Sir Terry Pratchett è il geniale scrittore che ha inventato il genere comico-fantasy, unendo abilmente Wodehouse con Tolkien. Ha scritto più di trenta libri, dei quali ha venduto circa sessanta milioni di copie, tradotte in trentacinque lingue (e che sono anche “i più rubati nelle biblioteche inglesi”, come sfoggia amabilmente ogni terza di copertina), è stato insignito del titolo di Ufficiale dell’Ordine dell’Impero Britannico e di una laurea honoris causae in Lettere all’Università di Warwick.
La sua opera è tendenzialmente più famosa del suo nome, e si riassume con le parole “Mondo Disco”. Una gigantesca tartaruga vaga nello spazio infinito, reggendo sul suo dorso quattro enormi elefanti che a loro volta sorreggono un pianeta piatto, in cui la magia è ancora molto concentrata e sul quale si possono trovare ogni genere di luoghi e personaggi bizzarri.
Se non avete mai letto niente di suo, vi consiglio di provvedere al più presto, per unirvi alla vasta schiera di suoi fan adoranti.
Ma questo articolo parla di altro.
Nel 2007, a sir Terry Pratchett è stato diagnosticato un raro caso di Alzheimer giovanile. Lo sconcerto e il dolore si è propagato nella sua vasta schiera di fan adoranti alla velocità dell’ottarino.
Tutti i dettagli pubblici sono raccolti in questa bellissima – e lunga – intervista dell’Independent del 2008.
Pratchett è passato dalle prime due delle famose fasi dell’accettazione del lutto: negazione e rabbia, e da quel che si può capire, sembra essere adesso nella fase della contrattazione. Ma etichette e schemi vanno bene per le persone comuni, non per i geni come Pratchett. La sua personale interpretazione di questo terzo passo è stata fare ricerche su ricerche, scoprire che l’Alzheimer è una delle malattie che beneficia di meno fondi per la ricerca, donare quindi un milione di dollari per la ricerca, infine riflettere meglio su cosa siano la vita e la morte.
Perché quando un uomo che dichiara “scrivere è la cosa più divertente che si possa fare da soli” si ritrova a non essere più in grado di battere al computer da solo i propri libri, o a dimenticarsi di una frase che ha formulato pochi secondi prima, capita che gli passi per la testa l’idea di farla finita.
E come capita sempre a tutti quanti, un argomento che prima a stento si credeva esistere, appena ci colpisce in prima persona diventa la cosa più importante del mondo. Pratchett comincia a guardarsi intorno e a cercare un modo per morire dignitosamente e pacificamente come e quando ne avesse avuto il desiderio. Eutanasia e suicidio assistito sono le due forme esistenti per questo genere di casi. Troverete tutte le inutili differenze tecnico-etimologiche riguardo le varie sfumature dei termini su wikipedia; qui mi limito a ricordare che si tratta nel primo caso di uccidere una persona nel suo stesso interesse, nel secondo di dargli i mezzi per porre fine alla sua vita autonomamente.
Le ricerche di Pratchett sono state raccolte in un documentario realizzato dalla BBC: “Terry Pratchett – Choosing to die”.
È ben realizzato, ma soprattutto è crudo e disperante nella sua semplicità. Non ha bisogno di orpelli tecnici o narrativi per sottolineare la gravità dell’argomento. Pratchett segue le decisioni di tre persone afflitte da gravi mali. Solo uno ha deciso di continuare a vivere, gli altri due hanno già appuntamento con la clinica svizzera dove finiranno i loro giorni. E Pratchett segue il loro percorso con il suo assistente e la troupe della BBC.
Da persona intelligente quale è, Pratchett si ritrova quasi più dubbioso alla fine della sua esperienza di quanto non lo fosse all’inizio. Sono le situazioni come queste che permettono la riemersione di tutti i dubbi filosofici-esistenziali a cui, se va bene, abbiamo dedicato qualche pomeriggio uggioso nell’adolescenza, per poi nasconderli nei recessi del nostro intimo.
Che cos’è la vita? Che cos’è la morte? La mia vita mi appartiene? Ho libertà di decidere cosa farne? Cos’è il dolore, e perché esiste? Perché a me? Esiste un Dio? Se sì, perché permette tutto questo? C’è vita dopo la morte? Se sì, cos’è il corpo fisico, a cosa serve? Perché siamo qui, da dove veniamo e dove dobbiamo andare? Cosa dobbiamo fare?
Da ateo (e probabilmente scientista), un po’ come il suo compianto collega Douglas Adams, con cui ha molto in comune – Pratchett ha sempre ritenuto la religione un fardello inutile di cui doversi disfare, e l’ha spesso criticata nei suoi libri, in particolare in “Tartarughe Divine” (Salani, 2011). Pur dimostrando una vasta cultura delle tradizioni e dei miti – religiosi e non – delle antiche popolazioni, li ha sempre utilizzati in chiave comica, talvolta satirica, ma mai “seria”, sempre beffandole un po’, almeno tra le righe.
Adesso si ritrova a dover mettere in discussione persino questo.
Certamente non sono un uomo di fede, ma un giorno stavo facendo le scale di corsa e… È stato davvero strano. Improvvisamente ho avuto l’impressione di sapere che era tutto okay, che ciò che stavo facendo era giusto, senza sapere perché. È stato come la sensazione che tutte le cose giuste stessero succedendo nelle circostanze, e ho pensato: ‘Oh, bene, allora’. È una sorta di filosofia totalmente inutile – non ti porta da nessuna parte. Ma riempie un vuoto.
(The Telegraph, giugno 2008)
L’unica delle tre persone che Pratchett intervista nel documentario che ha deciso di non ricorrere al suicidio assistito – malato di SLA da sette anni e mezzo – dice a Pratchett che è solidale con lui, e che la gente dovrebbe avere la possibilità di ricorrere a un mezzo simile, ma gli dice anche che lui ha deciso di “fare un altro lancio di dadi”, “provare ad andare avanti ancora un po’”; e continua: “E poi… Quand’è la ‘fine? Noi lo sappiamo? Quand’è che possiamo dire: ‘siamo vicini alla fine?'”. È l’unico momento in cui Pratchett è costretto ad abbassare lo sguardo, quando invece non aveva problemi a sostenere quello di chi gli diceva di aver deciso di andare in Svizzera a uccidersi; è l’unico momento in cui i toni del documentario diventano più accesi. Poi Pratchett risponde: “non essere più in grado di fare lo scrittore, non essere più in grado di comunicare”. È la risposta lecita di una persona che si è identificata completamente con quello che fa. Ma non sarebbe meglio se quella persona scoprisse invece chi è?
La clinica dove le due persone intervistate da Pratchett decidono di porre fine alla loro vita è un posto lontano dalla loro casa, dalle persone che hanno conosciuto nel resto della loro vita. Freddo, anonimo. Le persone che sono lì per assisterli staranno con loro fino alla fine, sconosciuti che li vedranno morire. Sono molto gentili e premurosi, certo, ma hanno volti stranieri e un accento strano.
A volte non ci sentiamo a proprio agio quando siamo invitati a casa di estranei per bere un caffé insieme… Come può essere stringere la mattina la mano della persona che la sera ti porgerà il bicchiere contenente il veleno che ti ucciderà?
Gli inglesi hanno una cultura forte e ligia, che forma persone con una personalità granitica, mai disposti ad ammettere le proprie debolezze. Questo per certi versi è un grandissimo pregio, una cosa che ho sempre apprezzato, ma vedere la moglie del candidato suicida non essere nemmeno in grado di poterlo abbracciare mentre questo le sta rivolgendo le sue ultime parole… Non so, mi ha lasciato una sensazione di “errore”, qualcosa che sento non dovrebbe andare così.
E poi c’è la sconvolgente impressione di un essere umano che passa dalla ragione al delirio, dal delirio al sonno, e dal sonno alla morte. Qualcosa che non ha nessun diritto di essere stampato su pellicola.
Ma non vorrei far passare l’idea che questo sia un articolo contro il suicidio assistito. Non è così, e comunque il mio personale pensiero non è il punto del discorso. Il punto vero è: voi quanto tempo avete dedicato a riflettere su questi argomenti? Cosa fareste se succedesse a voi? Le statistiche di WordPress mi dicono che siete tutti più o meno adulti e vaccinati. Ormai dovreste avere i mezzi per schiarirvi le idee, altrimenti c’è stato qualcosa che è andato storto, nel vostro percorso vitale.
La mia esortazione è di entrare in voi stessi e andare a rispolverare quelle domande che avete lasciato lì da così tanto tempo, o qualcuno persino a porsele per la prima volta. Non smettete mai di farvi domande, di mettere in dubbio voi stessi ma soprattutto le strutture mentali che date per scontate. Soprattutto quelle. Riflettete sulla natura della morte come facevano i filosofi antichi, e sulla vostra personale morte come facevano i samurai giapponesi ogni giorno. Cercate, cercate continuamente, non stancatevi mai finché non arriverete da qualche parte, perché quando quel singolare, incredibile momento arriverà – quello della vostra morte – non importerà più in cosa avete creduto per tutto il resto della vostra vita, non importerà più quanti amici siete riusciti ad avere intorno: sarete soli e nudi davanti alla Verità.
Per quanto essa permei ogni atomo dell’Universo, noi non siamo più in grado di concentrare la nostra attenzione su di lei. Ci riusciamo, brevemente, solo grazie a quello sconvolgente evento, perché per noi che siamo così legati al mondo materiale rappresenta la Fine di Tutto. Eppure, nessuno può garantirci, senza ombra di dubbio, che sia davvero così. Non delegate una decisione del genere agli altri, siano amici, familiari, preti o scienziati: non sono loro che dovranno morire al posto vostro.
Vi lascio al toccante documentario della BBC (sottotitoli in italiano) e a una citazione da uno dei libri di Pratchett.
Non si può costruire un mondo migliore per gli altri. Solo gli altri possono costruire un mondo migliore per sé stessi. Altrimenti è solo una gabbia.
Streghe all’estero, Salani 2009
httpv://www.youtube.com/watch?v=slZnfC-V1SY
Complimenti per l’articolo. Personalmente credo nella vita dei ricordi, dei precetti, dello spirito: allora la morte non mi spaventa più poichè ritorno cenere, pensiero, amore, ciò per cui fortunatamente sono nato. Non tutti hanno questa fortuna e questo destino, per questo penso di morire “bene” solo vivendo con la massima consapevolezza, non dando mai tutto per scontato.
Grazie Alessandro. Anche da altri tuoi articoli traspare che tu abbia le idee abbastanza chiare. Non è poco.
Lavoro nel campo dell’Alzheimer da poco… Penso che le persone colpite da questa malattia muoiano il giorno in cui smettono di parlare,di capire,di riconoscere i propri familiari. Stando accanto a loro,quando parlano senza capire quello che dicono,quando toccano cose invisibili e mi guardano come se non mi avessero mai vista prima,mi sento come partecipe di un incubo.E’ come quando sogni di cadere dalle scale e ti muovi nel letto; come quando, nel sogno, apri una porta e dietro trovi un prato e poi arriva la tigre e poi ti ritrovi in un treno. Mi sembra che loro vivano così: confusi in un mondo che per loro è solo foriero di suoni mescolati e insensati, scenari magici che non hanno nulla di familiare….
Mi terrorizza l’idea di vivere con questa malattia per coloro che mi potrebbero stare accanto, ma mi consola l’idea che non me ne accorgerei nemmeno.