L’ultimo rapporto Almalaurea sulla condizione occupazionale dei laureati è stato presentato a marzo. Sebbene l’anno accademico sia ormai agli sgoccioli, è bene tenere a mente qualche risultato dell’indagine, riguardante principalmente il profilo dei laureati del 2010 e la loro occupazione nel 2011.
Con la crisi, i laureati occupati nelle professioni più qualificate sono diminuiti, contrariamente non solo a quanto avvenuto negli altri paesi occidentali ma soprattutto alla logica. In parole povere: meno posti di lavoro sono disponibili e – paradossalmente – meno contano il titolo di studio e il merito. Di fronte a certi dati il buon senso e la razionalità cedono il passo. Pura miopia da parte di chi dovrebbe assumere o precisa scelta imprenditoriale dettata da una contrazione della spesa a scapito della qualità e dell’efficienza della produzione? Verrebbe da rispondere “entrambe” ma, riflettendo, la seconda è una diretta espressione della prima.
Una seconda conclusione rilevante del rapporto riguarda il numero di laureati, nettamente inferiore rispetto agli altri paesi OCSE (20 laureati su 100 di età compresa tra 25 e 34, contro una media di 37). Questo dato delude ma non stupisce: d’altronde, se la laurea non conta più, perché fare sacrifici per anni, sempre a patto di poterseli permettere?
Cosa fa il nostro paese per valorizzare la laurea e l’istruzione? Sceglie di non finanziare università, cultura, ricerca e sviluppo. Siamo agli ultimi posti nelle graduatorie europee per percentuale di PIL investita in questi settori. Si parla di paese, non di Stato, perché solamente poco più della metà di questi finanziamenti proviene dalle imprese. Questo è un ulteriore indice della miopia con cui il settore privato guarda al futuro e alla sua stessa sopravvivenza.
Aumenta la percentuale di laureati disoccupati a un anno dal conseguimento del titolo, fra gli specialistici ancora più che fra i triennali. Al contempo diminuisce la retribuzione media dei laureati, pari a 1105 euro per i triennali e 1080 euro per gli specialistici. Ennesimo paradosso: chi ha studiato di più ha meno possibilità di trovare un lavoro e per di più guadagna di meno!
La meritocrazia? Un miraggio. Quello che dovrebbe essere il faro di ogni paese, soprattutto di quelli che si autodefiniscono avanzati, si è ridotto a un lumicino di tanto in tanto esibito per attirare le farfalle. Come si fa a parlare di meritocrazia quando, ultimo in ordine di tempo fra i troppi esempi adducibili, si è riusciti a scongiurare un taglio di 200 milioni di euro di finanziamenti all’università, ma non un altro, di 210, a numerosi enti di ricerca? E questi ultimi dovrebbero anche ringraziare, visto che inizialmente si era serenamente pensato di sopprimerli.
Il quadro si completa e si comprende meglio pensando all’età media della classe dirigente italiana, la quale non comprende solo politici (espressione di una società più che “causa dei mali”) ma professori universitari, manager, imprenditori, magistrati e via discorrendo. Famosa è la scena dell’esame universitario ne “La meglio gioventù”: le parole del professore non sono un invito né un auspicio, ovviamente, ma si delineano ogni giorno più chiaramente nella sfera di cristallo dell’Italia.