Il passato remoto di Gobekli Tepe

Intercorre più tempo fra Gobekli Tepe e le tavolette d’argilla sumere di quanto non ve ne ne sia fra la civiltà sumera e noi”.

Gary Rollefson, archeologo.

 

Oggi voglio portarvi in un luogo sorprendente.

Il luogo si chiama Gobekli Tepe, nell’attuale Turchia, ed è situato a circa diciotto chilometri dalla città di Şanlıurfa, presso il confine con la Siria. L’aspetto è quello di una collina alta circa quindici metri, con un diametro di trecento.

Qui, nel 1963 un gruppo di ricerca archeologico notò nella zona cumuli di frammenti di selce, segno della presenza, nel passato, di un’attività umana.

123Solo trent’anni dopo, però, se ne riconobbe il potenziale: un pastore notò che dal terreno spuntavano alcune pietre di strana forma. Avvisò il responsabile del museo della città di Şanlıurfa, e di bocca in bocca la notizia arrivò all’Istituto Archeologico Germanico. Nel 1995 cominciarono gli scavi, guidati dall’archeologo Klaus Schmidt, e in seguito il tutto passò sotto la supervisione di due università tedesche.

Ciò che venne scoperto avrebbe lasciato non pochi a bocca aperta.

Vennero infatti alla luce, dopo un tempo incommensurabile, alcuni recinti circolari, delimitati da megaliti a forma di “T” di oltre quindici tonnellate ciascuno e di circa tre metri di altezza.

Risalgono al 9500 a.C.

Un’epoca in cui, fino a questo momento, gli studiosi non credevano fosse possibile per gli essere umani erigere una struttura del genere.Continua a leggere…

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Uomo, cielo, terra: "La danza" di Henri Matisse

«Il mio obiettivo è rappresentare un’arte equilibrata e pura, un’arte che non inquini né turbi. Desidero che l’uomo stanco, oberato e sfinito ritrovi davanti ai miei quadri la pace e la tranquillità».

– Henri Matisse –

 

Come tutti sappiamo, in questo periodo burrascoso dal punto di vista economico e politico siamo circondati da notizie più o meno allarmanti. Mi sono chiesta quale artista potesse venirci in aiuto, donandoci una boccata d’aria fresca e un momento di quiete. Non ho avuto dubbi: Henri Matisse, il pittore del colore puro e della leggerezza, uomo dal volto mite e dal cuore di inconsapevole rivoluzionario, fa al caso nostro.

Nel secolo buio delle due guerre mondiali la sua pittura cerca l’unità, l’armonia, la bellezza. Ciò si può vedere, ad esempio, nell’opera “La Danza”, datata 1910, che qui vorrei presentare.

 

 

Commissionata dal ricco collezionista russo Sergei Shchukin, l’opera esiste in due versioni, la seconda delle quali, quella di cui ci occupiamo, è conservata al museo dell’Hermitage di San Pietroburgo.

Anni fa ho avuto la fortuna di vederla dal vivo, a Roma, e nonostante fossi ancora a digiuno di qualsiasi cosa riguardasse l’arte, risposi a quella visione con un esplosione di euforia. Nessuna riproduzione fotografica può rendere giustizia a questa semplice quanto monumentale opera.

“La Danza” presenta cinque figure umane nell’atto di danzare in tondo, tenendosi per mano. Esse si posano su una superficie verde sovrastata da uno spazio blu. Le diverse pose e le braccia suggeriscono un movimento circolare vorticoso. Alcune figure sembrano essere spinte in avanti, altre paiono essere trascinate. I volti sono quasi tutti nascosti, spersonalizzando così i soggetti e consegnandoli a una dimensione universale e simbolica. La danza infatti è la vita stessa, che circola in un movimento armonioso e senza fine. I corpi si abbandonano a essa in tutta la loro plasticità, leggeri, delineati con gesti spontanei, caratteristici della pittura di Matisse. Nonostante l’artista l’avesse ponderata a lungo, l’opera pare non premeditata, emersa in un soffio sulla tela, e noi, sapendolo, distendiamo per qualche momento i nostri pensieri fra le linee dei personaggi, negli spazi vuoti fra loro.

Il colore è sicuramente la parte più interessante. Anzitutto, Matisse evita ogni profondità: la scena si svolge su due dimensioni. A chi interessano le ombre in questo momento?

Non possiamo fare a meno di associare il verde e il blu al cielo e alla terra. Sono concetti fondamentali. Torniamo all’inizio dell’umanità, ai dipinti rupestri. L’uomo, la terra, il cielo. Ecco ridotti al minimo gli elementi della nostra esistenza. E in questo minimalismo ritroviamo il sollievo di una fondamentale gioia di vivere. Dopo questo l’arte non può che svanire nell’astrattismo o andare verso la complessità, ed è quest’ultima, per fortuna, la via che Matisse scelse di seguire in seguito.

Anche la scelta dei colori è ridotta all’essenziale (“il minimo per ottenere il massimo effetto” era il motto di Matisse in questo periodo). Blu, verde, rosso. Talmente elementari, quasi fanciulleschi, che siamo portati a illuderci si tratti dei tre colori primari. Rosso, verde, blu. Uomo, terra, cielo. La danza della vita.

I colori, saturi, carichi di tutto il loro potere, parlano da soli. A essi rispondiamo senza bisogno di spiegazioni. Il verde ci investe, il blu, che è sia cielo sia spazio sacro, come l’oro delle icone, ci dona il senso dello spazio e dell’infinito. Lì dove i colori si incontrano non vi è fusione né linea. In alcuni punti si intravede la tela sottostante. Le tinte di Matisse accarezzano la tela, leggere come ali di farfalla. Ecco il verde, ecco il rosso. Li vediamo e semplicemente ci emozioniamo per la loro bellezza.

Per finire, non dimentichiamoci le dimensioni. L’opera misura 260×391 centimetri. Riuscite a immaginarla? E’ enorme. Non sempre la grandezza fa un quadro, ma in questo caso è necessaria. Essa è una rappresentazione della vastità della vita, ci accoglie in lei, ci fa danzare con i personaggi. Potremmo volare in quel blu?

Il surrealismo magico di Leonora e Remedios

"I cercatori", Leonora Carrington

Ritengo ingiusta la poca attenzione tributata fuori dal Messico a due pittrici come Remedios Varo e Leonora Carrington. Spagnola la prima, inglese la seconda, entrambe si sono ritrovate, a causa degli avvenimenti politici e culturali del tempo, a vivere in Messico, non senza aver prima conosciuto quella che allora veniva considerata la Mecca dell’arte, Parigi.

Parlare delle loro biografie sarebbe un dilungarsi, nonostante le loro vite siano state oltremodo ricche di avvenimenti. Ciò che mi preme di più è descriverne l’opera.

I quadri di Remedios Varo e Leonora Carrington non sono propriamente simili, ma non si può negare di vedere in loro un’aria comune. Erano amiche, dipingevano spesso assieme e, come è naturale, la loro pittura, più che da un’imitazione reciproca, nasceva da una naturale osmosi di sentimenti e lunghi dialoghi.

"La roulotte", Remedios Varo

Siamo in pieno surrealismo, ma un surrealismo particolare a mio avviso: non la pura dissonanza di oggetti incoerenti, il semplice automatismo, il riferimento alle teorie freudiane, i rimandi al sesso come forza propulsiva, temi allora molto cari. Vi è qui di più, o meglio, dell’altro. Soprattutto nella Carrington, notiamo un’immersione in qualcosa di ancor più vasto dell’individuo stesso, dei suoi sogni e delle sue immagini personali. Amante del foklore inglese e celtico, nei suoi quadri si svela un mondo onirico dove fluttuano esseri mitici come chimere e dei egizi, figure dei tarocchi, paesaggi lunari. In Remedios Varo c’è una maggiore attenzione all’autobiografia, ma anch’essa si inserisce in una mitologia personale abitata da figure diafane e antiche che si muovono su incantevoli mezzi di trasporto quali complesse biciclette o piccole barche capaci di contenere a malapena una persona. Ogni suo quadro rivela particolari sempre più minuti man mano che lo si osserva, come se si entrasse gradualmente nell’interiorità dell’artista.  Se nei quadri di Carrington c’è un maggior senso di collettività legato al folklore, in quelli di Varo si percepisce un senso di solitudine, spezzato ogni tanto da un tocco di ironia, come nell’opera “visita al chirurgo plastico”. Queste due donne paiono venire da un mondo dove maghi, esseri imperscrutabili e animali incantati sono lì per mostrarci, nei loro sguardi enigmatici, i misteri della vita. La tecnica è raffinata: si utilizzano pennelli piccoli e tratti regolari che portano l’immagine ad assomigliare, soprattutto in Varo, ad antiche tempere o a miniature. E il fatto di essere donne conta: nei loro quadri, soprattutto in quelli di Varo, fanno capolino lune, case, gomitoli, come se si sentisse il bisogno di lasciare un segno particolare in un mondo, quello dell’arte surrealista, ancora completamente colonizzato dall’uomo. Nel surrealismo, infatti, alla donna è affidato tutto sommato un ruolo infantile, o per lo più quello di musa (mai creatrice). Le due artiste deludono questo copione, muovendosi in silenzio ma con sicurezza nel mondo creativo, rifiutandosi di spiegare le immagini e lasciando che siano loro a parlare. Infine, nonostante le differenze, si percepisce la spinta spirituale di entrambe, che si traduce in un sincero sforzo di andare alla fonte (“Esplorazione della fonte dell’Orinoco” e “La chiamata” di Remedios Varo)  o di incamminarsi in un labirinto verso un ipotetico centro (“Labirinto”, Leonora Carrington), in una paziente alchimia, un continuo viaggio alla scoperta di paesaggi interiori.

Remedios Varo si spense ancora giovane nel 1963. Leonora Carrington ci ha lasciati quest’anno, all’età di 94 anni.

I quadri di queste due maestre dovrebbero comparire accanto a quelli Magritte, Dalì, Tanguy ed Ernst nelle monografie. Spetta a noi recuperare appieno le magiche visioni di queste due donne. Vogliamo cominciare noi, a partire da questo articolo, a dare loro il tributo che meritano?

"Viaggio alla fonte dell'Orinoco", Remedios Varo
"Il labirinto", Leonora Carrington.

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Bibliografia
“Remedios Varo, la magia dello sguardo”, Diego Sileo, Selene Edizioni.
“Il cornetto acustico” di Leonora Carrington, Adelphi.
“Remedios Varo, unexpected journey”, di J. A. Kaplan, Abbeville Press.
“Leonora Carrington, surrealism, alchemy, art”, di Susan Aberth, Lund Humphries Pub Ltd.
“Surreal friends” di S. M. Kusunoki, A. Rodriguez Rivera, S. Van Raay, J. Moorhead, Lund Humphries Pub Ltd.

L’arte diventa vulnerabile

[stextbox id=”custom” big=”true”]Una nuova autrice su Camminando Scalzi.it

Mi chiamo Valentina Pulice, sono nata a Francoforte sul Meno nel 1992 in una giornata indecisa tra il sole e la pioggia.
A priori, adoro scrivere e la gente che scrive. Mi sono diplomata come perito agrario con un anno d’anticipo, e come occupazione principale coltivo rose. Nel tempo libero adoro suonare la chitarra, improvvisarmi come cantante e fotografare volti e paesaggi.
La musica mi ha aiutato molto nel mio percorso formativo. Tutto ciò che viene considerato storia, rientra nelle mie passioni. Sono da sempre stata realista, razionale e idealista. Mi affascina tutto ciò che rende vivibile questo mondo come l’arte, la poesia, la musica e il teatro.[/stextbox]

L’arte diventa ”vulnerabile” presso l‘Hangar Bicocca di Milano. L’idea, messa in atto da Chiara Bertola e Andrea Lissoni, ha lo scopo di rappresentare le quattro fasi lunari in un’unica mostra articolata in sette mesi.
L’ inaugurazione della mostra è avvenuta nel mese di Ottobre e il primo Febbraio si è conclusa la prima fase, intitolata : ‘‘Le soluzioni vere arrivano dal basso”. Il titolo della mostra e le opere esposte vogliono ricordare al visitatore come l’insieme dei componenti legati alla stessa siano analoghi a un giardino da coltivare: l’impresa infatti è articolata come il susseguirsi delle stagioni. Iniziata ad ottobre (epoca autunnale) con il contributo di14 artisti, si concluderà nel mese di maggio (epoca primaverile) con la collaborazione di 30 artisti in totale. L’opera che ha caratterizzato e interpretato in modo figurativo il titolo della mostra, nella prima  fase, è “Testament” del duo inglese Ackroyd & Harvey.
Gli artisti che hanno partecipato mostrando le proprie opere durante la fase del  “primo quarto lunare” sono :
● Ackroyd & Harvey
● Mario Airò
● Stefano Arienti
● Alice Cattaneo
● Elisabetta Di Maggio
● Rä Di Martino
● Yona Friedman
● Alberto Garutti
● Gelitin
● Mona Hatoum
● Christiane Löhr
● Ermanno Olmi
● Hans Op de Beeck
● Stefano Boccalini

La fase del “secondo quarto lunare” (che si sta svolgendo in questi giorni) prevede l’inserimento di altri otto artisti, i quali lavorano con caratteri e qualità differenti sulla stessa tematica: la vulnerabilità. Ed è proprio la diversità dello stile usato da ogni singolo artista che rende la mostra, nel suo complesso, unica e atipica.
La sintesi concettuale è identica alla precedente fase, l’unica differenza tra le due edizioni è la titolatura che si presenta con questo slogan: interrogare ciò che ha smesso per sempre di stupirci. Le opere variano seguendo l’intelletto dell’artista, per questo motivo vengono presentate opere complesse e concettuali affiancate da altre classiche e poetiche. Il progetto, realizzatosi con successo, non è nient’altro che una continua evoluzione, un ciclo di periodi che rendono l’atmosfera ancora più interessante.
Il percorso evolutivo intrapreso da ogni singolo artista vuol dimostrare al pubblico come l’arte non si fermi a un singolo evento, ma continui a evolversi durante il corso del tempo : un’evoluzione che deriva dalla bravura artistica, dall’originalità, dalle critiche, dai consigli e dalle opinioni nate tra gli autori, che hanno preso parte al progetto da Settembre 2009.
Gli artisti che si sono aggiunti al ”secondo quarto” sono:
● Bruna Esposito
● Carlos Garaicoa
● Invernomuto
● Kimsooja
● Margherita Morgantin
● Adele Prosdocimi
● Remo Salvadori
● Nico Vascellari

Possiamo considerare il progetto ”Terre vulnerabili”, come un’esperienza innovativa nel campo artistico e visivo. Un’esposizione che verrà ”coltivata” gradualmente dai talentuosi artisti, la quale sarà capace di progredire e stupirci durante tutte le fasi lunari che saranno attuate durante il mese di marzo, aprile e maggio.

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Il "giallo" dei colori: a tu per tu con un quadro di Chagall

Premetto subito: non sono una critica d’arte, e la mia non pretende di essere la dissertazione di un’esperta. Il mio desiderio di scrivere su questo quadro e su altri, come ho fatto in occasioni precedenti, nasce esclusivamente dal piacere di parlare delle cose belle.

Il quadro che ho l’onore di presentarvi è di Marc Chagall, artista russo che con la sua lunga vita ha attraversato tutto il novecento, vivendone le straordinarie scoperte come gli orrori. Il titolo della nostra opera è “L’apparizione della famiglia dell’artista”. È un olio su tela della grandezza di 123 x 112cm e risale al 1947, quando Chagall aveva 60 anni.

Cominciamo a guardarlo in tutta semplicità. Che cosa vediamo? Vediamo un pittore (ovvero lo stesso Chagall) seduto a un cavalletto con la tavolozza in mano. Si è fermato un istante e si è voltato come se qualcosa avesse attratto la sua attenzione. Sulla destra appaiono diverse figure quasi sospese nel nulla, e grazie al titolo possiamo identificarle con alcuni membri della sua famiglia. È un quadro che parla di nostalgia, del voltarsi indietro verso il passato, verso Vitebsk, cittadina della Bielorussia cui l’artista restò legato per tutta la vita, e alla quale dedicò numerose opere sia pittoriche sia letterarie. Il fluttuare della scena sospende l’attimo nel soprannaturale, o meglio ancora, nel fiabesco. Le figure mancano di forza di gravità, caratteristica inconfondibile dello stile di Chagall. In basso vediamo delle case e una chiesa, probabilmente uno scorcio di Vitebsk. In alto figure non umane, una mucca e un angelo, completano la scena.

Il pittore, come dicevamo, è voltato indietro, la mano destra sul cuore, come a indicare il legame sentimentale con i personaggi che gli sono vicini, e sulla sua tela si scorgono macchie geometriche di colori. Avvicinandoci scopriamo che su di esse sono dipinte alcune foglie e piante. Chissà, forse era intento a disegnare un paesaggio o un giardino.

Guardiamo ora il gruppo sulla destra. Accanto alla spalla del pittore sono riconoscibili, grazie a precedenti ritratti, i genitori. Il padre, ricordato dall’artista come un lavoratore stanco, secondo quanto racconta Chagall non mancava mai di recarsi in sinagoga; eccolo, infatti, con i rotoli della Torah in mano, immagine che, oltretutto, vuole porre l’accento sulle origini ebraiche dell’artista. Accanto vediamo la madre, anche lei con la mano sul cuore, una donna energica e amorevole che Chagall amò moltissimo. Le altre figure in basso potrebbero essere le sorelle e l’unico fratello (il personaggio vestito di giallo). Nella parte alta della tela, a sinistra, vi è una coppia forse intenta a leggere un libro. Altre figure sono una ragazza velata accanto alla testa del pittore (che personalmente interpreto come Rachele, la sorella morta alla nascita) e, sulla destra, una sorella (credo sia tale) che arriva in volo vestita da sposa, tenendo in mano un mazzo di fiori. In basso a destra una figura femminile, forse un’altra sorella, suona il violino, strumento più volte ritratto da Chagall e che suo zio amava suonare, specialmente sul tetto di casa. La musica è presente a festeggiare l’incontro. Ancora più in basso, una piccola figura femminile cammina protetta da un ombrello. Potrebbe essere una figura meno presente, o il cui ricordo è ormai sbiadito. Infine, in alto, abbiamo un angelo che sembra calare sulla scena. L’angelo è un tramite, un messaggero, e potrebbe essere lui l’artefice di questa inaspettata “riunione”. In mano tiene un libro, probabilmente un testo sacro. Che dire della mucca, l’onnipresente mucca di Chagall? È ovvio che a Vitebsk ce ne fossero molte, com’è giusto ricordare che una delle attività preferite dal piccolo Chagall fosse salire sul traballante carro dello zio e accompagnarlo nei suoi viaggi per comprare bestiame.

Notate come la grandezza e la piccolezza delle figure così come la loro lontananza o vicinanza sembri indicare lo spazio che ciascun personaggio occupa nella memoria del pittore. Non a caso le figure più grandi e più vicine sono i genitori.

Veniamo ora alla disposizione dei soggetti nello spazio pittorico. Osservate come il quadro sia organizzato sullo schema di una grande “X”, uno schema molto presente nell’opera di Chagall, al punto da essere spesso mostrato o enfatizzato (basti pensare alle opere “L’apparizione”, o “Io e il villaggio”). In generale lo schema delle diagonali è un elemento abbastanza utilizzato in pittura, poiché disporre il soggetto su assi obliquepuò donare, a seconda dei casi, movimento o addirittura instabilità. La linea che va dall’angolo in alto a sinistra verso l’angolo in basso a destra lascia “cadere” lo sguardo, ed è data dallo stacco di colore rosso/blu. Non solo, anche le figure contribuiscono ad aumentare l’effetto di questa linea, basti osservare la testa della donna accanto alla mucca, il volto del padre e il braccio della ragazza con il viso verde. La seconda linea, quella che va dal basso a sinistra all’angolo in alto a destra, è definita dalla base della tela del pittore, dal braccio dello stesso, dai rotoli della Torah e dall’ala gialla dell’angelo. Il suo movimento, al contrario della linea opposta, evoca un movimento di ascesa. Tutto si muove attorno a queste due assi opposte, come in una girandola.

Veniamo al colore, l’uso del quale fu un vero punto di forza nella produzione di Chagall. Come si vede vengono utilizzati i colori primari (blu rosso e giallo) più i secondari verde e viola. I marroni sono assenti. I colori, dati in strati spessi, sembrano usati, in molte zone del dipinto, in maniera pura, ossia senza essere mescolati.

L’accostamento di complementari, o anche di due coppie di complementari, era molto amato da Chagall, che ne fece grande uso nella maggior parte delle sue opere. È una combinazione non facile da gestire, poiché può dare esito a contrasti molto forti, ma Chagall, da grande colorista che era, dimostra di avere piena padronanza dei pigmenti: lo spazio maggiore viene spartito dal rosso e dal blu,  mentre il viola e il giallo (complementari) sono utilizzati in maniera minore come sostegno, come accento, o per “spezzare”. Il volto verde della ragazza e quello blu del padre interrompono il dominio del rosso, il giallo del vestito del ragazzo spezza il blu e accende il suo vicino viola. I colori dunque parlano fra loro (e a volte s’interrompono!). Notate come il vestito rosso della giovane a destra e il suo volto verde diano risalto al suo gesto, che è insieme un abbraccio e un’invocazione. Osservate invece come il volto del pittore sia evidenziato dal rosa pallido, e come i due visi (del pittore e della fanciulla) siano legati non solo dallo sguardo ma dal controcanto dei colori utilizzati.

Ora che abbiamo analizzato il quadro, possiamo tornare a guardarlo nuovamente nel suo insieme. Forse ora non solo riusciamo a percepire la forte emozione che esso riesce a comunicare, ma possiamo anche apprezzare il gioco di sguardi, di forme, di geometrie e di colori grazie al quale esso prende vita, vibrando di felicità e, al tempo stesso, di pungente nostalgia.

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Frida Kahlo: una donna allo specchio

Difficile, soprattutto per una donna, non lasciarsi affascinare dall’arte di Frida Kahlo (Città del Messico, 1907 – 1954). Vuoi perché il suo nome è uno dei pochissimi femminili che si possono trovare nelle collane monografiche sui pittori. Vuoi per l’eroismo di una vita breve e piena di una sofferenza talmente esibita da sfiorare il narcisismo, ma in cui ciascuno di noi si può identificare. Vuoi per il suo essere messicana, in un olimpo fatto, almeno in quel periodo, soprattutto da artisti europei. Vuoi per il fatto singolare che la gran parte della sua opera sia costituita da autoritratti. Fatto sta che questa donna, morta a soli 47 anni, è riuscita a sfondare le quattro mura domestiche e a portare la sua arte in giro per il mondo.

Molti sono i punti di vista attraverso i quali può essere commentata l’opera della Kalho. Osservando i suoi dipinti possiamo discutere di arte popolare messicana, del rapporto fra arte e vita, o anche dell’inconsapevole legame con il surrealismo.

Quello di cui io vorrei parlare in questa occasione, però,  è l’idea di “doppio” che l’artista non solo era consapevole  di possedere in sé stessa, ma che mostrava  nelle sue immagini, con una capacità auto-analitica davvero sorprendente.

La malattia, il dolore fisico e quello emotivo furono temi determinanti della sua pittura. Già ammalatasi di poliomielite all’età di sei anni (infermità che le lasciò atrofizzata la gamba destra), all’età di 18 anni Frida Kahlo fu vittima di un terribile incidente che la portò a lottare diversi giorni tra la vita e la morte e che la costrinse a letto per un lungo periodo.

Autoritratto, 1926

La prima opera della pittrice fu l’ Autoritratto del 1926, risalente proprio a questo periodo di convalescenza. Fu dipinto a letto, grazie a uno speciale cavalletto regalatole dai genitori e a uno specchio che la madre le aveva posto accanto affinché lei si potesse guardare. Ecco dunque nascere l’elemento dell’alterità: la doppiezza di Frida si esprime anzitutto nella forma di un’altra lei che le fa compagnia e si fa quasi carico, sulla tela, di tutte sue le sofferenze. Da quel momento l’autoritratto resterà una delle forme pittoriche preferite dell’artista.

Autoritratto con capelli tagliati, 1940

Non si tratta però solamente di un’immagine allo specchio. Osservando i dipinti di Frida Kahlo, si ha come l’impressione che questa doppiezza riguardasse anche la sua natura. Tutto ciò si può evincere in modo sottile dal quadro I miei nonni, i miei genitori e io, dove l’artista sembra comprendere che lei stessa, come ciascuno di noi, è in realtà il risultato di un’unione di due storie, due alberi genealogici. Il padre, un ebreo tedesco, la madre una messicana con sangue indio. L’uno affettuoso e comprensivo, l’altra rigida e distante. Ma con questa doppiezza, con queste parti materna e paterna la Kahlo gioca, facendosi beffe delle convenzioni. È famosa, ad esempio, una foto di famiglia in cui una giovanissima Frida si presenta completamente vestita da uomo. Per tutta la vita la Kahlo oscillò nella sua doppia natura sessuale, tanto è vero che di lei sono noti non solo l’amore per il marito Diego Rivera (grande pittore messicano) ma anche alcuni flirt con donne.

La Frida vestita da uomo ricomparirà molti anni dopo, nell’opera Autoritratto con capelli tagliati, dipinta in un periodo di profonda sofferenza emotiva. Il quadro è sormontato da una strofa di una canzone spagnola che recita più o meno “Se ti ho amato fu per i tuoi capelli, ora che sei pelata non ti voglio più”. Il quadro risale al periodo di allontanamento dal marito, che poi risposerà poco tempo dopo. La doppiezza è anche conflitto interiore.

Sempre seguendo la tematica del doppio, l’amore per il marito Diego Rivera si palesa in una particolare composizione dove i volti dei due sono addirittura fusi in uno solo. Mascolina lei, con le sue sopracciglia unite e i suoi baffi, femminile lui, con il suo grosso ventre e i lineamenti delicati. Un sole e una luna completano il tutto.

Albero della speranza, mantieniti saldo, 1946

Nell’opera Albero della speranza, mantieniti saldo,  l’immagine è nettamente ed esplicitamente divisa a metà, con il sole a sinistra e la luna a destra, (tali astri compaiono spesso nei dipinti dell’artista, come ad enfatizzare ancor di più questa sua natura ying – yang) e dove sono presenti due Frida, una di spalle, sofferente, su un letto d’ospedale (probabilmente reduce da una delle molte operazioni alla colonna vertebrale), l’altra seduta su una sedia, con in mano un busto, ieratica come una di quelle sante ritratte negli ex voto messicani e dai quali la Kahlo si lascerà grandemente ispirare. Il dolore qui si divide due volte: una perché la pittrice si ritrae, l’altra perché nella figura seduta a destra incarna la sofferenza osserva e consola sé stessa.

Precedente a quest’opera (1939), fu dipinta forse una delle opere più famose della pittrice, ovvero Le due Frida. Risalente al periodo dell’allontanamento dal marito, è un ulteriore rimando all’azione catartica dello sdoppiamento. Qui vediamo due Frida, una vestita con abiti in stile europeo, l’altra con i tipici vestiti messicani che la Kahlo amava indossare. Una, la messicana, ancora oggetto dell’amore del marito, l’altra non più. Le due Frida si tengono per mano, in un gesto confortante e consolatorio, e sono ulteriormente unite da una vena che collega i loro cuori. La Frida messicana tiene in mano un medaglione con una foto di Rivera da bambino, l’altra, quella vestita di bianco, con una pinza sembra bloccare il flusso del sangue, come a voler frenare così anche il dolore. Troppo tardi, il male è fatto. In tutto ciò, gli sguardi sono, come in molte altre opere, apparentemente impassibili; in realtà la loro fissità, simile a quella di occhi che si guardano allo specchio,  pare l’unico, disperato punto di contatto con l’osservatore, e quindi con il mondo esterno.

Le due Frida, 1939

Ecco, per concludere, cosa diceva a tal proposito la stessa Frida Kahlo:

Bisogna che il quadro vi guardi quando voi lo guardate. […] È un lavoro di penetrazione psicologica. […] Si vede lontano nell’essere e la sua presenza tocca le vostre fibre più profonde. La rimessa in discussione, insisto, è anche lo sguardo del quadro su di voi.”

Frida Kahlo

Edward Hopper in mostra a Roma: l’enigma del quotidiano

Lo ammetto: Edward Hopper non era tra i pittori che conoscevo di più. Ma la mostra che da poco si è aperta a Roma su questo artista americano, mi ha dato l’occasione di rimediare alla mia mancanza, e di fare la conoscenza di uno stile pittorico davvero unico.

Autoritratto

La mostra è stata organizzata in sette sezioni, disposte secondo un ordine cronologico e tematico. Nella prima sala è possibile visitare il primo spazio interattivo della mostra: immersa una luce notturna, vi è la riproduzione scenografica di un quadro di Hopper, “Nighthawks del 1942. Lo spettatore può entrare nel bar raffigurato nel dipinto, e “camminare” quindi in un quadro dell’artista. (Davvero un peccato, però, che l’opera originale non sia esposta!)
Mentre in Europa ancora erano fresche le pennellate dell’impressionismo, e la rivoluzione di Picasso sconvolgeva il mondo dell’arte, Hopper rimane fermo nella sua poetica verista, alla quale resterà fedele per tutto l’arco della sua produzione, tanto da essere considerato il “padre del realismo americano”.
Nella prima sala sono esposti gli autoritratti, che ricoprono l’arco di almeno vent’anni. I primi quadri giocano sulle ombre, sui toni scuri, sull’ocra e sul bruno, accesi qua e là da punti di luce. Solo in un autoritratto più tardo, ritroviamo quei colori vibranti e freschi che caratterizzeranno la sua produzione più matura.
Hopper raggiunse il successo solo a quarant’anni. Fino a quel momento si guadagnò da vivere lavorando come illustratore. Pur non amando tale professione, l’influsso delle tecniche dell’illustrazione si evidenzieranno nelle sue opere pittoriche, dando ai suoi lavori quella pulizia, quella precisione e quella brillantezza che caratterizza lo stile di questo artista.
Dopo una breve occhiata al Hopper incisore, si passa a Parigi, dove il pittore ebbe occasione di soggiornare. Qui cominciamo a riconoscere la poetica propria di Hopper: palazzi, ponti e vedute, il tutto intagliato nel gioco luce-ombra, diventano il suoi soggetti prinicpali, tanto da fargli affermare: “Tutto ciò che ho sempre voluto è dipingere il sole sulla parete di una casa”.
Bella l’idea di far creare ai visitatori il “proprio bozzetto hopperiano”. Tre disegni di Hopper vengono proiettati su fogli di carta asportabili, e ciascuno può ricalcarli a matita, per sperimentare in prima persona il tratto grafico dell’artista. Altra idea, il taccuino “interattivo”: L’artist’s Ledger Book può essere sfogliato grazie a un touch-screen, così da poter curiosare fra gli appunti, gli schizzi, e le riflessioni dell’artista americano.

Morning sun

Con l’opera Stairway facciamo la conoscenza degli interni di Hopper, pittore del silenzio e dello straordinario che si cela nelle scene di vita comuni. Ciò è ancora più evidente in una delle sue opere più famose: Morning Sun, dove una donna, seduta su un letto, ha lo sguardo perduto verso la finestra, dalla quale entra una luce che inonda la parete. Accanto all’opera vengono esibiti i bozzetti preparatori, a mostrare la precisione quasi maniacale con la quale Hopper preparava ogni suo quadro. Nulla è lasciato al caso, ciascun colore è scelto accuratamente prima ancora che il pennello tocchi la tela. Questo, a mio parere, è ciò che rende i quadri di Hopper così puliti, ma anche, forse, così freddi e distaccati. Allo stesso tempo, però, da questa freddezza emerge una sensazione malinconica, che parla di solitudine e silenzio. Le immagini sono precise e realistiche, ma proprio per questo sfiorano il limite di una pittura dalla vaga atmosfera metafisica.
Altro soggetto amato dall’artista: la campagna americana, delineata ancora con grandi e sicure distese di colore, ma stavolta leggermente più sfuggente, come se l’immagine fosse stata vista da un treno in corsa.
Nella sala denominata “l’erotismo di Hopper” ritroviamo figure di donne in pose abbandonate, sdraiate su divani o su cuscini, oppure sedute ai piedi del letto. Ciò che affiora da queste opere è di nuovo il quotidiano. Queste donne non sono né muse né dee, alcune di loro, ritratte in un momento di riposo, paiono persino sciatte, quasi come se il pittore le avesse colte di sorpresa. Nessun lirismo, ma, di nuovo, l’immagine precisa ed essenziale trasforma il quotidiano in un attimo nel tempo pieno di mistero.

Second story sunlight

Tutto questo si può ritrovare nell’opera Second Story Sunlight, dove, di nuovo, un Hopper ormai anziano ci offre la visione di una casa su cui la zona fra luce e ombra è creata grazie ad un taglio netto, affilato come un coltello. Al balcone, una giovane donna ed un’anziana prendono il sole. Il piano è cinematografico (come in molti quadri di Hopper), e non è un caso che Hitchcock si sia ispirato a quest’opera per la casa di Psycho. Mi chiedo se persino Kubrick non si sia ispirato agli interni e alle geometrie di Hopper per alcune inquadrature di Shining!
A woman in the sun è l’ultima opera esposta. Di nuovo, il soggetto è una donna sola, un po’ sfatta, con una sigaretta in mano, inondata da un taglio di luce che delinea una macchia geometrica sul pavimento. Questa è l’ultima l’impronta malinconica eppure piena di luce e bellezza che la mostra lascia di sé. Una volta abbandonata, non si può non notare con più attenzione come la luce e l’ombra giochino sulla superficie delle cose attorno a noi, rendendo ogni angolo degno di essere dipinto.

Pennsylvania

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