparti.

Nel mio ospedale c’è una pista di atterraggio elicotteri sul tetto del mio padiglione; quando ne arriva uno mi ripercorre la stessa sensazione di cattivo presagio che avvertivo in montagna nel sentire, di notte, il volo del soccorso alpino.

Nel mio ospedale ci sono certi ascensori che pensi non possano esistere più, tanto meno in un luogo pubblico; hanno ante scorrevoli in plastica perennemente rotte, sono lentissimi e servono a trasportare sia i malati in barella sia l’esorbitante flusso di persone. Ore e ore d’attesa (sempre che non si blocchino, come accade un giorno sì e uno anche).

Nel mio ospedale ci sono reparti con esposte foto che ritraggono le camere alla fine dell’800: bella come idea. Peccato che quando varchi la soglia delle stanze da otto letti, alte quattro metri, con finestroni enormi in legno marcio, ti aspetti che sia Florence Nightingale a venirti incontro.

Nel mio ospedale c’è un pronto soccorso che ricorda un girone infernale: un ammasso di carne, sangue e lacrime, spalmato in spazi angusti e maleodoranti.

Nel mio ospedale c’è tanta di quella nevrosi e cattiveria che, se fosse possibile convertire tutta quell’energia negativa in calore, luce o elettricità, non avremmo bisogno nemmeno di citarlo il nucleare.

Nel mio ospedale c’è un centro prenotazioni che sembra un aeroporto: i pazienti ci chiedono il permesso di andare al “centro commerciale”. Non hanno tutti i torti.

Nel mio ospedale c’è un nonnismo tale che è difficile distogliersi dalla convinzione di essersi arruolati in marina.

Nel mio ospedale c’è pochissima umanità, buon senso e ragionevolezza; se tutti, ma dico tutti, ce ne mettessero un pizzico in più, forse le cose non andrebbero poi così male.

Nel mio ospedale c’è un piccolo gruppo superstite di esseri umani ancora degni di questo nome; quando ti capita di incontrarne uno, la sorpresa e la commozione sono così travolgenti che ti verrebbe voglia di abbracciarlo.

Nel mio ospedale c’è un rito di benvenuto ai nuovi arrivi: consiste in ignobili attacchi alla giugulare a qualsiasi ora del giorno e della notte, oltre a un superlavoro ai limiti della legalità, nella peggiore delle condizioni possibili.

Nel mio ospedale c’è una camionata di medici che non hanno voglia di fare assolutamente niente, che scrivono male le cartelle, che mandano al diavolo colleghi, infermieri e pazienti, che hanno come unico obiettivo quello di fare il meno possibile nel peggior modo possibile.

Nel mio ospedale c’è un tipo di specializzandi con cui è davvero bello e prezioso interagire: sono giovani curiosi, dediti, operosi; ce n’è un secondo, purtroppo, che meriterebbe l’estromissione dalla specialità tout court: giovani delfini di chirurghi onnipotenti ovvero miagolanti gatte morte che traggono beneficio da torbidi rapporti con chi riveste ruoli di comando.

Nel mio ospedale c’è una strana consuetudine: ai vertici, nella stragrande maggioranza dei casi, vengono collocate persone dispotiche, ottuse, machiavelliche o semplicemente stupide e nevrotiche.

Nel mio ospedale c’è un padiglione talmente nuovo che, a distanza di anni dall’apertura, manca ancora la cartellonistica e, inevitabilmente, ancora si cercano alcuni dispersi.

Nel mio ospedale c’è una violenza dilagante: medici che spaccano porte e aggrediscono le persone intorno a loro, infermieri che si menano, pazienti e parenti che urlano, imprecano, maledicono, minacciano.

Nel mio ospedale c’è una credenza: chi è buono è fesso e va punito e sfruttato per questo.

Nel mio ospedale c’è sempre troppo poco tempo da dedicare a chi soffre: non c’è tempo per confortare, stringere una mano, asciugare una lacrima. E poi… che paura! Se il dolore fosse contagioso?

Potrebbe andare peggio di così?

Credo di sì; perché oggi, nonostante tutto, il mio ospedale c’è. Per tutti. Gratuitamente. A prescindere dal colore della pelle, dal conto in banca e dalle assicurazioni.

E domani?

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Bandiera rossa trionferà?

“Addio compagni, meglio amici”. Titola così Matteo Pucciarelli nell’articolo di Repubblica.it del 14 luglio dedicato a Nichi Vendola e alla frase pronunciata durante la presentazione del libro di Goffredo Bettini “Oltre i partiti”.

“Nel Pci mi dicevano che non si doveva dire ‘amico’ – ha spiegato il governatore della Puglia – ma che bisognava dire ‘compagno’. Ho passato tutta la vita a ripetermi questa frase. Ma ora ho capito che era una stronzata, perché è stato un alibi per molti crimini. Io preferisco stare con molti amici, che mi aiutano a crescere”.

Un’affermazione che sembra aver sconvolto i numerosi “seguaci” di Vendola che, a suon di critiche, hanno stampato le proprie lamentele sui più grossi giornali italiani. I simpatizzanti del movimento “Sinistra Ecologia e Libertà” non hanno infatti accettato il cambio di rotta del leader di questo partito, sebbene appaia più come una svolta stilistica di linguaggio, piuttosto che un cambiamento concreto. Forse solo una strategia per accaparrarsi qualche voto in più fra i cosiddetti moderati: coloro che non si riconoscono fra i comunisti e i socialisti, che storicamente hanno adottato il termine “compagno” per identificare tutti i membri del proprio partito.

Comunque sia, è inutile spiegare che la Sinistra italiana ha già da tempo rinnegato le trascorse ideologie del vecchio PCI, in maniera ben più palese ed evidente di una frase espressa male. È anche superfluo discutere di quante cose siano cambiate da quando Gramsci o Berlinguer potevano pronunciare certe parole senza risultare ridicoli, o quanto meno poco credibili.

Perché come ha affermato lo stesso Vendola “In Onda” su LA7: “Il Comunismo identifica qualcosa di meraviglioso quando rappresenta una domanda, ma si è trasformato in un incubo quando è diventata una risposta”.

Perché come recitavano alcuni meravigliosi versi di una celebre canzone di Giorgio Gaber, “qualcuno era comunista perché aveva avuto un’educazione troppo cattolica, qualcuno era comunista perché beveva il vino e si commuoveva alle feste popolari, e qualcuno credeva di essere comunista ma forse era qualcos’altro”.

Perché i Compagni erano quelli che si riconoscevano in un progetto comune, e forse basterebbe semplicemente trovarne uno, nuovo, dimenticando i fantasmi di un periodo irripetibile e imparando dai troppi errori che alcuni nostalgici non sono ancora riusciti ad ammettere…

 

Tagli alle spese militari, ma le missioni proseguono

Non si sa quando termineranno ma, di sicuro, continueranno. Stiamo parlando delle cosiddette “missioni umanitarie” dei nostri soldati all’estero. Dopo le solite polemiche legate ai costi delle missioni, giovedì 7 luglio il Consiglio dei Ministri ha approvato il rifinanziamento, anche se ha posto una tregua: in pratica, circa duemila militari rientreranno da Libia, Libano e Balcani e ci sarà anche un taglio di 120 milioni alle spese per il prossimo semestre: da 811 a 620 milioni. I tagli riguardano soprattutto la Libia, dove si passa dai 142 milioni del primo semestre ai 58 del secondo. La nave ammiraglia Garibaldi sarà ritirata con i suoi 884 uomini e tre aerei che, tuttavia, saranno sostituiti da alcuni velivoli che partiranno dalle basi italiane. Dall’Afghanistan non andrà via un solo soldato e sono stati stanziati 15 milioni in più per la sicurezza dei nostri militari. Inizialmente, la Lega aveva posto il veto sul rifinanziamento, ma ha accolto con soddisfazione il decreto, anche se non sono mancate polemiche tra il leader del carroccio, Umberto Bossi, e il ministro della Difesa Ignazio La Russa. Si tratta di una sorta di compromesso che alla fine accontenta tutti: da un lato il segretario leghista che da qualche giorno veste i panni del (presunto) pacifista, dall’altro il ministro della Difesa che voleva a tutti i costi che le missioni proseguissero.

A ogni modo, ancora una volta è stato deciso che i nostri soldati devono continuare a rischiare la vita in zone molto pericolose, dove tra l’altro non sono mai stati visti benissimo da una parte delle popolazioni locali, come dimostra l’alto numero di militari uccisi a seguito di attentati. Ormai è da tempo che i soldati italiani vivono in zone di guerra, anche se ipocritamente le loro missioni vengono definite “di pace”. In realtà il rischio di morire è molto alto, ma gli ordini governativi sono quelli di dover continuare, a rischio di perdere la vita. In Afghanistan sono tantissimi gli italiani morti in un paese che stenta a conoscere la democrazia e dove i talebani, nonostante le promesse istituzionali, non sono mai stati definitivamente sconfitti. Insomma, le “missioni di pace” proseguono più che mai e proseguiranno ancora per molto tempo. Tutto ciò può far fare bella figura all’Italia davanti agli altri paesi del mondo, ma nei fatti i nostri soldati continuano a rischiare la vita allo scopo di contribuire a portare la democrazia in paesi in cui questa difficilmente riuscirà a entrare nei meccanismi della politica locale, senza considerare poi i costi molto alti che lo stato italiano deve fronteggiare e che, forse, potrebbero servire per questioni interne che interessano maggiormente al popolo italiano.

Cremona Mondomusica

Una città in Italia si distingue da secoli per la sua tradizione nel settore della liuteria. Se vi dico Stradivari, Amati e tanti altri artigiani della musica è logico che voliate con la mente a Cremona. Inutile parlare di questi grandi uomini, dei loro strumenti così speciali e dei loro valori inestimabili. Parliamo di oggi, e di Cremona Mondomusica, la fiera giunta alla sua ventiquattresima edizione e che possiamo vantare tra gli orgogli della nostra Italia. Dal 30 Settembre al 2 Ottobre, se siete appassionati, musicisti o semplici curiosi, dedicatevi una giornata per visitare il salone espositivo nel complesso di CremonaFiere. Ho il piacere di presentarvi il Presidente di CremonaFiere ente organizzatore di Mondomusica: Antonio Piva. Grazie per la cortesia Presidente, ecco l’intervista.
“CremonaMondoMusica”: quali sono gli scopi di questa esposizione e di cosa siete particolarmente orgogliosi?
Promuovere Mondomusica, il “Marchio Cremona”, l’eccellenza della liuteria e degli strumenti artiginali sui principali mercati mondiali: siamo stati negli Stati Uniti, in Giappone, in Cina, in Corea e in tutta l’Europa. Oggi a Mondomusica partecipano i migliori maestri liutai del mondo, le più qualificate aziende del settore e alcuni tra i più rinomati artisti a livello internazionale. Mondomusica è una manifestazione in continua evoluzione, dinamica e che estende i suoi orizzonti sempre mantenendo una qualità eccellente.

Quest’anno ci sarà un’area espositiva interamente dedicata ai pianoforti. Un sogno realizzato in mezzo a tanti strumenti ad arco nella città patria dei liutai a corde e archetto?
CremonaFiere con il Salone Cremona Pianoforte ha voluto rispondere a una precisa esigenza del settore, una nuova opportunità offerta agli operatori per trovare migliaia di contratti commerciali qualificati e potenziali clienti. Cremona Pianoforte, con un padiglione interamente dedicato, risponde alle elevate esigenze dei produttori offrendo spazi espositivi adeguati per valorizzare al massimo gli strumenti. È un progetto nuovo, ma ha incontrato fin da subito il sostegno e l’apprezzamento dei protagonisti del settore; la manifestazione può infatti contare sulla prestigiosa partnership con AIARP (Associazione Italiana Accordatori e Riparatori di Pianoforte), e la collaborazione del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca che ha ufficialmente riconosciuto Mondomusica come luogo di formazione musicale. A un’esposizione di questo livello non poteva non essere affiancato un programma di eventi artistici, culturali e di aggiornamento professionale che coinvolgono sia gli operatori professionali, che il pubblico di appassionati. Sotto il nome de “Gli Eventi del Pianoforte” sono raccolti una serie di appuntamenti che comprendono la tavola rotonda di approfondimento storico sulla produzione dei pianoforti con Ettore Borri e Renato Meucci; la formazione del concertista, di cui se ne discuterà con Andrea Lucchesini, Franco Scala e Piero Rattalino; il rapporto tra il pianista e il tecnico accordatore, incontro organizzato da AIARP, e molti altri.

Antonio Piva

Tante iniziative parallele e concerti: continuiamo a parlarne.
Sono centinaia i musicisti che nel corso degli anni hanno calcato i diversi palchi di Mondomusica, da artisti di primo piano come il Quartetto d’Archi della Scala, ai giovani talenti future stars internazionali, penso a Mayu Kishima e Dai Miyata. Anche quest’anno Mondomusica avrà un ricco calendario di appuntamenti musicali: il Concerto in Movimento, ripreso in diretta da Rai Radio 3, un appuntamento consolidato negli anni, ma sempre in costante evoluzione, che presenterà Patrick Cohen Akénine, violinista e direttore d’orchestra insieme al quintetto dell’Orchestre des Folies Francoises ed eseguirà un programma tenuto alla Galerie des Glaces du Chateau de Versailles; Ilya Grubert violinista di fama internazionale; un omaggio a Liszt eseguito dal duo Marco Rogliano e Andrea Dindo; il concerto delle prime parti della Filarmonica Toscanini; il Quartetto Prometeo si esibirà con un programma dedicato a Robert Schumann; il concerto dei vincitori del Premio Nazionale delle Arti Sofia Gelsomini e Luca Buratto, solo per citarne alcuni. Certamente Mondomusica, fin dai suoi esordi, riserva ai giovani musicisti sempre ampi spazi per potersi esibire, riconoscendo nelle giovani leve il futuro della musica. Un forte legame quello tra i giovani, Mondomusica, e le principali istituzioni italiane e straniere che operano nel settore della didattica musicale; infatti prosegue il percorso intrapreso insieme a MIUR, AFAM, CNAM, AEC con il terzo Convegno Internazionale sulla Didattica Musicale. È diviso in due sessioni: la prima riguarda la riforma e il curriculum verticale e se ne parlerà dal punto di vista delle istituzioni; una seconda sessione è dedicata interamente al pianoforte nei Conservatori italiani ed europei considerando i temi della “ricerca”, della didattica e della produzione artistica. Il MIUR ha concesso, riconoscendo l’alto livello formativo culturale del convegno l’esenzione dal servizio per i docenti partecipanti. Altro appuntamento prestigioso sarà la Conferenza dei Direttori dei Conservatori Italiani che quest’anno avrà luogo proprio a Mondomusica. La manifestazione non è solo musica classica; un posto di riguardo è riservato al Jazz. Abbiamo iniziato l’anno scorso e proseguiamo anche quest’anno con le masterclass del Maestro Paolo Damiani, direttore del Dipartimento Jazz del Conservatorio S. Cecilia di Roma. Ogni anno le proposte di Mondomusica acquisiscono maggior spessore, infatti al Laboratorio Jazz, che si concluderà con una grande session finale pubblica di tutti i partecipanti, sono stati riconosciuti i crediti nelle materie Musica d’Insieme e Tecniche di Improvvisazione dei corsi Jazz per gli studenti di Conservatorio.

Vogliamo parlare un po’ dei “numeri” di questa rassegna?
I numeri delle ultime edizioni hanno confermato che Mondomusica è la manifestazione più importante al mondo per il settore degli strumenti musicali artigianali, ne è testimonianza il record che la manifestazione ha raggiunto nell’edizione 2010, quando il numero degli espositori esteri ha superato quello degli espositori italiani. CremonaMondomusica è il marketplace preferito dai costruttori di strumenti e accessori, case editrici specializzate e distributori di materie prime provenienti dall’estero. La scorsa edizione ha registrato numeri eccellenti: 314 espositori provenienti da 22 Paesi (+12% vs 2009); 11.624 visitatori da 42 Paesi (+4% vs 2009); 25 Eventi tra concerti, masterclass, seminari e tavole rotonde; oltre 120 artisti che si sono esibiti sul palco internazionale di Mondomusica, stelle nascenti del panorama musicale internazionale e artisti di consolidata fama; 51% di espositori provenienti dall’estero; 20% di visitatori provenienti dall’estero. Questi dati oggettivi confermano che il grande impegno di CremonaFiere, ente organizzatore della manifestazione, sul fronte della promozione internazionale sta dando ottimi frutti. Un risultato che, oltre a veicolare il nome di Mondomusica nel mondo, è un importante riscontro anche per il “Marchio Cremona”, per far conoscere la nostra città nei cinque continenti; inoltre Mondomusica rappresenta un volano per tutta l’economia della città e del territorio.

Cosa desidererebbe vedersi realizzare nel campo musicale con il vostro lavoro?
I nostri sforzi sono proiettati per dare una maggiore visibilità ai giovani talenti musicali, per fare all’interno della Manifestazione, attraverso i numerosi convegni, seminari tecnico-scientifici, tavole rotonde di formazione musicale, un’attività che ci è stata riconosciuta dal MIUR e di cui andiamo particolarmente orgogliosi.

In bocca al lupo a tutto lo staff di Mondomusica!

Per quello che riguarda invece tutte le altre informazioni voglio invitarvi a visitare il sito ufficiale: www.cremonamondomusica.it

Lì troverete tantissime informazioni riguardo a tutti gli eventi correlati alla manifestazione, nonché i luoghi consigliati per dormire e mangiare. Mi raccomando, se arrivate a Cremona visitate il centro storico e la collezione dei violini di Palazzo Comunale e il museo stradivariano.

Ringrazio personalmente il Presidente Piva, Paolo Bodini a capo dell’ufficio stampa ed Elisabetta Quinzani per la cortesia e l’impegno.

La silenziosa rivoluzione

Cosa hanno in comune Grecia e Islanda? Apparentemente nulla, ma se guardiamo con attenzione le cronache economiche degli ultimi tre anni riusciamo a cogliere qualche somiglianza. Entrambi i paesi sono stati tra i più colpiti dalla crisi sulla sponda europea dell’oceano, hanno visto crollare i loro Pil, arrivando a dichiarare bancarotta, incapaci di far fronte al loro debito pubblico.

Ma, se le manifestazioni e gli scontri di piazza Syntagma hanno riempito per settimane i nostri media, mostrandoci il popolo greco infuriato contro il governo e contro la durissima manovra finanziaria da questo varata, del crack islandese non ci sono giunte notizie o quasi.

Il silenzio su questa vicenda probabilmente nasce dalle piccole dimensione del paese nordico (appena 300.000 abitanti) o per le cifre coinvolte. O forse c’è un’altra motivazione più sottile e nascosta.

Per capire meglio la situazione è meglio fare un breve riepilogo.

Tra il 2000 e il 2008 l’Islanda ha visto crescere il proprio Pil con percentuali che non avevano eguali negli altri paesi occidentali. Questo era dovuto, in parte all’ottima organizzazione del sistema economico dell’isola, e dall’altro dalle enormi quantità di denaro che, grazie alle favorevoli fluttuazioni della Corona, affluivano nelle tre principali banche del paese.

Gran parte di questo denaro però era, in realtà, inesistente e frutto di ardite speculazioni finanziarie. Con l’esplosione della crisi dei mutui subprime, nel 2008, le banche islandesi si ritrovarono improvvisamente esposte per circa 10 miliardi di Euro, una cifra enorme per il piccolo paese nordico, e dovettero dichiarare la bancarotta.

Veniva così a mancare il carburante principale per il sistema economico. Il governo di coalizione di Geir Haarde, per tamponare la situazione, nazionalizza le tre principali banche del paese, svaluta la Corona e innalza il costo del denaro, ma è tutto inutile.

Nel 2009 l’Islanda, non potendo far fronte all’enorme debito contratto dalle banche dichiara la bancarotta e il primo ministro Haarde è costretto ad accettare un prestito di due miliardi di Euro dal Fondo Monetario Internazionale per scongiurare l’insolvenza.

In cambio il governo islandese vara una legge che prevede il risanamento del debito nei confronti di Gran Bretagna e Olanda, attraverso il pagamento di 3,5 miliardi di Euro somma che ricadrà su ogni famiglia islandese, mensilmente, per 15 anni e con un tasso di interesse del 5,5%.

Alla presentazione della legge esplode la rivolta popolare e il governo è costretto alle dimissioni.

Il nuovo governo a guida socialdemocratica, ritrova in eredità la legge sul debito ma, a causa di dissidi interni alla coalizione, non ne ferma l’iter in Parlamento. Nel febbraio 2011 Presidente Olafur Grimsson pone il veto alla ratifica della legge e annuncia il Referendum consultivo popolare che vedrà una schiacciante vittoria dei No (93%). Il debito viene dichiarato “detestabile” e quindi, per i cittadini islandesi, non esigibile.

Olafur Grimsson

La piccola Islanda, fieramente si è opposta ai giganti della finanza. Dopo il referendum ha istituito una commissione per stabilire le responsabilità del crack e il cui lavoro ha già portato all’arresto di numerosi banchieri e dirigenti e all’emissione di parecchi mandati di cattura internazionali. Ma silenziosa rivoluzione islandese non si è fermata a questo. In questi mesi nella piccola isola del Mare del Nord stiamo assistendo ad una dimostrazione di democrazia che ha pochi precedenti. Tenendo conto degli errori del passati e dei difetti evidenti della costituzione vigente, il governo ha deciso di modificarla radicalmente affidando la stesura del nuovo testo ai cittadini.

In Islanda sta nascendo la prima costituzione crowdsourcing della storia, cioè un testo realizzato dagli utenti della rete attraverso mail e social network, il tutto coordinato da un gruppo di 25 cittadini, eletti regolarmente, che presenterà la redazione finale al parlamento per la votazione.

In silenzio e nell’indifferenza del mondo occidentale, il popolo islandese sta attuando una vera rivoluzione.

Sta dimostrando che nelle moderne democrazie la sovranità popolare è un qualcosa di concreto e non un semplice concetto astratto, sta contrapponendo il potere della società civile e della cittadinanza al sistema politico, cambiandone le regole e gli assetti, sta facendo tornare nelle mani del popolo il suo futuro e quello della nazione.

Di tutto questo, in Europa se ne parla pochissimo, in Italia solo qualche giornale ha dato un breve cenno.

Perchè? C’è forse il timore fondato che il popolo dell’Islanda possa dare il buon esempio?

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C'era una volta in Sudamerica

Nel film cult “L’allenatore nel pallone” che ha consacrato per sempre Lino Banfi c’è una scena spassosa: Oronzo Canà ed Andrea Bergonzoni (interpretato da Andrea Roncato) partono per il Brasile dietro ordine del presidente della Longobarda Borlotti (Camillo Milli) che vuole un pezzo da novanta. Grazie all’occhio attento di Giginho (Gigi Sammarchi), venditore di bibite che si spaccia per agente di calcio, riescono a portare in Italia Aristoteles (Urs Althaus) che sarà decisivo per salvare la squadra. A tuttoggi si continua a pescare campioni in terra sudamericana, perchè il continente continua a sfornare grandi talenti, ma c’è una precisazione da fare. Il calcio sudamericano sta fallendo decisamente.

I singoli giocatori sono grandi campioni, ma quando giocano assieme in nazionale toppano clamorosamente. Tanti i segnali. Tanto per fare un esempio chiacchierato in questi giorni, non ci si spiega perchè Messi col Barcellona segni a profusione e con la “albiceleste” faccia una grande fatica. Il mondiale scorso è stato un calvario per lui, ed anche nel 2006 andò male (solo un gol nella vendemmiata con la Costa d’Avorio). In Coppa America altrettante delusioni, sia nell’edizione 2007 che in quella attualmente in corso (spero vivamente che la “pulga” possa smentire tutti portando la sua squadra al trionfo). Centodiciannove gol in centosettantasette partite coi “blaugrana”, ma in nazionale questi numeri sono chimere. Non ha al suo fianco gente come Xavi, Iniesta e la perfetta macchina che è diventato il Barcellona, ed evidentemente ciò evidenzia ancora di più che il modo di giocare influenza chiunque.

Ma non è solo guardando i singoli. Nelle ultime due edizioni della Coppa del Mondo solo una squadra sudamericana è arrivata in semifinale: l’Uruguay l’anno scorso, che ha battuto negli ottavi la mediocre Corea del Sud e nei quarti il Ghana (e se Asamoah Gyan non avesse calciato alle stelle il rigore all’ultimo minuto…). Fallimenti totali per Argentina e Brasile. Nel 2006 fuori ai quarti contro Germania e Francia (desolante il gioco carioca) punite poi da noi nella corsa che ha portato Cannavaro ad alzare la coppa, mentre nel 2010 i tedeschi hanno dato una lezione di calcio alla squadra di Maradona, così come è bastata una solida Olanda ed un grande Snejider per mandare a casa Kakà, Robinho, Maicon, Lucio e chi più ne ha più ne metta.

A livello di squadre di club meglio stendere un velo pietoso. L‘Internacional de Porto Alegre, squadra che aveva vinto la Coppa Libertadores e rappresentava il continente al Mondiale per Club è stata eliminata dal Mazembe (probabilmente al posto dell’Inter quel trofeo lo avrebbe vinto anche il Lecce di Gigi De Canio), squadre storiche come il Flamengo sono diventate cliniche di recupero per scarti del nostro campionato (vedi Adriano e Ronaldinho) ed altre addirittra retrocedono per la prima volta nonostante dei presunti supercampioni (Lamela ed il suo River Plate). Ora la attuale Coppa America, che prometteva spettacolo e divertimento. Purtroppo però di quel calcio stellare ci sono rimasti solamente gli spot della televisione satellitare Sky, che pubblicizza il proprio prodotto.

Sarà divertente il “joga bonito“, sarà elettrizzante l’idea di un tridente con Messi, Tevez ed Aguero, sarà anche interessante credere che i campioni del nostro campionato come Cavani e Sanchez possano ripetere le loro gesta in nazionale. Purtroppo però per vincere al giorno d’oggi serve altro. Tutte le squadre hanno disciplina tattica, quindi o entri in campo schierato in maniera seria o le finali dei mondiali le vedrai solo in televisione. Specie se sei in Sudamerica.

 

Cronaca di una giornata di rivolta (parte 2)

[stextbox id=”custom” big=”true”] Pubblichiamo oggi la seconda parte dell’articolo di Alessandro Grassi sulla manifestazione NO-TAV in Val Susa. Trovate la prima parte dell’articolo a questo link[/stextbox]

Arrivo a casa la sera dalla Val Susa e mi fiondo su internet per leggere della giornata a cui ho partecipato, ma subito la rabbia mi prende: i giornali principali si schierano senza se e senza ma, riproducendo in pieno il volere bipartisan che appoggia la TAV. Dal PD al PDL uniti contro i NO-TAV, così come da Repubblica al Giornale la differenza è poca.

C’erano terroristi? Non credo proprio. Quel che ho visto è la popolazione di una valle che supportata da attivisti e attiviste o cittadini e cittadine ha cercato per l’ennesima volta di far sentire le proprie ragioni. Una popolazione che con la propria attività politica ha già dimostrato che costruire un sistema differente e fondato sulla partecipazione dal basso – come è quello dei comitati NO-TAV – è possibile.

Quando sui giornali si parla di violenza lo si fa in maniera sempre semplicistica e tutta la complessità del reale viene ridotta alla semplice e tremenda domanda: “Siete con me o siete contro di me?” spesso nascosta dalla più politically correct: “Siete violenti o siete pacifici?”.

È così che queste dicotomie dividono con un taglio netto l’esistente, spartendo e distribuendo le categorie del discorso politico dominante senza appello o da una parte o dall’altra. Abbiamo così forze dell’ordine, Stato, democrazia, legittimità, rappresentanza, partiti, informazione, obiettività tutti schierati dal medesimo lato, ovviamente quello della non-violenza, della giustizia e del buon senso, mentre chiunque si opponga a questa divisione netta tra bene e male, chiunque cerchi di complicare la questione per esempio rompendo la catena che lega democrazia a rappresentanza, informazione a giornali, giornali a obiettività, forze dell’ordine a legittimità o qualsiasi delle altre possibili combinazioni, automaticamente ricade – nel discorso pubblico dominante esercitato dai soggetti che incarnano e che promuovono quella catena di termini – nell’infausto lato sbagliato della barricata. Quello dei violenti, dei facinorosi, terroristi per l’appunto o forse peggio idealisti, utopisti, gente che non conosce il mondo, che non parla del reale, sovversivi, black bloc. Il black bloc, realtà fittizia creata dai giornali e dalla disinformazione di Stato, diventa il soggetto che incarna tutto quanto di negativo può esserci.

Il gioco della disinformazione è sottile. La logica è questa: per prima cosa esistono un bene e male nettamente distinti, eternamente definiti in teoria ma in pratica definiti da soggetti che ricalcano su di sé la categoria bene. Come dire: se un poliziotto comanda dirà che il bene è la polizia. Oppure se chi comanda dice che la polizia è il bene allora automaticamente inizierà a dire di essere la polizia. Il movimento è doppio, si muove in sensi diversi contemporaneamente e in questo doppio movimento rafforza e definisce reciprocamente i due poli attraverso cui si articola, legandoli sempre più strettamente: nell’esempio polizia e bene. Al contempo affermerà che tutto ciò che è male non è lui e che tutto ciò che non è lui è male. A seconda di una priorità descrittiva o normativa. Per cui il non-poliziotto, il violento (perchè lui ovviamente ha deciso di definirsi come non-violento) l’illegittimo (il legittimo è solo lui, legittimato da se stesso secondo un circolo vizioso), tutto questo è il black bloc. Un’etichetta pronta da applicare a chiunque si opponga. Ma il black bloc non è un semplice dato inerte, si sta facendo disinformazione, l’ottica normativa è dominante.

Si tratta di quella forma di assoggettamento che passa attraverso la soggettivazione. Il black bloc non può essere presentato come un semplice dato descrittivo, un semplice “diverso da sé”, esso viene dotato da chi lo definisce di una forza autonoma, di soggettività propria che afferma sé stessa. Ecco quindi che il black bloc è un soggetto vivo che fa cose, fa cose che hanno a che fare con la politica, quindi che fa parte in qualche modo di un’organizzazione, di un gruppo organizzato che, data la ferrea applicazione delle dicotomie che organizzano il discorso, ha come scopo dichiarato la sovversione e quindi la violenza, la violenza a prescindere, sia ben inteso. Ebbene li ho visti coi miei occhi: i vecchi della Val Susa sono sicuramente dei Black Bloc. Hanno rotto troppe catene di parole, troppi legami ferrei. Bastava essere là per capire che dietro quanto facevano c’era un chiaro disegno sovversivo. È indiscutibile che se l’ordine del discorso è quello del potere, senza ombra di dubbio i NO-TAV sono sovversivi.

I dati poi sono incontrovertibili, è proprio come scrive Repubblica: i manifestanti nel bosco applicavano tattiche militari studiate con cura: quando la polizia caricava, scappavano indietro e poi quando la polizia si fermava andavano avanti. Tutto sommato è bello scoprire di essere dotati di un innato addestramento militare.

Eppure è semplice complicare i discorsi e spezzare le catene di parole se si fa attenzione a quanto ci circonda. Certo ci si avventura su un sentiero sconosciuto ma non certo più pericoloso di quelli che ho percorso sotto il lancio di lacrimogeni.

Quindi, forse, porsi delle domande senza paura, come i Valsusini, è la cosa più importante. Dopotutto se lanciare un sasso è sicuramente un gesto violento, non è altrettanto evidente che lanciare un lacrimogeno urticante, arma chimica a tutti gli effetti, sia più violento? Un manganello non implica violenza? La militarizzazione non è violenza? L’astrazione può proseguire e con essa aumenta anche il grado di violenza fisica: la precarietà non è violenza?

La violenza è un problema? Di sicuro, di qualsiasi genere essa sia. Ma non tutto è indiscriminatamente uguale. Le variabili da considerare sono infinite. Chi comincia, chi non comincia, come si comincia, come si continua, da che posizione si esercita violenza, cosa porta a esercitare violenza, eccetera eccetera. Risposte chiare e distinte non ne ho, ma sarebbe bene che tutti si ponessero certe domande prima di lanciare giudizi sconsiderati, perchè poi ci potremmo accorgere che il prezzo pagato sarà troppo alto.

Cosa voglio dire? Se i NO TAV, indubbiamente cittadini che agiscono secondo quanto credono sia giusto fare per l’interesse loro e di tutti, sono dei terroristi, allora cosa ci perdiamo? Cosa assecondiamo? La risposta è che avvaliamo la volontà conservativa di un potere che tende, attraverso i discorsi e la forza bruta a stringere sempre più le maglie del controllo fino a identificare qualsiasi spinta al cambiamento come una minaccia da stigmatizzare col marchio della sovversione. Ci perdiamo la possibilità di cambiare.

Dopotutto la conflittualità è normale, anche quella tra Stato e cittadini, ma se lo Stato sceglie di risolvere questa conflittualità manu militari, se lo Stato decide che è pronto a scontrarsi con la popolazione costi quel che costi, senza mezze misure, allora come si fa?

Sì gli anziani della Val Susa sono sovversivi, ma che male c’è? Per Bacco, essere sovversivi come loro, essere rivoluzionari quando è diventato negativo?! Non sarà mica questo il mondo che tutti desiderano!

Chiedersi se i NO TAV sono diventati un movimento violento dopo domenica senza un’attenta riflessione sull’uso dei termini significa entrare automaticamente nel discorso dominante che lega violenza a black bloc, a illegalità, a ingiustizia, a illegittimità e a qualsiasi attributo che il buonsenso potrebbe farci ripudiare. Eppure i NO TAV son brava gente che si preoccupa per la valle. Se preoccuparsi della valle e dell’ambiente in cui si vive e dei costi sociali ed economici di certe opere è da sovversivi, da terroristi rivoluzionari beh… Forse anche io sono un black bloc. Forse nella mia solitudine faccio parte di un’organizzazione e nemmeno me ne sono accorto.

Di nuovo il movimento del pensiero è scontato, perchè farsi quella domanda: “sono diventati violenti?” automaticamente implica una sola possibile risposta: “sì, sono diventati violenti” perchè se la violenza coincide con l’illegittimità che coincide con la illegalità tout-court, che coincide con tutto ciò che non è Stato e in questo caso polizia, allora evidentemente i NO TAV rientrano nella categoria. Non solo, tutto ciò implica automaticamente anche la soluzione pratica: “Sì, sono violenti, sono antidemocratici, non possono essere tollerati”. E cosa succede se non possono essere tollerati? Mandiamo la polizia a menarli legalmente. Ma, paradosso, questo lo decidiamo solo dopo che la polizia ha già fatto tutto. Meglio della guerra preventiva di Bush. Qui la prevenzione è massima: prima si fa la guerra ma solo dopo si decide di farla. Perchè comunque sono dei violenti: la prova che sono violenti è che dopo che è stata mandata la polizia a militarizzare la zona e lanciare lacrimogeni, loro hanno reagito. Se non fossimo persone di buon senso verrebbe quasi da meravigliarsi!

Son andato in Val Susa per capire, per farmi un’idea di quanto stava succedendo. Ho trovato uno scenario da “imperialismo”. Una popolazione, che poteva essere africana, piuttosto che indocinese, si è trovata nel mezzo di giochi più grandi di essa, gestiti da cricche di potere e da movimenti economici che non guardano in faccia a nessuno. Loro hanno detto di non essere d’accordo, la soluzione è stata l’azione militare. Il diritto al dissenso non può rimanere un semplice palliativo, deve avere un corrispettivo pratico. L’insorgere delle persone contro l’oppressione di cui si son sentite oggetto è un gesto nobile e ammirevole quanto la preoccupazione che dimostrano per il territorio e per la riproducibilità e sostenibilità dell’organizzazione sociale. A Chiomonte si è visto il volto oscuro dell’organizzazione Statale di cui facciamo parte. Non è questione di dire se lo Stato sia un bene o un male a priori, ma di capire nello specifico cosa di negativo possa fare per poter evitare che lo faccia. La cosa che conta è che in questo momento un potere che a parole dovrebbe garantire diritti e libertà porta sofferenza e oppressione. È diventato un potere violento. E la violenza, ci hanno insegnato, non può essere tollerata.

In Val Susa hanno deciso di opporsi a tutto questo. È una storia lunga quella dello spirito ribelle della valle, dagli eretici contro la Chiesa ai partigiani contro il nazismo. Se abbiano mai perso non si può dire. I Valdesi ancora ci sono e i partigiani hanno cacciato i nazisti da tempo. Sono sempre loro e ora li chiamano NO-TAV. È su un cavalcavia che leggo una scritta che è un ammonimento per tutti coloro che vogliono imporre la propria legge con la forza: “Benvenuti in Vietnam”. Il problema per ognuno di noi che non siamo chiamati direttamente a partecipare al loro movimento è come al solito chiedersi “che fare?” oppure, ora che sappiamo cosa si dice quando si parla di violenza, ora che sappiamo che le catene di parole possono essere spezzate, smontate e rimontate e che certe catene implicano certi discorsi, ora, solo ora, possiamo accogliere la domanda che ci viene posta quando ci viene chiesto se si è a favore o contrari alla violenza, ora sì possiamo chiederci “da che parte stare?”.

Benvenuti in Vietnam.

 

Cronaca di una giornata di rivolta (parte 1)

[stextbox id=”custom” big=”true”]Un nuovo autore su Camminando Scalzi
Pubblichiamo oggi la prima parte dell’articolo di Alessandro Grassi alla sua prima collaborazione con la blogzine. L’articolo è accompagnato dalle foto scattate da Alessandro in Val Susa.[/stextbox]

Hanno proprio ragione i valligiani di Susa a scrivere sulle proprie magliette “la paura qui non è di casa”.

Poche cose riescono a suscitare un consenso bipartisan così vasto come la linea TAV Torino-Lione, tanto da indurre lo Stato a schierare 2000 agenti (duemila! Quanti sono i carabinieri in Afghanistan?). Loro, il popolo della valle, hanno contro tutti i poteri che contano, ma paura non ne hanno. Così come non ne hanno avuta i manifestanti, autoctoni e non, che hanno assediato quella che un tempo era la Libera Repubblica della Maddalena e ora è zona militare occupata dalle forze dell’ordine. Domenica hanno legittimamente provato a liberarla, ma sapevano che sarebbe stato impossibile. L’obiettivo dichiarato – “dare un segnale forte” e “assediare” le recinzioni – però, è stato raggiunto.

Poiché i giornali mainstream faticano a riportare le dinamiche della protesta, questo è il mio racconto della giornata di rivolta che ha animato una valle intera nel nord-ovest italiano.

Sono arrivato a Susa sabato mattina e da subito mi son accorto che l’aria che si respirava era diversa, ma non era solo l’assenza dello smog romano e il bel paesaggio naturale che mi circondava. La solidarietà degli abitanti della valle ai manifestanti forestieri la sperimento in prima persona. Appena arrivato sono tutti felici di dare informazioni e una signora spontaneamente si offre di dare un passaggio a me e ad altri ragazzi fino al presidio NO TAV di Venaus. In macchina ci racconta dello sgombero della Maddalena, della violenza dei poliziotti e della propria decisione a non lasciare costruire la TAV. Tutti sapevano che l’indomani sarebbe successo “qualcosa di grosso”, che ci sarebbe stata l’ennesima battaglia in una lunga serie che ha visto questo territorio come teatro.

Domenica mattina mi sveglio presto al presidio. Faccio colazione e rimedio un passaggio da due emiliani fino a Exilles, uno dei tre concentramenti da dove partirà un corteo. Dovrebbe essere lo spezzone più numeroso e quello più istituzionale e pacifico. Da Exilles ci si dirige verso Chiomonte (da dove parte un altro corteo che confluisce). È in questo corteo che l’incontro surreale con una anziana signora, che potrebbe essere una predicatrice eretica di secoli remoti, preannuncia che sarà dura. Regge un bastone con in cima un crocifisso e nell’altra mano una statua della Madonna e mi  dice che protestare contro la TAV “è giusto”, perchè la Madonna vuole pace e amore e giustizia divina, che ci sono dei diritti da rispettare e la TAV non li rispetta. Poi precisa: “anche l’apocalisse è pace e amore”. Non so in che senso lo intendesse ma ora è difficile pensare che non fosse un presagio di quanto poi è successo.

Durante il corteo incontro altri Valsusini di tutte le età, in testa ci sono sindaci e bambini. È bello parlare con loro, ci tengono alla loro valle e alla loro lotta. Sono cinque chilometri nel punto in cui la valle è più larga: due statali, un fiume, una linea ferroviaria sottoutilizzata e un’autostrada già poco desiderata, un’altra ferrovia ad alta velocità per portare le merci da Lisbona a Kiev, costosa e inutile, non la vogliono. Per non parlare dei costi sostenuti da tutto lo Stato e dalla mancanza di evidenti benefici che dovrebbero costituire l’interesse nazionale.

Il corteo prevede la discesa fino a Chiomonte per sfilare davanti alla centrale elettrica (dove c’era la barricata che proteggeva la Libera Repubblica della Maddalena), io però mi sfilo prima e al bivio per Ramats salgo i monti deciso a imboccare uno dei sentieri che porta giù alle recinzioni che circondano il cantiere dei lavori. Dal corteo si staccano in molti. Arrivo in cima a Ramats, alla frazione Sant’Antonio, dove ci sono già tanti manifestanti che si preparano per scendere. Indossano caschi e tengono maschere antigas intorno al collo. “Violenti organizzati”, diranno le malelingue, giornalisti che forse nemmeno erano presenti, ma come biasimare quelli attrezzati dopo lo sgombero della settimana prima? Tutti sapevano che le forze dell’ordine ci avrebbero sommerso di gas lacrimogeni; non quelli normali: il CS, vietato in guerra, che ti toglie il respiro, brucia la pelle e ti entra in gola fino a farti vomitare. Di lì a poco anche io avrei pregato in ginocchio per avere una maschera.

I sentieri per scendere al cantiere sono due, uno più lungo e leggermente più largo e uno più esposto e più stretto. Decido di prendere il secondo, perché da lì si riesce a vedere il cantiere e l’autostrada (chiusa al traffico dalla mattina). Mentre scendo l’elicottero svolazza intorno alle montagne con il suo incessante rumore che proseguirà per tutto il giorno. Scendere il sentiero è emozionante, non mi era mai capitato un corteo “di montagna” e non si può certo rinunciare a questa esperienza. All’inizio non ci sono alberi intorno e infatti riesco a vedere l’imponenza dello schieramento dei carabinieri più in basso. C’è anche la forestale, la finanza e i cacciatori della Sardegna, corpo speciale capace di muoversi tra i monti, chiamato apposta per la situazione. Mano a mano che si scende però si capisce che non si tratta di una piacevole scampagnata tra i boschi.  Il sentiero è tortuoso e si addentra nel bosco, inizio a sentire puzza di lacrimogeno e i botti si ripetono costantemente. Gli scontri, giù al cantiere, sono iniziati dalla mattina. Altri due concentramenti, da Giaglione e da Ramats, si sono diretti attraverso la vegetazione all’assalto delle recinzioni. La polizia è sotto assedio già da diverse ore quando arrivo. Siamo incolonnati e ci avviciniamo a un bivio da dove si può scendere per la recinzione. Da lì salgono manifestanti con gli occhi gonfi e le facce impaurite; tutti che dicono “non scendete se non avete le maschere, ci sono i poliziotti che appena vedono qualcuno avvicinarsi sparano lacrimogeni”. Tutti ripetono questa cosa e si decide allora di proseguire e scendere alle recinzioni più avanti. Cammino ancora un po’ dietro gli altri in fila indiana, si sale e poi si prosegue per un bel pezzo alla medesima altezza, infine si scende. Di nuovo lo stesso scenario, ma questa volta sono in tanti a risalire, tanti quanti quelli che scendono. Di nuovo lo stesso mantra: “non scendete”. Mi sembra di andare incontro all’orrore del colonnello Kurtz discendendo un sentiero tortuoso invece che risalendo un fiume. Si respira aria di lacrimogeni invece che di napalm.

La quantità di gente che cammina per i sentieri è impressionante. Migliaia, tra quelli che salgono e quelli che scendono a dare il cambio agli assedianti stremati. Le raccomandazioni di coloro che salgono, che già hanno visto e respirato la potenza delle forze armate, valgono a poco. Alcuni si fermano ed esitano ma molti continuano. Una colonna infinita muove decisa e quando i cori fanno tremare la foresta al grido “giù le mani dalla val Susa!” il cuore si ferma nel petto.

I lacrimogeni iniziano a fare effetto e penso di essere ormai prossimo al cantiere ma in realtà solo più tardi mi accorgo di essere ancora molto in alto e che i lacrimogeni riescono ad arrivare in quel punto perchè sparati direttamente dall’elicottero che continua a volare sopra le nostre teste.

Ci si addentra sempre di più. A volte ci si ferma per aspettare che l’aria si pulisca dai gas e poi si procede. Si scende e alla fine si arriva a uno spiazzo dove avvengono gli scontri.

Qui, mi dicono, la mattina c’era la polizia, ma è stata respinta. Le recinzioni sono state tagliate e parte del cantiere è stato anche riconquistato. Poi la polizia ha ripreso terreno ma non è in grado di dissolvere la forza dei manifestanti. Si limitano a sparare lacrimogeni a raffica, senza sosta per tutta la mattinata, anche se nel pomeriggio, probabilmente mossi dal timore di rimanere senza, ne riducono l’uso. Non so se è a causa dell’abitudine o meno, ma anche l’effetto dei lacrimogeni sembra diminuire, tanto da farmi pensare che forse gli ultimi non erano del medesimo tipo dei primi che erano veramente intollerabili.

Scendendo dal sentiero, superando gente intossicata o che si riposa mangiando un panino negli spiazzi prima di tornare a manifestare, il fondo del sentiero è ancora parte del bosco e delimitato da alte rocce. Tra queste una strettoia è il punto per accedere al cantiere e fronteggiare la polizia. Lì si concentrano i manifestanti e da lì arrivano i lacrimogeni sparati ad altezza uomo direttamente addosso alle persone, oppure lanciati alle spalle in modo che a volte ci si ritrova con la polizia davanti e il gas dietro. Si tratta di proiettili a grappolo che una volta toccato terra si dividono in diverse cartucce che saltano tutto intorno. Per fortuna molti manifestanti sono attrezzati con guanti spessi abbastanza da poter prendere in mano le cartucce e lanciarle indietro oppure abbastanza svelti da coprirle con terra e foglie.

Dai manifestanti in risposta vengono lanciati sassi alla polizia, non si fatica a ritrovare materiale nel sottobosco. Le forze dell’ordine non si tirano certo indietro dal rispondere allo stesso modo: lanciano pietre dall’alto dell’autostrada. Forse proprio a questo si riferisce Maroni quando parla di “tentato omicidio”.

A un certo punto mentre questo caos mi circonda, le urla della gente e i botti degli esplosivi rimbombano, e una scena quasi surreale mi si presenta davanti agli occhi. Dal monte scende una banda mentre la rivolta imperversa. Sono vestiti di rosa acceso, con paillette luccicanti, la cosa più fuoriluogo che potesse comparire. A quel punto anche i carabinieri che cantano la canzone di Topolino o Mary Poppins che scende dal cielo con un ombrello sarebbero stati normali. I musici attaccano a suonare i loro tamburi, ma dura poco. Ci sono i feriti e il loro suono copre anche le urla di chi chiede un medico, quindi vengono fatti smettere. I manifestanti sono tutti pronti a soccorrersi a vicenda, i feriti vengono medicati e portati via dal campo di battaglia.

Si continua così, si alternano avanzate dei manifestanti con scariche più dense di lacrimogeni che costringono tutti ad allontanarsi. Avanti e indietro in continuazione. La polizia fatica evidentemente a tenere a bada i manifestanti. A un certo punto, forse pensando a una azione risolutiva, decide persino di avanzare con una ruspa. Poi segue una violenta carica, ma mentre osservo da una posizione laterale, si capisce subito che è una brutta idea. La polizia mette in fuga i manifestanti nello spiazzo e si trova così al centro di una sassaiola proveniente dalle posizioni sopraelevate in cui costringe i NO-TAV. L’unica soluzione che rimane loro è quella della fuga, disordinata e per questo pericolosa, tanto pericolosa che uno “sbirro” viene catturato. Subito viene circondato e spogliato delle armi. Poi viene lasciato andare. Si accende un dibattito, molti avrebbero voluto tenerlo per trattare il rilascio dei fermi.

Il fatto che i manifestanti siano in possesso di una pistola delle forze armate non lascia tranquilli i rappresentanti dello Stato e quindi si aprono persino delle trattative per riavere indietro l’arma. Trattative che scemano nel nulla. Scopro solo il giorno dopo che la pistola sarà restituita, senza caricatore, la sera stessa. Nel frattempo i manifestanti sono stanchi e la pausa dai lacrimogeni della polizia permette loro di riflettere sul da farsi. Nel mentre arriva la notizia che cinque camionette sarebbero arrivate e avrebbero caricato le persone su alla frazione di Sant’Antonio. La decisione presa è quella di risalire per dare una mano, forse anche mossi dal desiderio di cambiare un po’ teatro per uscire dalla evidente situazione di stallo che si è creata. Inizia così la risalita. Una faticosissima risalita su per i sentieri, accompagnati dal rumore dell’elicottero. La stanchezza è molta. Quando arriviamo in cima la polizia se n’è andata, ancora non so se la carica ci sia effettivamente stata. Ma a quel punto per me la giornata finisce e decido che è ora di trovare il modo di tornare a casa. Altri si spostano, cercando di evitare i blocchi stradali che, si vocifera, siano sparsi per tutta la valle. Nel mentre gli scontri continuano alla centrale elettrica, dove un gruppo di manifestanti distaccatosi dal corteo principale si è scagliato contro le recinzioni.

Il tempo di trovare un passaggio su un camper di generosi anarchici e di raggiungere una stazione qualsiasi da dove prendere un treno per Torino.

…continua…

La ricerca della qualità

[stextbox id=”custom” big=”true”]Un nuovo autore su Camminando Scalzi
Vi presentiamo oggi Alessandro Sisto, giovane blogger al suo primo articolo per Camminando Scalzi. Alessandro gestisce con amici il blog “Lo Spettatore” che trovate a questo link. Buona lettura![/stextbox]

C’è del cinismo nello spettatore medio di Mediaset, una sorta di masochistico compiacimento assaporato con gusto decadente. Nulla di squisito e artisticamente raffinato sembra affermarsi nel generale degrado di questa società materialista. Sempre più spesso, infatti, vengono proposti ai giovani modelli di grave vacuità intellettuale, e spesso anche morale, che si affannano in una narcisistica volontà di potenza, a inseguire il successo con ogni mezzo. Si susseguono ormai quotidianamente sui nostri schermi televisivi trasmissioni celebrative del culto dell’ignoranza, che promuovono una scalata al successo fondata non sulle reali competenze ma su una spesso malcelata tendenza alla prostituzione e alla finzione.

Sovente il pretesto del superamento di un perbenismo bigotto è alla base di un atteggiamento trasgressivo che non rispetta limiti. Ne è una dimostrazione Tamarreide , la nuova trasmissione del Lunedì di Italia uno , in cui un piccolo branco di “tamarri” viene caricato su un pullman e condotto in diverse città  per essere osservato nel proprio habitat naturale. Questa transumanza, arricchita dall’atteggiamento provocatorio di una dissonante (rispetto al contesto) Fiammetta Cicogna, viene mascherata da analisi psico-sociologica, venandosi di elementi morbidamente commoventi (capita che la povera tamarra Marika riveli un passato familiare turbolento in un momento di catarsi degno delle migliori puntate di Pomeriggio Cinque).

E se il Codacons chiede la chiusura immediata del programma (a causa della messa in onda di un’orgia dai contorni sfuocati) va comunque detto che gli ascolti consentono al format di sopravvivere. Forse ci aspettavamo tutti che in questa nuova epoca, dal vento diverso, un simile show non superasse la seconda puntata (come accaduto a Uman take control, altro prodotto della stessa “qualità” ). Pensavamo che certi sonniferi televisivi, descrittivi dell’Italia peggiore, fossero giunti al tramonto e che gli italiani fossero affamati di contenuti. Però, chissà, magari è presto per demordere, magari  la quarta puntata sarà anche l’ultima.

Loro sono tamarri, e voi?

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Pic-nic che fai, libro che leggi.

Estate: tempo di vita all’aria aperta e di amene colazioni sull’erba. E vuoi non avere la compagnia di un libro scelto ad hoc? Se le idee in proposito scarseggiano, ci pensa il Guardian a venire in nostro soccorso con un decalogo di titoli a tema con tanto di spunti per il menù.

Che tipi siete? Stringete tra le mani un mattone alla Moby Dick, che grida “sono fedele, paziente, abituato a faticare”, l’italianissimo e intramontabile Camilleri o la trilogia di Uomini che odiano le donne?

In ogni caso se sfogliate qualcosa di più delle pagine rosa della Gazzetta e avete in mente una gita in libreria subito dopo aver confezionato i panini, ecco alcuni consigli direttamente made in Britain.

Se sperate che l’ambientazione bucolica porti a validi risultati, il libro che fa per voi è senza dubbio Donne innamorate di quella vecchia volpe di D. H. Lawrence. Altri super classici adatti all’occasione sono il racconto Il duello di Čhekhov e il romanzo Emma dell’onnipresente Jane Austen, mentre per i più fortunati che si possono permettere una capatina al mare il libro consigliato è – ça va sans direGita al faro di Virgina Woolf.

Se avete bisogno di emozioni forti, invece, è consigliabile rifugiarsi nelle pagine di libri come Dead Babies di Martin Amis o L’amore fatale di Ian McEwan, mentre se avete voglia di sognare un po’ il libro adatto a voi è sicuramente Il Vento fra i salici di Kenneth Grahame.

Avete in mente altro? A voi lettori l’ardua sentenza.

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