“Terraferma” è il nuovo film del regista di origini siciliane Emanuele Crialese, in concorso alla sessantottesima Mostra internazionale del cinema di Venezia, che si è appena conclusa. Il film ha ottenuto un ottimo riscontro, e gli è stato attribuito il Premio della giuria. Il mare può separare e isolare mondi e persone, ma anche unirli e trasformarli: è questo il tema principale del suo lavoro; torna ad ispirare Crialese, il mare, dopo “Respiro” e “Nuovo mondo”, altri due film molto applauditi.
La prima inquadratura di Terraferma è proprio dedicata al mare, scandagliato nelle sue profondità, di cui sembra di sentire il respiro. Altre ne seguiranno ancora, nel prosieguo del film, a scandire le fasi del racconto. La storia attinge dalla cronaca degli ultimi anni: su una piccola isola siciliana, che ricorda Lampedusa ma in realtà si tratta di Linosa, sbarcano le precarie imbarcazioni dei migranti. Gli abitanti, lacerati dalle contraddizioni della modernità, devono affrontare questa nuova realtà. C’è chi continua ad obbedire, come ha sempre fatto, alla legge del mare, quella che impone di aiutare chiunque sia in pericolo e di riportarlo a terra; sono perlopiù gli anziani pescatori, fedeli alla loro identità, anche se vivono in maniera sempre più difficile la modernità e non riescono più a vivere del loro lavoro. Altri temono che gli sbarchi possano compromettere l’immagine dell’isola, affacciatasi ad un prospero futuro di sfruttamento turistico, nel quale intravedono l’unica possibilità di guadagni consistenti.
Lo Stato impone la sua presenza vietando agli abitanti di aiutare i migranti, sequestra le barche dei pescatori che li hanno presi a bordo; proprio la rappresentazione del ruolo delle forze armate e quindi dello Stato, in questo film, è l’elemento che ha suscitato alcune perplessità; molti hanno rilevato una eccessiva accentuazione dello scontro tra “buoni e cattivi”, e una lettura troppo “politicamente corretta” delle drammatiche vicende legate all’emigrazione. Forse la presenza dei rappresentanti dello Stato costituisce quasi una necessità narrativa all’interno della storia, perché mette in moto la vicenda. D’altronde il regista ha dichiarato di non aver voluto fare un film “a tesi”, e di aver scelto come pubblico ideale “un bambino di sette anni”. Dunque se di film politico si può parlare, è a proposito delle riflessioni etiche che induce nello spettatore, aprendo uno sguardo profondo su temi quali la convivenza, la contaminazione e condivisione. Esemplare a tal proposito la scena notturna dell’”assalto” dei poveri migranti sfiniti all’imbarcazione di Filippo, il giovane protagonista. Una scena che difficilmente, a mio avviso, gli spettatori potranno dimenticare.
Nel film, incentrato sulle vicende di una piccola famiglia, è molto importante, tra i protagonisti, proprio il ruolo di Filippo, un ragazzo di vent’anni che ha perso il padre, scomparso in mare. Filippo è molto legato al nonno Ernesto, con cui lavora sul peschereccio di famiglia; è lui a vivere in prima persona le problematiche connesse all’accoglienza degli stranieri che vengono dal mare, e si rivela da subito come un eroe positivo, anche se non riuscirà sempre a salvare tutti gli uomini alla deriva. Altro personaggio chiave del film è Giulietta, la mamma di Filippo, divisa tra l’attaccamento alle radici e le esigenze di cambiamento e di trasformazione. Il suo personaggio si muove tra un’iniziale ostilità nei confronti della famiglia di migranti salvata dal nonno e una graduale apertura nei loro confronti. Di fronte allo sguardo di Timnit, la donna etiope che qui recita raccontando la sua storia vera di migrante, Giulietta scioglie i nodi della paura e della chiusura. Queste due donne che si guardano negli occhi ed aprono il loro cuore sono un segno di speranza, e tracciano la via di un’”umanità” nuova.