I nuovi italiani e le vecchie idiozie

Le parole di qualche giorno fa del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano hanno riacceso la polemica sulla possibilità di acquisizione della cittadinanza da parte degli stranieri nati in Italia. Lo stesso instaurarsi di una polemica sull’argomento dimostra non tanto la consistenza della questione (evidente agli occhi di chiunque non si rifiuti di vedere), quanto il grado di barbarie che caratterizza l’attuale classe politica italiota.
È facile comprendere che, nella mente di chi promette le “barricate” contro l’attuazione della proposta, il principale impulso sia l’anacronistico e peraltro inutile rifiuto dell’immigrazione e, più in generale, del “diverso” (che brutta parola). È un istinto, questo, che purtroppo alberga in alcuni strati della popolazione di cui la Lega è solo una ridicola espressione ma che, banalmente detto, non c’entra nulla. Qui non si tratta di discutere se accogliere o meno gli extracomunitari sul nostro territorio, conducendo battaglie sul kebab e magari agitando lo spettro della pubblica sicurezza minacciata dagli assalti dei saraceni. Per capire la natura e l’entità della questione, forse è bene dare qualche numero. I dati Istat relativi al 1° gennaio 2010 certificano una popolazione di 4.235.059 di stranieri residenti in Italia. Fra questi, circa 573.000 sono nati nel nostro paese. Sono quelli che compongono la cosiddetta “seconda generazione”, ossia i figli di genitori stranieri nati nel paese di residenza. In termini meno tecnici, per fare solo alcuni esempi, sono tutti i bambini figli di stranieri che affollano i reparti di maternità dei nostri ospedali o i compagni di classe dei bambini italiani, figli degli immigrati. In realtà, non è solo di bambini che stiamo parlando. Vista l’origine temporale del fenomeno dell’immigrazione in Italia, esiste un’intera generazione di persone nate nel nostro paese, educate nelle nostre scuole, cresciute nelle nostre città, che in virtù o a causa dell’attuale sistema di assegnazione della cittadinanza, basato quasi esclusivamente sullo “ius sanguinis” (per cui, in buona sostanza, è italiano chi è figlio di italiani, salvo alcuni casi particolari), non risultano italiani. Chi desideri più informazioni, compresa la differenza tra “ius sanguinis” e “ius soli”, può trovarle in due articoli riassuntivi  de Il Post e Il Sole 24 Ore . Un caso balzato agli onori della cronaca qualche tempo fa è quello di Mario Balotelli, nato a Palermo da genitori ghanesi, cresciuto in provincia di Brescia, il quale ha dovuto attendere la maggiore età affinché gli fosse concessa la cittadinanza italiana. È del settembre 2011 l’ultimo rapporto Istat sulla popolazione straniera residente in Italia. Da esso risulta che nel solo 2010 i nati di seconda generazione ammontano a 78.082, in continua crescita rispetto agli anni precedenti (sebbene il tasso di incremento rispetto al 2009 sia inferiore a quello fatto segnare tra il 2008 e lo stesso 2009, probabilmente a causa della situazione economica generale): per dare un’idea delle proporzioni, corrispondono al 13,9% del totale delle nascite di tutti i residenti in Italia; italiani compresi, dunque.
Si potrebbe far notare che da soli, questi nuovi “non-italiani” compensano quasi l’intero saldo naturale (ossia la somma algebrica di nascite e decessi in un anno) negativo di noi “non-stranieri”, pari a -98.502 individui, ma, pur essendo questo un dato demografico interessante, non costituisce un argomento a favore della causa. Chi sostiene la necessità di un adeguamento del sistema di assegnazione della cittadinanza italiana non lo fa a fini utilitaristici: riconoscere l’effettiva italianità di tutte queste persone è giusto a prescindere della convenienza socio-economica che ne deriverebbe. Napolitano ha usato il termine “follia” per descrivere il paradosso di fronte al quale ci troviamo. Negare la cittadinanza italiana a chi ci è cresciuto a fianco, discriminandolo sulla base del colore della pelle e delle tradizioni non tanto sue quanto della sua famiglia alle spalle, equivale a una confessione di cecità nei confronti della storia del mondo e di ignoranza del concetto stesso di cittadinanza. Quanti oggi si dichiarano difensori della purezza degli autoctoni, evidentemente non paghi delle tragedie scaturite da tale concetto, in realtà confondono la nazionalità con il folklore, in buona e in mala fede. Anche volendo assecondare in parte i loro ragionamenti, ammettendo che i figli degli immigrati non assimilino al 100% gli usi e i costumi italiani (risulta comunque difficile non giudicare le contaminazioni culturali come un generale arricchimento), è sufficiente ciò per non essere italiani? Si badi, fra gli usi e i costumi non si intendono la lingua e il senso di appartenenza alla comunità, entrambi requisiti necessari ma pressoché automaticamente acquisiti nel corso della crescita e dello svolgimento della vita sociale (chi ricorda lezioni di grammatica e/o italianità in famiglia negli anni dell’infanzia scagli la prima pietra), considerato, tra l’altro, che nel 2008 il 6,4% degli studenti nelle scuole di ogni ordine e grado era composto da 574.676 studenti genericamente definiti stranieri (elaborazioni Istat su dati del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca). Scavando nelle argomentazioni di chi si dichiara contrario, si scopre che le obiezioni spesso riguardano “pietre miliari” dell’italianità come la cattolicità, le idee politiche o le abitudini quotidiane. Non è un caso che l’ipotesi di rimozione del crocifisso dagli edifici pubblici abbia suscitato una simile ridda di voci urlanti, accidentalmente provenienti dalle stesse bocche, contro lo sfregio dell’identità nazionale.
Si mantenga pure l’attuale legislazione in materia di cittadinanza. Si aggiunga anche un test genetico a tutti i nuovi nati allo scopo di verificare, e scremare di conseguenza, la presenza di eventuali ascendenze “impure”. Non lamentiamoci però se all’estero ci accartocciamo sempre di più nella macchietta del mangiaspaghetti. È quello che ci ostiniamo a difendere strenuamente.

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