Ambiente e ricchezza – Intervista ad Antonio Galdo

Dopo il boom economico degli anni settanta, il consumo ha impennato veementemente rendendo noi consumatori ossessionati, giorno dopo giorno, dall’idea di avere a portata di mano una tessera di plastica rigida che ci può riempire la casa di oggetti, balocchi, cibo… tutto superfluo. Questa vita capitalistica, comoda e monotona ha però celato gli effetti gravosi che ha lo spreco maniacale sulla nostra vita, il quale negli ultimi decenni ha aizzato il fuoco della crisi economica e ambientale.  Sono ancora in pochi a rendere chiara questa gravità. È doveroso, quindi, passare la parola a chi sa cosa comporta avere i frigoriferi stipati di cibo, i bidoni della spazzatura pullulanti di avanzi e la casa piena di oggetti nuovi ma già obsoleti. Antonio Galdo, giornalista e scrittore italiano e progettista del sito www.nonsprecare.it, ha dato risposte abbastanza chiare da capire cosa si può e si deve fare:

Gandhi diceva “nel mondo c’è quanto basta per le necessità dell’uomo, ma non per la sua avidità”. Per troppo tempo abbiamo lasciato che le miniere si svuotassero e le discariche si riempissero, per troppi anni abbiamo deciso che trasgredire i limiti e le regole fosse una moda, per tutta la storia dell’umanità abbiamo dimenticato il vero significato dell’ambiente e l’importanza delle nostre azioni sul mondo. Non pensa che attualmente la nostra società sia animata esclusivamente da desideri materiali, bisogni superflui e capricci infantili che stipano i bidoni della spazzatura?
La Grande Crisi ha fatto suonare la sveglia, per tutti. Non basta consumare sempre di più per essere felici, il PIL non è l’unico parametro per misurare il benessere di un popolo, la ricchezza non si crea distruggendo la natura. Partiamo da qui, per un cambio d’epoca, nella consapevolezza che insieme, e non da soli, usciremo prima e più forti dal tunnel della Grande Crisi.Continua a leggere…

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Disinformazione ecologica ai tempi dell'antropocene – Intervista a Luca Mercalli

Esiste una straordinaria frase di Elias Canetti – scrittore bulgaro – che ben riassume ciò che vorrei affermare: “l’uomo ha raccolto tutta la saggezza dei suoi predecessori, e guardate quanto è stupido”. Da questo aforisma non trapela pessimismo, come qualcuno potrebbe pensare, bensì il volto ignoto del realismo. Immaginarsi un mondo migliore, anzi: un pianeta sul quale non esistono sbuffi nauseanti e inquinanti, microscopiche particelle killer, immani sperperamenti di risorse che causano fame e, al contempo,  spreco. Immaginarsi questo implicherebbe che noi tutti ci fermassimo un istante a riflettere sull’importanza degli errori e del loro peso su oggi e domani, ci dovrebbe indurre a gettarci nell’umiltà, accettare di aver errato per generazioni e da qui ripartire in prima, non in quinta.

Abbiamo errato, è vero, poiché per decenni abbiamo deciso che il destino della Terra fosse uno soltanto: produrre. Fabbricare, consumare quanto più si può e sprecare sono i verbi di ieri e di oggi, di quegli anni in cui il trasgredire le regole era divenuto una consuetudine, quasi un atto obbligatorio, e in cui l’ambiente per molti di noi e per le istituzioni era tramutato in una sorta di nullità, in un optional, in un problema irrisolvibile per cui era, ed è ancora, una questione da abbandonare a sé stessa. È naturale, quindi, che oggi i nodi vengano al pettine: esaurimento di risorse naturali, inquinamento atmosferico, agricolo e marino, spreco incontenibile, e così via. La verità è che il pianeta è una cava di risorse e beni preziosi limitati. Ma osservando le condotte di molte persone comuni, delle istituzioni e dei mezzi di informazione, posso intuire che c’è un’altra verità, la quale ci spiega che viviamo nella totale convinzione che il mondo possa darci tutto per sempre e senza dover fare alcun conto con la natura alla fine della spesa. È come riempire una stanza di rifiuti ogni giorno senza mai liberarla, accumulare spazzatura su spazzatura: alla fine ci ritroveremmo in una montagna di rifiuti, un luogo non più vivibile poiché la nostra negligenza e dissennatezza hanno lasciato che il ciclo della nostra vita consumistica si limitasse all’acquisto, al consumo e allo spreco. Proprio per la natura del nostro mondo – che è limitato e finito – esso non può traboccare di rifiuti esclusivamente generati dal nostro incosciente amore per lo sperperamento. È inevitabile produrre spazzatura, ma è eludibile il continuo gettare via cibo commestibile e l’enorme spreco di energia e risorse, causato da egocentrismo e indifferenza o da una gestione arretrata e poco efficiente. Esistono le energie rinnovabili, quali sole e vento, esistono tecnologie avanzate in grado di riciclare i rifiuti, esistono l’autosufficienza e metodologie efficienti nel gestire le energie e le risorse naturali; potrebbe anche esistere una grande sensibilità collettiva in merito all’ambiente ma ancora non c’è. Forse perché siamo troppo eccitati dall’idea di possedere un SUV luccicante o un cellulare di ultima generazione; forse perché siamo plagiati dalla convinzione che siano i jeans che indossiamo a fare di noi persone interessanti, che seguire il divertimento di massa e la massa stessa siano l’unica cosa importante della nostra esistenza. Forse la verità è che la colpa in fin dei conti non è della TV, dei media, di quei finti personaggi di cartapesta che ci dicono cos’è giusto e cos’è sbagliato, dell’informazione annacquata, ma è della nostra totale incapacità di essere umili per ammettere gli errori e da essi ripartire daccapo. Per avere una reale conferma, ho pensato di chiedere alcuni pareri a Luca Mercalli – noto climatologo, che dal 2003 ha una rubrica nel programma di Fabio Fazio, Che tempo che fa.

Perché secondo lei si tende a tralasciare i rischi climatici preferendo sminuire le affermazioni degli scienziati?

Direi che la gente tende a trascurare ogni notizia che segnala dei problemi sul nostro futuro, siano essi cambiamenti climatici ma siano anche problemi legati all’inquinamento che nuoce alla nostra salute, o alla crisi finanziaria che stiamo vivendo come effetto superficiale di altre crisi più profonde legate all’esaurimento o al maggior costo di risorse forestali e alimentari, energia, minerali preziosi, il tutto in un mondo sovrappopolato da sette miliardi di individui che non può sopportare la crescita infinita invocata dagli economisti. Siamo un po’ come il fumatore che legge sul pacchetto di sigarette “il fumo uccide” ma poi continua a fumare, quindi mi sembra che sia una questione profonda sul piano cognitivo e psicologico. Mi pare che ormai gli scienziati siano arrivati un po’ al loro limite nell’informare le persone, adesso abbiamo bisogno di un altro tipo di professionalità che entrino in campo e che per ora non vedo; sono gli esperti delle scienze umane, sono i sociologi, gli psicologi sociali, gli antropologi, cioè quella parte di saperi che oggi deve spiegarci perché l’uomo di fronte ad avvertimenti credibili dei rischi concreti che ha davanti, gira la testa dall’altra parte invece che occuparsene costruttivamente.

Quindi lei è dell’idea che la TV al giorno d’oggi non faccia il suo compito, come dovrebbe fare.

Sicuramente l’informazione non fa bene il suo compito perché un’informazione seria oggi avrebbe il dovere di attirare sempre di più l’attenzione su questi temi; non in modo sensazionalistico, perché sappiamo che le notizie strillate sull’emergenza non servono a niente in quanto attirano l’attenzione per pochi giorni e poi finisce tutto. Invece noi abbiamo bisogno di una continua sollecitazione severa ma costruttiva su questi argomenti che porti tutta la società a riflettere sulle soluzioni. Direi che il problema maggiore dell’informazione è che considera questi argomenti come una delle tante notizie, come un optional; mettiamo nei giornali la crisi ambientale o energetica alla stessa stregua delle pagine sportive dando l’impressione ai lettori che ci si possa occupare d’ambiente oppure si possa anche non occuparsene, senza ricordare che noi dipendiamo esclusivamente da flussi di materia ed energia e da inflessibili leggi fisico-chimiche che regolano la nostra vita e con le quali non possiamo negoziare. È come essere su un aereo e avere finito il carburante: l’atterraggio di emergenza diviene l’unico problema supremo di cui occuparsi, tutto il resto non ha più importanza. Invece nella realtà è come se noi avessimo una notizia che dice “tra poco precipitiamo, ma possiamo anche girare pagina e trovare un articolo di calcio o l’ultimo film da andare a vedere, quindi fate voi, scegliete la pagina che vi piace di più” e intanto l’aereo precipita. Questo mi sembra il difetto dell’informazione di oggi: non è che nasconda i dati o le criticità ma non dà loro quell’importanza assoluta che dovrebbero avere il fine di attivare una vera e propria sfida collettiva per la sopravvivenza dell’umanità. È ovvio che poi la tendenza naturale delle persone è quella di rimuovere i problemi e preferire la partita di calcio, ma proprio nella creazione di un senso di urgenza verso un cambiamento di paradigma economico e ambientale sta la missione dei media. L’informazione influenza miliardi di persone, quindi vuol dire che quelle tendenze nell’evitare di confrontarsi con i veri problemi strategici sono poi riprodotte nella società; dal bar alla redazione di un giornale c’è questo atteggiamento di indifferenza, manca purtroppo questa fondamentale insistenza nel fornire nuove chiavi interpretative di un presente del tutto inedito per la storia della nostra specie, non a caso chiamato “Antropocene”, primo periodo geologico nel quale le forze umane rivaleggiano con quelle naturali. Non possiamo rimandare oltre questa presa di coscienza e le azioni per ridurre la nostra pressione sul pianeta, una volta attivati, certi processi naturali divengono irreversibili, almeno alla scala dei tempi umani, e ne avremo conseguenze irrimediabili.

Secondo lei la politica italiana si comporta in modo efficiente e soddisfacente o tende, come una buona parte della società, a dare poco conto e valore all’ambiente?

Ovviamente la seconda risposta. Noto soprattutto che per la politica e per la società italiana l’ambiente è qualcosa di assolutamente secondario e un aspetto che, da un punto di vista culturale, non esiste. È più un’icona da tempo libero, il parco dove rifugiarsi la domenica, ma non viene percepito come il mezzo biogeochimico fondamentale che ci permette di vivere tutti i giorni. È un argomento rimosso soprattutto adesso, nella crisi economica, che viene messa al primo posto di tutte le riflessioni, quando invece si dovrebbe comprendere che ha le sue radici anche nella crisi ambientale. La crisi economica è diventata una scusa per respingere anche quel poco di provvedimenti o di riflessioni che avevano a che fare con l’ambiente. Oggi con la scusa di tagliare, tagliamo tutto; ovviamente per prime anche le politiche che avevano risultati positivi sull’ambiente, dalle energie rinnovabili alla riqualificazione energetica degli edifici, alle aree di conservazione della biodiversità.

Se uno Stato come il nostro continua a penalizzare le ricerche, gli studi scientifici, le università, come può prepararsi a qualcosa di probabile come l’esaurimento del petrolio?

La ricerca in questi settori è fondamentale per comprendere i meccanismi rapidi di variazione dell’ambiente, che poi possono avere delle conseguenze negative anche sulla nostra salute oppure sul nostro benessere, quindi giustamente energie rinnovabili e così via. Noi penalizziamo la ricerca e assecondiamo di nuovo un altro difetto, tipicamente italiano, cioè che le persone non vengono stimolate a imparare di più ma a essere fiere di sapere di meno. Lo chiamerei “effetto telenovela”, la propagazione di un modello di vita assolutamente irreale e dissipativo che distoglie da una vera programmazione del futuro.

Nel suo libro “Prepariamoci” dice che “le scienze umane – filosofia, psicologia sociale, antropologia, sociologia, storia – dovrebbero diffondere comportamenti saggi, concepire soluzioni politiche ed economiche, comunicare urgenze e speranze”. Perché questi saperi non partecipano a questo dibattito?

Secondo me sono sostanzialmente scienze umane che a differenza delle scienze dure, quelle matematiche, fisiche e naturali, non hanno mai avuto una vera importanza applicativa ma hanno dominato la scena culturale concentrandosi su ideologie e aspetti soggettivi dell’umanità; oggi, mettendosi al servizio di questa sfida epocale, potrebbero fornire nuovi elementi etici e cognitivi per gestire correttamente il rapporto uomo-ambiente fattosi così rischioso e delicato. Sono scienze che oggi cominciano a comprendere come funzionano i meccanismi cognitivi delle persone e le loro attese, e possono dunque completare il lavoro che i ricercatori del clima, dell’energia, del cibo, dell’inquinamento hanno compiuto senza riuscire a sensibilizzare i comportamenti verso approcci non predatori delle nostre risorse. E se io dico che il clima cambia e la gente dice che sono un catastrofista, a questo punto io vorrei passare la palla a uno psicologo sociale e dirgli “spiegami perché uno si prende l’etichetta di catastrofista quando fa vedere dati razionali e scenari rigorosi sul nostro futuro”; è come dire a un medico che è un catastrofista perché ha diagnosticato un cancro. Sembra che le scienze ambientali stiano facendo la stessa cosa: esse sono il medico del pianeta che dice “ci sono molte cose che non vanno”, e nel frattempo dall’altra parte c’è chi risponde dicendo “sei un catastrofista”, invece di pensare alla cura! Vorrei semplicemente che queste scienze umane dialogassero con la ricerca scientifica, assumessero dei dati e si occupassero di spiegare perché le persone, messe davanti a un avvertimento negativo, girano la testa dall’altra parte: questo me lo deve spiegare uno psicologo, non un climatologo. Io non giro la testa dall’altra parte perché ho lavorato su me stesso, riducendo la mia impronta ecologica e i miei consumi energetici, mentre il 90% delle persone non lo fa e mi dice “sei un catastrofista”. Allora faccio appello all’antropologo o allo psicologo perché questo è soltanto un problema di costume culturale dell’umanità, dal quale tuttavia dipenderà la nostra esistenza.

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Comodamente omertosi

Se ne sente parlare di rado. Anche a scuola stanno zitti, nessuno osa raccontare quel che hanno fatto Pasquale Zagaria – detto “Bin Laden” – e suo fratello Michele – capoclan dei Casalesi – quando la loro libertà era ancora viva; non vogliono nemmeno ricordare l’omicidio di Aldo MoroPaolo Borsellino e Ilaria Alpi. Nessuno si attenta a parlare di queste crude realtà perché – ne sono certa – quasi tutti trovano comodo vivere nel silenzio dell’omertà. Poi capita di sentire che il vicino è stato minacciato, che il cantiere edile dietro a casa è stato incendiato da un racket che era in conflitto con il clan proprietario della costruzione, che i propri rifiuti hanno una destinazione così misteriosa da indurci a chiedere dove diavolo finiscono. E quando sporadicamente senti questi eventi sconcertanti, ti accorgi che tacere e lasciare scorrere questo luridume sono le opposizioni più sbagliate che i cittadini immacolati possono fare contro l’abominevole problema nazionale: la mafia. Non ti senti colpevole sapendo che l’omertà è la tua reazione primaria davanti a questo remoto dilemma che ha colpito il nostro Stato?

Il cemento avanza, devasta parchi, foreste, campi agricoli. In Italia il terzo millennio funziona così: le mafie vivono di ininterrotte lotte all’ultimo pezzo di terreno per scopi lucrativi e chi più imbratta il suolo di calcestruzzo e mattoni diventa il più potente: attributo che nelle organizzazioni criminali significa molto. Infatti, dai primi anni duemila fino a ora, al nord si è registrato un esponenziale aumento di espansione edilizia: è il decennio in cui il verde vira gradualmente al grigio, in cui gli interessi mafiosi roteano attorno all’appropriazione di terreno edificabile per riciclare il danaro sporco e per scopi speculativi.

Case, capannoni, palazzi: tutti vuoti. Sull’altra sponda parchi, campi agricoli e zone verdi diminuiscono a vista d’occhio, sottolineando il rischio di una totale estinzione di aree naturali e agrarie. È evidente a chiunque che si sta fagocitando terreno a dismisura e si sa che tutto questo aggraverà le condizioni ambientali già sfavorevoli a causa dell’inquinamento atmosferico. Ma le giunte comunali, diversi sindaci e i politici in sé non sembrano nutrire molto interesse per questa questione ambientale che, spesso e volentieri, viene resa una tematica poco rilevante. Il nodo cruciale si trova soprattutto in quest’avida classe dirigente infettata dalle organizzazioni criminali che l’hanno silenziosamente rovinata attraverso la corruzione. Non c’è da meravigliarsi, quindi, se abbiamo una politica sleale, manipolata da un potente volere criminale, e un sistema ingiusto che il nostro Stato sembra accettare amichevolmente.

La mafia sotterra i rifiuti nei campi agricoli, dai quali poi germogliano cereali e vegetali che finiscono sulle nostre tavole; li esporta e li vende all’estero, in Africa, nell’Europa orientale e in Cina, li usa come cemento per costruire case e come asfalto per stendere nuove strade, li nasconde nei mari. La gestione dei rifiuti invece di essere nelle mani di persone competenti, si trova nelle grinfie di questi criminali che fanno illecitamente tutto quello che vogliono. E noi, donne e uomini immacolati, continuiamo a vivere nel silenzio delittuoso della comoda omertà, lasciando che la gestione dei rifiuti, come tante altre iniziative, rimanga sotto lo stretto controllo delle organizzazioni criminali.

Forza, ammettiamo di essere persone schifosamente omertose! Ammettetelo voi che vendete i vostri scarti industriali alle criminalità organizzate solo perché vi offrono il servizio a un prezzo bassissimo: preferite spendere dieci centesimi (per chilo) per smaltire i vostri rifiuti illegalmente, piuttosto che spenderne sessanta per sbrogliarveli da dosso in modo del tutto legale. Ci sono parecchi politici che desiderano falsamente un’Italia migliore dove non esiste alcuna briciola di illegalità, quando in realtà sono gli ultimi a volersi rimboccare le maniche, a compiere azioni legalmente accettabili, a evitare collaborazioni mafiose. Vogliono una politica sobria, efficiente, sincera, ma non sanno che per fare questo dovrebbero destituirsi, perché sono loro stessi parte integrante della mafia. Dobbiamo cercare di smetterla di cedere alle varie tentazioni che vengono proposte e provare a reagire in modo civile alla lugubre questione sociale protagonista nel nostro Stato. Essere omertosi, comportarsi come tali, è solo una scusaun atto negligente col quale abbiamo deciso di lasciare sporco il sistema italiano che riguarda tutti quanti, perché la paura non è niente se ci si unisce e si lotta tutti assieme!

Sindaci, politici, imprenditori, professori, gente comune, uscite da questo comportamento stereotipato! Il silenzio è lo scudo del vigliacco e dell’impotente, non del risoluto e del prode. Davanti a tale problema molti di noi sono vigliacchi e impotenti, sono comodamente omertosi, ma è arrivata l’ora di uscire da questo conformismo, da quest’assurda complicità silenziosa che troviamo confortevole, dalla paura. Professori, parlate di tutto questo ai ragazzi! Sindaci, ammettete il vero! Imprenditori, siate forti e non cedete alle tentazioni criminali!
Il sistema è sporco e ingiusto; io non lo voglio, né per me né per i miei figli. E come me, moltissimi altri non lo tollerano. Il futuro è certo e a noi non resta altro che combattere fino all’ultimo per dare al Paese un’immagine migliore e restituirgli un po’ di dignità. Questa non è l’Italia di Zagaria, Provenzano e Riina, è l’Italia di Falcone e Borsellino. Quindi, facciamoci coraggio e usiamo la purezza e la giustizia che ci sono rimaste in tavola per vincere questa temibile battaglia!

Dov'è finito il nostro diritto alla vita?

Guardi il fiume che scorre, la montagna innevata, i campi che biondeggiano al vento, il cielo dalle fronde d’un albero profumato, i frutti che lentamente maturano nell’orto. Guardi tutto questo, te lo godi intensamente perché sai già che un senso di tristezza e colpevolezza ti indurranno a destarti, a sospirare e a dire che un giorno probabilmente tutta questa bellezza sparirà. Poi impulsivamente guardi la discarica che esala sbuffi nauseanti, l’inceneritore che emette particelle invisibili ma mortali, cantieri e ancora cantieri che rubano ciò che appartiene alla terra. Guardi tutto questo e, mentre il tuo battito cardiaco aumenta gradualmente e l’ira comincia a far bollire il tuo sangue, vorresti correre verso la discarica e l’inceneritore per protestare fino allo sfinimento, o andare a occupare i cantieri che mangiano insaziabilmente nuovo terreno. Ma sai che non puoi fare niente se non lasciarti invadere da un altro senso di tristezza e colpevolezza, che ti inducono a sospirare e a chiederti “dove diavolo è finito il mio diritto alla vita e alla salute?”.

L’articolo 32 della costituzione italiana dice che “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività […]”, ma dov’è l’effettiva attenzione alla salute e all’ambiente da parte dei governanti? Come possiamo pretendere di vivere una vita salubre e sicura se, come capita in molte città italiane, il sindaco vuole ostinatamente aprire le porte dell’inceneritore a pochi passi dal centro abitato, dal campo agricolo, o se si antepongono i fatti finanziari a quelli ambientali, salutari? Capita troppo spesso che i caparbi capi supremi rendano l’interesse per la reale vita dei cittadini e per le faccende ambientale delle questioni di poco conto e noiose. Ma questo è tollerabile? Possiamo lasciare che questo terribile disinteresse ed egoismo in campo politico e ambientale continuino a scorrere ininterrottamente? No, perché quel che dovremmo fare è tamponare quest’emorragia, arrecata da un profondo taglio che per anni è stato fintamente dimenticato, e smetterla di convivere con l’illusione che è sufficiente la pubblicazione di una stupida legge salvaguardante l’ambiente a salvarci dal triste futuro che ci attende. Se volessimo veramente evitare il futuro sfacelo che si prospetta davanti ai nostri piedi, ci converrebbe cominciare a uscire dagli schemi civili che ci sono stati implicitamente trasmessi, ed entrare in una logica ben diversa da quella attuale che, a quanto pare, non sembra andare d’accordo con quella del mondo biologico: trasgredire i limiti, le regole, superare la linea di demarcazione, sprecare in modo smisurato ogni giorno, schivare ogni sorta di rispetto per la nostra terra sono i verbi propri di questo dannato ventunesimo secolo, azioni e gesta che descrivono in modo accuratamente atroce la sporca logica della società civile attuale.

Spesso mi chiedo dove sia la necessità di comprare a tutti i costi qualcosa ogni giorno, di gettare in modo indifferenziato i rifiuti, di sperperare le proprie ricchezze in baggianate quando si potrebbero investire in cose utili, o di aprire per forza il termocancrovalorizzatore a pochi passi da un parco, da una scuola, da un campo dove pascolano le mucche, il cui latte, nonostante sia ricco più di diossina che calcio e lattosio, finisce comunque sulla nostra tavola. Ogni giorno quando passeggio, quando vado alla fermata del bus o quando osservo dalla finestra della mia camera l’orizzonte dal colore plumbeo, ho la sensazione che questo sistema, adottato da anni, non può continuare a funzionare, e vengo devastata da un triste sentimentalismo che, con gli occhi lucidi, mi spinge a urlare che la gente, soprattutto i bambini, non possono vedere la loro vita sbiadita da tumori causati dall’inquinamento antropologico.
In modo adolescenziale, mi chiedo vanamente se è veramente indispensabile bruciare i rifiuti per produrre un’irrilevante quantità di energia e al contempo esalare diossine, furani, cellule cancerogene che non fanno altro che portarci via la vita in modo lento ma progressivo; mi domando come mai al comando esistono quasi esclusivamente persone egoiste e avide che, nonostante le varie proteste, riescono a ottenere ciò che vogliono, cioè ciò che il popolo non vuole. Non pretendo dei santi al governo, basterebbe qualcuno con un po’ di sale in zucca.

Ci sono molti comuni come Pistoia – dove la dr.ssa Gentilini ha denunciato che la diossina oltre a trovarsi negli alimenti si trova pure nell’acqua -, Albano – dove il 28 aprile si è tenuta un’importante assemblea pubblica riguardante l’apertura del termocancrovalorizzatore -, Parma e Reggio Emilia – che mi riguardano più da vicino – e tantissimi altri, che sono in continua lotta contro quei tiranni che desiderano tenacemente bruciare la mondezza, quindi uccidere noi tutti. Stimo tutti coloro che protestano, che informano e mantengono viva la democrazia individuale obiettando in modo pacifico e civile; stimo quei pochi politici sani che, silenziosamente, lottano contro ciò che non vogliono per il loro comune, per il loro territorio, e per dimostrare che la politica italiana non è sempre fatta solo di corruzione ed egoismo.

Mi rivolgo a Graziano Del Rio, sindaco della mia città – Reggio Emilia – che sostiene da anni che l’inceneritore non comporti rischi salutari, poiché il nostro termocancrovalorizzatore di Cavazzoli, essendo moderno, è sempre stato sicuro. Caro Del Rio, ha studiato chimica? Lo sa che, come diceva Lavoisier, “nulla si crea e nulla si distrugge”? Come mai lei non è sicuro che incenerendo i rifiuti si disperdono nell’aria sostanze cancerogene, quindi molto pericolose? Scommetto che se lei vivesse a pochi passi dall’inceneritore, forse cambierebbe idea.
Il termocancrovalorizzatore reggiano chiuderà i battenti a breve – si spera – anche se devo ammettere che non mi accontento, perché il suo sostituto bastardo è in arrivo a Parma, una delle città più inquinate d’Italia. Difatti, l’inquinamento industriale e automobilistico sembrano essere faccende poco importanti per i governanti parmensi; non è una mia invenzione, ma un dato di fatto, visto che il signor Bernazzoli, candidato sindaco di Parma, vuole a tutti i costi bruciare la spazzatura. Quell’uomo è troppo cocciuto,  perché sa che la sua città potrebbe essere un angolo di paradiso, invece continua a essere una schifosissima palude, il cui puzzo di smog fa rivoltare lo stomaco a tutti. Sono certa che, se tutto continua ad andare così, i parmigiani saranno costretti ad andare a vivere nelle botole: probabilmente moltissime altre città italiane, soprattutto nordiche, arriveranno a seguire il loro esempio. Bernazzoli è così testardo che lascerà che la sua città si nasconda dalla coltre puzzolente e piena di diossina andando a vivere sottoterra: solo allora sia lui che Del Rio, vedendo l’aumento dei casi di tumore, si renderanno conto che avrebbero dovuto studiare meglio Lavoisier.

In nome di chi muore a causa dell’inquinamento, di chi protesta, di chi disperatamente vede il mondo andare a rotoli, io chiedo: dov’è finito il nostro diritto alla vita e alla salute?

Campagna di obbedienza civile per il referendum sull'acqua

È passato quasi un anno da quando, il 12 e 13 giugno del 2011, ben 26.130.656 cittadini italiani hanno barrato “sì” sul secondo quesito referendario che faceva riferimento alla “determinazione della tariffa del servizio idrico integrato”.

Il 20 luglio 2011 la pubblicazione del Decreto del Presidente della Repubblica n°116 sanciva ufficialmente l’abrogazione della norma che consentiva ai gestori di caricare sulle nostre bollette anche la componente della “remunerazione del capitale investito”: una cifra pari a circa il 7% della sommatoria degli investimenti effettuati nel periodo di affidamento al netto degli ammortamenti. Una voce che incide fra il dieci e il venticinque percento del valore complessivo delle bollette e che nessun gestore si è ancora degnato di cancellare, con tanti cari saluti a quel 95,8% di votanti che ha espresso parere favorevole riguardo alla soppressione di tale contributo.

È per questo motivo che dal gennaio 2012 il Forum dei Movimenti per l’Acqua ha lanciato la “Campagna di Obbedienza Civile”, invitando i cittadini a pagare le bollette relative ai periodi successivi al 21 luglio 2011 applicando una riduzione pari alla componente di costo della “remunerazione del capitale investito”. Una campagna in cui non si “disobbedisce” a una legge ingiusta, ma semplicemente si applica una legge esistente con l’obiettivo di ottenerne l’applicazione da parte dei gestori del servizio idrico.

Un’azione collettiva sostenuta dagli svariati comitati per l’acqua disseminati sul territorio nazionale, che si occupano di guidare i cittadini in questa mobilitazione per l’affermazione di un diritto sancito legalmente. Un’attività che prevede un preciso iter burocratico, come l’invio della diffida all’AATO (Autorità Ambito Territoriale Ottimale) e di un reclamo all’ente gestore, con procedure che dovrebbero garantire ai cittadini di non incappare in azioni giudiziarie o sanzioni di alcun genere.

Una campagna a cui tutti possiamo prendere parte, consultando il sito www.acquabenecomune.org e scoprendo il proprio sportello informativo di riferimento in base al comune di residenza. Perché il referendum è uno dei pochi strumenti di democrazia diretta che ci è rimasto e perché, come afferma lo slogan dei Movimenti per l’acqua: il nostro voto va rispettato!

 

 

La società dello spreco

Quale sarà la fine di questa società consumistica? È per caso questa eterna e pressante crisi economica a simboleggiare il suo imminente termine? Si stima che attualmente nel mondo occidentale lo spreco alimentare si aggiri su più di un miliardo di tonnellate all’anno, così come racconta De Shutter. Gli occhi però non devono cascare esclusivamente sull’America – regina del consumo – ma anche sull’Europa: ad esempio sull’Italia, dove si getta via un terzo del cibo prodotto. Un terzo che equivale a trentasette miliardi di euro, ossia il 3% del PIL. Generalizzando, in Europa e in Nord America ogni persona getta via dai novantacinque ai centoquindici chili di cibo all’anno: non si tratta però solamente di rifiuti e cibo immangiabile, ma di alimenti ancora imballati e commestibili. Anche in Gran Bretagna gli sprechi alimentari toccano le stelle; difatti i “figli della regina”, tra alimenti e bevande, producono più di otto milioni di tonnellate di rifiuti all’anno: spreco altamente evitabile, dal momento che gli alimenti gettati via sono più che commestibili!

Non vi disgusta sapere che su questo pianeta, ormai mutato in un enorme bidone della spazzatura, vengano sprecate milioni e milioni di tonnellate di cibo? E non vi fa rabbrividire la consapevolezza che tra quelle mostruose cifre ci sono anche i vostri scarti e i vostri capricci? Come emerge da un articolo de “il fatto quotidiano”, con i trentasette miliardi di euro derivanti dagli sprechi alimentari italiani si potrebbe sfamare un’intera nazione di milioni di persone. Invece finiscono nella spazzatura.

Mentre un’enorme fetta del globo vive su montagne di scarti e cibi commestibili ancora imballati, l’altra invoca qualche spirito divino affinché dal cielo caschi qualcosa da mangiare. Dal 2009 la FAO riporta che oltre un miliardo di persone soffre la fame. L’Africa è l’epicentro, poi l’epidemia si spinge a est toccando l’India e alcune zone dell’estremo oriente. Conoscendo questa triste e squallida verità, dovremmo imparare a rispondere contrariamente alla pubblicità, che ci persuade a comprare sempre più di quanto necessitiamo; dovremmo entrare nella logica che non è una vita prevalentemente consumistica a renderci persone più importanti. Davanti ai cartelli “offerta del giorno: compra tre, paghi due” dovremmo pensare a chi è costretto a comprare zero, e a pagare per la vita.

In gioco non ci sono solo questioni ambientali, ma anche la schifosa idea che la TV e le multinazionali ci hanno ficcato in testa: una sciocca moda che prevede il continuo acquisto di quello che ci viene fatto vedere, di cose che vanno al di là delle nostre necessità. Non siamo affatto costretti a vivere per il resto della nostra vita sotto le loro ipnosi, perché si sa che i capricci umani si possono controllare. Quindi, perché non limitarsi a comprare l’essenziale, a vivere con ciò che conta di più, a eliminare perciò ogni cosa che diluisce la nostra vita, a guardare il mondo con una vista più panoramica?

Com’è possibile vivere la vita in modo tranquillo quando si sa che oltre un miliardo di persone soffrono la fame?

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Vedelago: che darei per riciclare l'Italia

Vedelago (Treviso) è una distesa di campi smeraldini, di ville tipicamente californiane coi tetti occupati da pannelli fotovoltaici, una lunga e dritta strada di buchi e crepe.
Oltre ai bellissimi campi e alle case costose, Vedelago ospita anche un famoso impianto di riciclo, che è visitabile al pubblico per una modica cifra.

Al centro di riciclo arrivano carichi di rifiuti differenziati che vengono selezionati, pressati, stoccati e poi spediti ad altre aziende che li trattano per renderli utilizzabili di nuovo: bottiglie e flaconi di plastica, nylon, materiali in alluminio, carta, metalli. Oltre a questo si ha lo scarto – cioè materiali plastici che non hanno un utilizzo immediato – ottenuto dopo la selezione dei rifiuti sul nastro trasportatore, che subisce una diversa lavorazione: viene prima triturato, sciolto, poi immediatamente raffreddato, infine ancora triturato. Alla fine del processo si ottiene una sabbia sintetica, dal colore grigiastro, utilizzata soprattutto nell’edilizia e dalle industrie plastiche. Gli scarti, prima di questa innovazione, finivano in discarica; ora finiscono qui dove si trasformano in “granulato” – sabbia sintetica – che viene poi spedito ad altre industrie dove, grazie a diverse lavorazioni, permette la costruzione di altri materiali: il recupero quindi è totale e non più parziale.

Visitare un impianto del genere ci permette di capire che è importante differenziare i rifiuti e riciclarli, ma anche che è ancora più importante preservare le proprie ricchezze e limitare gli sprechi.
Riciclare dovrebbe diventare un’abitudine, un concetto non più estraneo, un gesto che raffiguri un nuovo modo di rapportarsi con l’ambiente, un’idea rispettata non solo da una particolare branca della società ma da tutti noi consumatori. Se imparassimo a vivere con il minimo indispensabile, a preferire la merce sfusa piuttosto che quella avvolta da più imballaggi, a cambiare il nostro stile di vita facendo piccoli passi alla volta, forse riusciremo a evitare di affrontare in modo drastico le rapide e lugubri conseguenze ambientali che si prospettano. Si sa che non sono possibili una crescita infinita e un ininterrotto consumo in questo mondo finito, proprio perché questo pianeta non è illimitato. Calpestiamo una terra che una volta cementificata non dà più gli stessi frutti buoni e succosi d’un tempo, respiriamo un’aria altamente inquinata, e non è di certo la limitazione del traffico di un giorno alla settimana a migliorarne la qualità; continuiamo a svuotare le miniere, a prelevare il petrolio, e nel frattempo riempiamo discariche e inceneritori. Questo mondo è limitato, come ha le sue abbondanze ha pure le sue scarsità. E, che ci piaccia o meno, dobbiamo saperle rispettare. Oltre a scegliere la sostenibilità, dobbiamo uscire dagli schemi, dall’ignoranza, dai conformismi ideologici; dobbiamo scegliere di agire in modo più razionale per provvedere al bene non solo della nostra comunità ma anche di quelle future.

Sono di Reggio Emilia e per fortuna a maggio il nostro inceneritore verrà chiuso; purtroppo però verrà aperto quello di Parma. Che senso ha? Nessuno, perché si sa che non è l’inceneritore a risolvere il problema rifiuti. Quindi colgo l’occasione per fare una domanda a chi detiene il monopolio dell’inceneritore parmense, cioè al sindaco: se un giorno vostro figlio, un vostro parente, un vostro caro amico, venisse a dirvi che ha un tumore e che la causa diagnosticata dai dottori è l’inceneritore? E se il malato foste voi? Che fareste? Vi pentireste di aver dato vita all’inceneritore a pochi chilometri dal Barilla Center? Troppo spesso capita che le cose più importanti vadano a finire nelle mani sbagliate. O forse non si tratta delle mani nelle quali cadono le decisioni, come quella dell’inceneritore, ma della sciocca corruttibilità dell’essere umano: quando si tratta di soldi, si è disposti a sacrificare tutto pur di guadagnare. Persino la vita altrui.

Che darei per riciclare l’Italia…

"L'economia della felicità": una risposta alla crisi globale.

Come il medico cura il singolo organo spesso senza prestare l’attenzione dovuta al paziente nella sua totalità, così i governi attuali stanno tentando di salvare l’economia senza prendere in considerazione il fatto che essa è parte di qualcosa di molto più vasto e profondo. O forse, peggio ancora, stanno fingendo di voler trovare soluzioni. Questo è uno dei pensieri che possono sorgere aprendo oggi il giornale e avendo appena visto il documentario “L’economia della felicità”.

Helena Norbert-Hodge

Prodotto e presentato da Helena Nordbert-Hodge, analista economica e autrice de “Il futuro nel passato”, il documentario pone in luce la crisi economica, ambientale e sociale in cui ci troviamo e allo stesso tempo indica una via d’uscita che mi appare ben più efficace dei tagli, dei prestiti e degli accordi che ora vengono decisi da non si sa chi, al chiuso delle stanze del potere.

Il documentario si divide in due parti: la prima mostra i disagi dell’attuale situazione, la seconda le soluzioni.

Il paradigma è rappresentato dalle vicende del Ladakh, paese che per secoli si è retto sui propri prodotti e dove la povertà e la disoccupazione sono stati a lungo inesistenti. A metà degli anni ‘70 l’apertura ai mercati fece sì che le multinazionali si inserissero nel commercio locale. Attraverso la pubblicità furono instillate nuove necessità, trasformando così il paese in una nuova fonte di profitti. I costi di tutto questo sono stati enormi: rottura dei legami sociali, disoccupazione, povertà acquisita, conflitti interreligiosi, senso di arretratezza e invidia nei confronti del modello occidentale.

Tutto ciò non è accaduto solo in Ladakh, ma anche in altri paesi detti “in via di sviluppo”. Ed è quello che è accaduto anche a noi.

Tale processo economico viene detto “globalizzazione”, ovvero “la deregolamentazione del commercio e della finanza che consente agli affari e alle banche di operare globalmente” e “l’emergere di un solo mercato mondiale dominato da compagnie transnazionali”.

Gli effetti di questo processo vanno oltre il semplice fatto monetario. In primo luogo abbiamo l’inquinamento. Le merci infatti vengono fatte viaggiare di paese in paese in modo davvero folle, portando al paradosso secondo cui in Ladakh il burro importato costa la metà del burro locale. Abbiamo poi la diminuzione della biodiversità nelle colture, l’indigenza, il disagio sociale, l’insoddisfazione.

La soluzione proposta dal documentario è il passaggio dalla grande alla piccola scala, ovvero la localizzazione.

Localizzare significa consumare ciò che viene prodotto vicino casa, seguire il processo di produzione dall’inizio alla fine, e questo con un impatto ambientale drasticamente ridotto (meno spostamento di merci), una ricchezza che viene reinvestita nella comunità stessa, maggiori contatti sociali e infine maggiore serenità. Questo non significa isolazionismo o mancanza di collaborazione internazionale. Significa semplicemente quello che l’uomo ha fatto per millenni. Senza bisogno di tornare ai tempi della pietra, certo. Grazie alle più avanzate tecnologie possiamo unire la sostenibilità all’utilizzo di energie rinnovabili e decentralizzate.

Insomma, se dobbiamo essere infelici per produrre il tipo di società che abbiamo, e che crediamo essere la sola possibile, forse dovremmo riconsiderare qualche assunto. Che cos’è il PIL, in fondo? È davvero ciò di cui dovremmo preoccuparci? O forse è solo un acronimo utile a chi ha bisogno di continuare a giocare con enormi quantità di denaro, una divinità composta da tre lettere al quale stiamo sacrificando troppe cose?

Vandana Shiva

Quello che ho apprezzato del documentario non è solamente il messaggio, ma anche il fatto che tra le maggiori promotrici di questa economia della felicità vi siano delle donne. Tra di esse abbiamo non solo Helena Nordberg-Hodge , ma anche la scrittrice Vandana Shiva e la dottoressa Mohau Pheko. Qualcosa mi dice che le donne stiano avendo e avranno un ruolo di primo piano nei cambiamenti che, volenti o nolenti, ci troveremo ad affrontare. Vedo infatti in questo ritorno a uno stile di vita meno competitivo una mano femminile. Come dice Vandana Shiva, è “la conoscenza delle nonne”.

Credo che questo documentario presenti una soluzione logica e naturale ai problemi che ci troviamo ad affrontare, e soprattutto credo sia un invito a non aspettare sempre che un “grande della terra” arrivi a sistemare le cose. Le multinazionali sono grandi, ma hanno la goffaggine dell’elefante. I singoli sono piccoli come formiche, ma come le formiche arrivano dappertutto.

 

Per maggiori informazioni:

http://www.theeconomicsofhappiness.org/

 

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Rifiuti zero

In questo periodo di estrema crisi monetaria si parla così ampiamente di economia, Unione Europea, spread, e così scarsamente di tutti quei problemi che necessitano di risanamenti immediati. Un esempio qualsiasi? La gestione dei rifiuti.
La legge italiana richiede a ogni città di raggiungere il 65% di raccolta differenziata, un obiettivo che la politica rende impossibile da raggiungere dichiarando la gestione dei rifiuti una situazione d’emergenza, così discariche e inceneritori risultano le uniche soluzioni efficaci. Qui – e non solo – la politica erra: la gestione dei rifiuti non è mai sinonimo di allarme o dilemma socio-politico poiché, come tutti sanno, dal trattamento corretto dell’immondizia possiamo trarre soltanto benefici, e invece? Invece, gettando la monnezza in discarica o infornandola negli inceneritori, la gestione dei rifiuti viene resa un problema a livello nazionale. In questo caso, come in molti altri, la politica crea il problema dove potrebbe non sussistere. I politici non meritano alcun rispetto quando impongono ciecamente, attraverso la loro schifosa supremazia, l’apertura di nuove discariche o quando, attraverso studi poco accurati, difendono pienamente gli inceneritori, perché tutto questo avviene senza che essi pongano attenzione ai dissensi popolari.
I nostri rifiuti non sono unicamente spazzatura, e quindi oggetti da nascondere sottoterra o da bruciare nei termovalorizzatori ma anzi, dopo essere stati legalmente trattati, possono dar vita a nuovi oggetti, evitando tra l’altro di consumare le materie prime che oggi, purtroppo, scarseggiano sulla Terra. Sono dunque materie preziose che possono dare fiducia al futuro che ci attende e speranza in quel mondo che, presto o tardi, sarà sempre più carente delle materie dalle quali oggi dipendiamo.
La raccolta differenziata e il riciclaggio sono due delle tante soluzioni sostenibili in grado di riportare il giusto equilibrio tra noi e l’ambiente. Se noi producessimo e successivamente riciclassimo quanto fabbricato, le risorse naturali sarebbero disponibili anche un domani, e il nostro habitat si troverebbe in condizioni abbastanza decenti da poter continuare a ospitare meravigliose civiltà in futuro. Non sto imponendo nessuna mia ideologia, vorrei solo far capire a chi legge che la tecnologia non sempre riscuote risultati positivi, che non è sempre la via più semplice – ad esempio bruciare i rifiuti o sotterrarli – a sistemare le cose, che la politica è stata macchiata da qualcosa di indelebile, che il fatto che siamo homo sapiens non spiega il perché dovremmo sempre salvarci la pelle. Vorrei semplicemente far capire che i rifiuti sono risorse importanti il cui scopo non è inquinare l’ambiente circostante ma sostituire quelle materie che si stanno esaurendo. Penso che la cosa più difficile da combattere non si trovi nel far eseguire la raccolta differenziata o insegnare come riciclare l’immondizia, ma come poter destituire chi detiene il dominio della gestione dei rifiuti. Se ci fossero persone più motivate e dotate di maggior buonsenso in campo politico, non ho dubbi che il mondo sarebbe leggermente migliore. Dico
 leggermente. Forse siamo troppo sapiens per sistemare il mondo, ci vorrebbe un tocco di umiltà in più in tutti noi…
Zero waste = rifiuti zero: non è uno slogan, è un modo di pensare più pulito che dovrebbe accarezzare gli stili di vita di tutti, non solo di alcuni.

 

Abbiamo sbagliato per anni, adesso è ora di rimediare

Carenza d’acqua potabile, diminuzione delle aree coltivabili, impoverimento dello strato superficiale finalizzato alla produzione agricola, estinzione di diverse specie viventi, aumento dei casi di deforestazione, distruzione di barriere coralline, inquinamento atmosferico, marino e terrestre. Tutto questo è già in atto, si può vedere chiaramente. Se non ci si alzerà dal divano, queste manifestazioni apocalittiche ci porteranno a un inammissibile peggioramento. Volete ancora che quei disastri sopraelencati continuino ad essere gli emblemi d’oggi e la paura di domani? Io no.
È ora di dire basta a questa sporca umanità, a questo snervante e incomprensibile degrado sociale, a questo immenso menefreghismo nei confronti della realtà tangibile. Noi umani disperdiamo ogni giorno nell’aria inestimabili quantità di sostanze tossiche senza rendercene conto mai abbastanza. Questo è un dato di fatto, non l’ho inventato io. Abbiamo tra le mani la verità e ininterrottamente la sottoponiamo a prove per renderla possibilmente meno vera e meno visibile. Provo vergogna nel sapere che siamo tutti a conoscenza del disastroso domani e nonostante ciò rimaniamo ancora seduti sul divano a guardare la TV. È vergognoso non tanto perché stiamo zitti e immobili, ma perché ora ho la certezza che all’umano non importa nulla di quella immensa fortuna che ci ha donato questo bellissimo pianeta verde-blu.
Stiamo consapevolmente, ripeto consapevolmente, sparando su nel cielo sostanze inquinanti da troppo tempo. Il vero problema è che esse trattengono calore, quindi elevano la temperatura dell’aria, degli oceani e della superficie terrestre. L’incremento termico a sua volta causa tutto quanto elencato nelle prime righe, oltre a: scioglimento dei ghiacciai, aumento del numero e della potenza degli uragani, diminuzione delle foreste, diminuzione dei raccolti e così via. Se ora anche voi, come me, non volete che questa crisi climatica peggiori, dobbiamo subito cominciare a risolverla partendo proprio dai gas serra liberati nell’atmosfera.
Le sostanze inquinanti che causano il surriscaldamento globale sono diverse. La più importante è il biossido di carbonio (CO2) che proviene dalla combustione di carbone per la produzione di energia, e dalla combustione di derivati del petrolio nei trasporti; la CO2 è il più inquinante rispetto agli altri gas serra, poiché è quello maggiormente prodotto, per tal motivo bisognerebbe trovare un modo di produrre energia senza sprigionare biossido di carbonio nell’aria. Ma non tutto è compromettente! Una cosa che ci dovrebbe far diventare più zelanti è la straordinaria capacità detenuta dalla Natura: le piante assimilano la COatmosferica; quindi dobbiamo assolutamente diminuire i casi di deforestazione perché portano soltanto a un minor smaltimento di CO2, ovvero ad un suo maggior accumulo nell’atmosfera.
Spesso ci si chiede quale sia la vera via di fuga, o meglio, la soluzione più giusta a questa grave crisi, ma generalmente non si riesce mai a darsi valide risposte. Forse perché la falsa convinzione che tutto è irrimediabile ci rende negligenti, o forse perché si ha paura di dover dar ragione alla realtà e ammettere i propri errori. Probabilmente la cosa più esatta da fare, ma più complicata da attuare, è unirsi e combattere la ardua situazione con buonsenso e diligenza. La terra è abitata da circa sette miliardi di persone; in qualche modo riusciremo a creare una pacifica coalizione tra le nazioni mondiali. Sarà difficile, ovviamente, ma non ci sono dubbi che la benevolenza nascosta in noi possa vincere sulla codardia dei “potenti”. Inoltre, la politica potrebbe darci una mano limitando le emissioni di biossido di carbonio, di metano e di altri gas serra, ma, pensandoci a modo, sarebbe come chiedere al mondo di smettere di ruotare per un giorno.
Come dice Al Gore: “se smettessimo domani di produrre COin eccesso, circa metà della COprodotta dall’uomo ricadrebbe giù nell’atmosfera (per essere assorbita dagli oceani e da piante e alberi) nel giro di 30 anni […] la parte rimanente ricadrebbe con molta più lentezza, e fino al 20% di ciò che abbiamo immesso nell’atmosfera quest’anno sarebbe ancora lì tra 1000 anni. E ogni giorno spariamo fin lassù 90 milioni di tonnellate di CO2“. Incredibile, vero?
L’unica cosa che in questo periodo non dobbiamo assolutamente fare è perdere la speranza, perché nulla è per sempre, nemmeno il dolore, le ingiustizie e ogni cosa che fa parte della frazione morta del mondo. In ogni piccola realtà che noi viviamo c’è sempre un margine di speranza. E noi – noi che vogliamo lottare contro questa forte crisi climatica – gestiremo questa speranza col fine di renderla ampiamente reale. Prima, però, dobbiamo convincerci che il problema basilare della crisi climatica è l’assenza di un’unione mondiale, di una vera pace tra cittadini… Noi faremo in modo che questo buco fondamentale possa essere ricucito in fretta.