Intervista a Mario Fresa, Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione (parte 2)

[stextbox id=”custom” big=”true”]Questa è la seconda parte dell’intervista rilasciata da Mario Fresa, Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, ex membro del Consiglio Superiore della Magistratura. Abbiamo approfondito diverse tematiche, dal rapporto tra la magistratura e la politica alla separazione delle carriere, sino ad un’accurata analisi della situazione attuale della giustizia italiana. Trovate qui la prima parte[/stextbox]

Cosa sono le “correnti” all’interno della magistratura?

Per “correnti” della magistratura si intendono le diverse associazioni di magistrati che si riconoscono tutte all’interno dell’Associazione Nazionale Magistrati. L’A.N.M., nata nel lontano 1909, sciolta nel ventennio fascista e ricostituita nel 1945, ai sensi dell’art. 2 dello Statuto, si propone i seguenti scopi: 1) dare opera affinché il carattere, le funzioni e le prerogative del potere giudiziario, rispetto agli altri poteri dello Stato, siano definiti e garantiti secondo le norme costituzionali; 2) propugnare l’attuazione di un Ordinamento Giudiziario che realizzi l’organizzazione autonoma della magistratura in conformità delle esigenze dello Stato di diritto in un regime democratico; 3) tutelare gli interessi morali ed economici dei magistrati, il prestigio e il rispetto della funzione giudiziaria; 4) promuovere il rispetto del principio di parità di genere tra i magistrati in tutte le sedi associative ed in particolare assicurare la presenza equilibrata di donne ed uomini negli organismi dirigenti centrali, distrettuali e sottosezionali dell’Associazione, nonché in tutte le articolazioni del lavoro associativo e nei casi in cui l’Associazione sia chiamata a designazioni di suoi rappresentanti; 5) dare il contributo della scienza ed esperienza della magistratura nella elaborazione delle riforme legislative, con particolare riguardo all’Ordinamento Giudiziario.

Come si vede, l’A.N.M. non può definirsi soltanto come il sindacato dei magistrati, ma è un organo che contribuisce in modo rilevante alla c.d. politica giudiziaria, nell’ottica di un miglioramento dell’efficienza e dell’efficacia della Giustizia, al servizio dei cittadini. Le c.d. correnti della magistratura non rappresentano altro che le diverse culture esistenti tra i magistrati e i diversi approcci possibili all’esame e alla soluzione dei comuni problemi degli uffici giudiziari. Direi che da questo punto di vista rappresentano la linfa vitale del sistema giudiziario italiano; sono centri di elaborazione di idee e di progetti volti a migliorare il funzionamento della Giustizia e che, attraverso l’A.N.M., interagiscono con il mondo politico, sottoponendo al Governo e al Parlamento il punto di vista per così dire “tecnico” sulle possibili riforme legislative.

Ribadita l’essenzialità delle correnti al fine di tenere qualitativamente alto il dibattito sulla Giustizia e di garantire il pluralismo associativo all’interno dell’A.N.M., devo anche dire che, spesso, le stessi correnti hanno tradito i loro ideali e si sono degradate a centri di interessi corporativi o, peggio, personali. Del resto, proprio per contrastare queste patologie e riportare l’associazionismo dei magistrati ai più alti valori per i quali era nato, Giovanni Falcone e altri valorosi colleghi, nel 1988, fondarono il Movimento per la Giustizia, che si prefiggeva proprio il superamento delle divisioni fondate non su diversi ideali, ma su diversi interessi corporativi, tra l’altro aprendosi anche al contributo di giuristi provenienti dall’esterno della magistratura.

La strada che ci si prefiggeva di percorrere si è poi rivelata irta di ostacoli. Credo però che non si possa seriamente pensare di risolvere il problema della Giustizia italiana ritenendo di abolire le correnti della magistratura, così come non si può pensare di risolvere i problemi della Politica italiana, propugnando la soppressione dei partiti. Ci si deve invece impegnare per evitare il perseguimento di interessi che non collimino con quelli della collettività, così come sintetizzati nella Costituzione, e si deve far questo tanto nella Giustizia quanto nella Politica.

Qual è la sua opinione sulla separazione delle carriere tra organo giudicante e requirente?

Si tratta di un problema che ciclicamente si ripropone con più o meno forza, senz’altro serio ma, forse, sopravvalutato in relazione ad altre riforme che ritengo più urgenti per il sistema Giustizia. Come noto, la separazione delle carriere tra organi giudicanti e organi requirenti è auspicata da chi ritiene che, nell’attuale sistema processual-penalistico, ove il processo segue un rito del tipo accusatorio, il PM sia in tutto e per tutto una parte processuale e che, per le garanzie della difesa, debba essere posto sullo stesso piano delle parti private, con un giudice in posizione di effettiva terzietà, anche ordinamentale oltre che processuale.

Vero è che, nel rito penale vigente, il PM è una parte sui generis, perché tenuto per legge alla ricerca della verità e non alla verifica di una ipotesi di colpevolezza. Tant’è che l’organo requirente è tenuto a cercare ogni prova in vista dell’accertamento della verità e, quindi, anche le prove favorevoli all’indagato. Non può dunque il PM essere posto in tutto e per tutto in posizione speculare a quella della difesa privata, perché gli avvocati degli indagati (come quelli di parte civile) sono tenuti, per apposito mandato, a sostenere le ragioni del proprio cliente e non a ricercare la verità. Detto questo, un PM che fosse separato dall’organo giudicante, con diverso concorso di accesso e con carriera irreversibilmente separata, si porrebbe più lontano dalla giurisdizione per avvicinarsi a funzioni più prettamente investigative, quasi che fosse un superpoliziotto. E se nel sistema vigente il problema è quello di assicurare ad ogni cittadino indagato o imputato le garanzie più ampie di difesa, in un sistema a carriere separate il PM, più vicino alla figura del superpoliziotto che a quella del giudice, offrirebbe sicuramente meno garanzie di quante ne offra attualmente, sia pure con le cadute di professionalità alle quali in vari casi si assiste. Un concorso di accesso comune e percorsi professionali separati solo funzionalmente, e non irreversibilmente, assicurano invece una maggior cultura della giurisdizione dei pubblici ministeri, specie di quelli che, per scelta o per assegnazione iniziale, abbiano effettivamente svolto le funzioni giudicanti. Conseguentemente, garantiscono maggiormente i cittadini ed è per queste ragioni che i vari Paesi ove le carriere sono separate auspicano riforme nella direzione del modello italiano.

Direi di più. Ammesso che si vari una riforma, necessariamente costituzionale, che separi le carriere dei magistrati giudicanti da quelle dei magistrati requirenti (come il disegno di riforma costituzionale presentato dal Governo Berlusconi il 10 marzo 2011, tuttora pendente in Parlamento), ne conseguirebbe un vero e proprio rafforzamento della categoria dei pubblici ministeri che, garantendo meno i cittadini, necessiterebbe di appositi e più incisivi controlli. Insomma, inutile illudersi. Un PM forte e separato dai giudici, con minor cultura giurisdizionale e maggiori poteri investigativi, cadrebbe inevitabilmente sotto il controllo del potere esecutivo. A questo punto, sarebbe in pericolo anche il principio di obbligatorietà dell’azione penale, che è garanzia di eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, con il passaggio all’azione discrezionale sotto il controllo del Governo di turno.

Con ciò vedrebbe la sua realizzazione il vecchio e mai sopito desiderio di parte della classe politica e dei poteri forti di abbassare o limitare a determinate categorie di reati l’effettivo controllo di legalità sul territorio del nostro Paese. Forse i più giovani non sanno che questo era uno dei principali obiettivi dell’associazione segreta denominata P2 e del suo indiscusso capo Licio Gelli. Basta leggere i libri di storia per capire che questa organizzazione (alla quale partecipavano diversi politici, imprenditori, affaristi, tuttora in circolazione) non aveva come scopo il bene dell’Italia, ma quello dei propri fratelli massoni.

Quali sono le difficoltà reali e i problemi della giustizia italiana in questo periodo di generale crisi del paese?

Sono convinto che non siano i problemi processuali o quelli di diritto sostanziale a rendere estremamente difficoltosa e inadeguata la Giustizia italiana. Come dicevo, non solo la cultura giuridica italiana è invidiata in tutto il mondo, ma anche i nostri modelli processuali lo sono. Quanto al diritto sostanziale, esso sconta necessariamente i limiti, cui pure accennavo, di una legislazione di gran lunga più lenta di quanto non sia l’evoluzione dei costumi e delle tecnologie della società.

Ma il punto è un altro. Bisogna mettere in grado gli uffici giudiziari italiani di rispondere con maggior qualità e maggior celerità all’enorme mole delle domande di giustizia che piovono quotidianamente da ogni parte del territorio. Viceversa, su un organico previsto per legge di 10151 magistrati ordinari, siamo in servizio solo in 8118 e questo è anche la conseguenza di molti anni trascorsi (soprattutto durante il Ministero Castelli) senza che fossero emanati bandi per il concorso di accesso, sia perché si era in attesa di una riforma ordinamentale (quella del 2006) che poco aveva a che fare con l’esigenza della massima copertura dei posti in organico, sia perché mancavano le risorse economiche, che tuttora mancano.

Per il personale amministrativo la situazione è ancor più disastrosa e, per risolvere il problema dei tanti posti vacanti in organico, si è proceduto a ridurre fortemente il numero degli organici medesimi, con il risultato che da molti anni non si bandiscono più concorsi nell’amministrazione della giustizia. Per non parlare della mancanza di mezzi di ogni tipo. Strutture edilizie da tempo inadeguate e, a volte, non conformi alla normativa riguardante la sicurezza dei lavoratori. Mancanza di stanze per i magistrati e di aule di udienza. Mancanza di scrivanie, sedie, computer, carta… Insomma, il c.d. servizio giustizia in queste condizioni – che tutti possono verificare facendosi un giro per gli uffici giudiziari – è frustrante per i magistrati, poco dignitoso per gli altri dipendenti pubblici e del tutto insoddisfacente per i cittadini.

E’ vero. Oggi si assiste a una generale crisi del Paese, soprattutto economica e finanziaria. Non tutti sanno però che questa crisi è acuita non poco dalle inefficienze della Giustizia che, ad esempio nel settore civile, dove i tempi di definizione dei processi sono davvero biblici, si riflettono in una notevole contrazione degli investimenti degli imprenditori italiani e stranieri, timorosi di non poter recuperare in modo pieno e celere i propri crediti. Al contrario, chi non vuole onorare i propri debiti trova terreno fertile nei ritardi giudiziari. Di qui l’ulteriore considerazione che la crisi della Giustizia non fa che acuire la crisi economica e finanziaria.

 La giustizia italiana di quale tipo riforma o cambiamento radicale avrebbe bisogno?

Quello che si dovrebbe chiedere al potere legislativo non è tanto la riforma dei quattro codici o della miriade di leggi speciali in vigore, quanto una riforma organica che metta mano finalmente ai veri problemi degli uffici giudiziari, che sono problemi organizzativi, gestionali, informatici, o anche solo culturali. Gli abnormi ritardi dei processi in Italia, specie di quelli civili, come prima evidenziato non sono dovuti a procedure farraginose e lo sono solo in minima parte a causa della lentezza dei magistrati nel deposito dei provvedimenti. Essi sono dovuti principalmente ad una architettura degli uffici giudiziari che (pochi lo sanno) risale ancora al regno sabaudo (ne è una riprova l’esistenza di ben 16 tribunali dislocati, soltanto, nella Regione Piemonte), quando per andare a cavallo o in carrozza da Roma a Civitavecchia ci si impiegava di più di quanto oggi si impiega per andare da Roma a Palermo ed era necessaria una capillarizzazione della presenza dei magistrati sul territorio. Oggi si rende urgente una economizzazione e razionalizzazione delle (poche) risorse a disposizione, anche tenuto conto che, come noto, gli uffici giudiziari in grado di rendere risposte più efficienti ed efficaci alla collettività non sono né quelli di piccole dimensioni (dove si pongono problemi di funzionalità minime e di incompatibilità processuali irrisolvibili), né quelli c.d. metropolitani (dove si pongono problemi di gestione assai difficili da risolvere), ma sono invece gli uffici di medie dimensioni.

Una revisione delle circoscrizioni giudiziarie – invano auspicata con apposita proposta legislativa dal C.S.M. nel luglio 2010 – costituirebbe, quindi, lo strumento indefettibile per realizzare un sistema moderno ed efficiente di amministrazione della giurisdizione, che sia in grado di fornire la dovuta risposta di merito alle istanze di giustizia, nel rispetto di tempi ragionevoli di durata del processo, nella consapevolezza che il ritardo nel giungere alla decisione si risolve in un diniego di giustizia. Si renderebbe possibile in tal modo un’ottimizzazione delle risorse a disposizione del sistema giustizia (personale di magistratura, personale amministrativo, mezzi e strumenti, anche informatici), capace di aumentare sensibilmente la risposta giudiziaria in relazione alla corrispondente domanda di giustizia dei cittadini. Una riforma di tal genere sarebbe più di ogni altra capace di invertire il “trend” giudiziario e di far superare il senso di profonda amarezza che alberga nella coscienza di chi si pronuncia ogni giorno “in nome del popolo italiano” e viene al contempo delegittimato proprio da chi, pure, quel popolo rappresenta.

Una amarezza, certo, che non è nuova se si pensa a quanto affermava Calamandrei nel lontano 1921: “la crisi della giustizia sta nella svalutazione morale della magistratura: ad aggravar la quale hanno dato opera assidua da cinquant’anni a questa parte burocrazia e parlamento. Se lo stato avesse voluto preordinatamente distruggere a colpi di spillo il prestigio della magistratura di fronte al popolo e spegnere a poco a poco in lei stessa ogni fiducia nell’opera propria, avrebbe dovuto comportarsi verso di essa come si è comportato […] Ed ecco: questi magistrati che sono la voce vivente della legge e la incarnata permanente riaffermazione dell’autorità dello Stato, si accorgono che lo Stato agisce talora come se fosse il loro più aperto nemico: sentono che, se vogliono seguitare a render giustizia, devono farlo, più che in nome dello Stato, a dispetto dello Stato, il quale incarnato nel Governo, fa di tutto per neutralizzare, per corrompere, per screditare, per rendere incerta e poco seria l’opera loro”.

 

 

 

 

 

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