Come il medico cura il singolo organo spesso senza prestare l’attenzione dovuta al paziente nella sua totalità, così i governi attuali stanno tentando di salvare l’economia senza prendere in considerazione il fatto che essa è parte di qualcosa di molto più vasto e profondo. O forse, peggio ancora, stanno fingendo di voler trovare soluzioni. Questo è uno dei pensieri che possono sorgere aprendo oggi il giornale e avendo appena visto il documentario “L’economia della felicità”.

Prodotto e presentato da Helena Nordbert-Hodge, analista economica e autrice de “Il futuro nel passato”, il documentario pone in luce la crisi economica, ambientale e sociale in cui ci troviamo e allo stesso tempo indica una via d’uscita che mi appare ben più efficace dei tagli, dei prestiti e degli accordi che ora vengono decisi da non si sa chi, al chiuso delle stanze del potere.
Il documentario si divide in due parti: la prima mostra i disagi dell’attuale situazione, la seconda le soluzioni.
Il paradigma è rappresentato dalle vicende del Ladakh, paese che per secoli si è retto sui propri prodotti e dove la povertà e la disoccupazione sono stati a lungo inesistenti. A metà degli anni ‘70 l’apertura ai mercati fece sì che le multinazionali si inserissero nel commercio locale. Attraverso la pubblicità furono instillate nuove necessità, trasformando così il paese in una nuova fonte di profitti. I costi di tutto questo sono stati enormi: rottura dei legami sociali, disoccupazione, povertà acquisita, conflitti interreligiosi, senso di arretratezza e invidia nei confronti del modello occidentale.
Tutto ciò non è accaduto solo in Ladakh, ma anche in altri paesi detti “in via di sviluppo”. Ed è quello che è accaduto anche a noi.
Tale processo economico viene detto “globalizzazione”, ovvero “la deregolamentazione del commercio e della finanza che consente agli affari e alle banche di operare globalmente” e “l’emergere di un solo mercato mondiale dominato da compagnie transnazionali”.
Gli effetti di questo processo vanno oltre il semplice fatto monetario. In primo luogo abbiamo l’inquinamento. Le merci infatti vengono fatte viaggiare di paese in paese in modo davvero folle, portando al paradosso secondo cui in Ladakh il burro importato costa la metà del burro locale. Abbiamo poi la diminuzione della biodiversità nelle colture, l’indigenza, il disagio sociale, l’insoddisfazione.
La soluzione proposta dal documentario è il passaggio dalla grande alla piccola scala, ovvero la localizzazione.
Localizzare significa consumare ciò che viene prodotto vicino casa, seguire il processo di produzione dall’inizio alla fine, e questo con un impatto ambientale drasticamente ridotto (meno spostamento di merci), una ricchezza che viene reinvestita nella comunità stessa, maggiori contatti sociali e infine maggiore serenità. Questo non significa isolazionismo o mancanza di collaborazione internazionale. Significa semplicemente quello che l’uomo ha fatto per millenni. Senza bisogno di tornare ai tempi della pietra, certo. Grazie alle più avanzate tecnologie possiamo unire la sostenibilità all’utilizzo di energie rinnovabili e decentralizzate.
Insomma, se dobbiamo essere infelici per produrre il tipo di società che abbiamo, e che crediamo essere la sola possibile, forse dovremmo riconsiderare qualche assunto. Che cos’è il PIL, in fondo? È davvero ciò di cui dovremmo preoccuparci? O forse è solo un acronimo utile a chi ha bisogno di continuare a giocare con enormi quantità di denaro, una divinità composta da tre lettere al quale stiamo sacrificando troppe cose?

Quello che ho apprezzato del documentario non è solamente il messaggio, ma anche il fatto che tra le maggiori promotrici di questa economia della felicità vi siano delle donne. Tra di esse abbiamo non solo Helena Nordberg-Hodge , ma anche la scrittrice Vandana Shiva e la dottoressa Mohau Pheko. Qualcosa mi dice che le donne stiano avendo e avranno un ruolo di primo piano nei cambiamenti che, volenti o nolenti, ci troveremo ad affrontare. Vedo infatti in questo ritorno a uno stile di vita meno competitivo una mano femminile. Come dice Vandana Shiva, è “la conoscenza delle nonne”.
Credo che questo documentario presenti una soluzione logica e naturale ai problemi che ci troviamo ad affrontare, e soprattutto credo sia un invito a non aspettare sempre che un “grande della terra” arrivi a sistemare le cose. Le multinazionali sono grandi, ma hanno la goffaggine dell’elefante. I singoli sono piccoli come formiche, ma come le formiche arrivano dappertutto.
Per maggiori informazioni:
http://www.theeconomicsofhappiness.org/
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