Fermate la mattanza

Stanotte, a Napoli, è bruciata Città della Scienza. Trecentocinquantamila visitatori l’anno, museo interattivo, sede di mostre, eventi, dava lavoro a centosessanta persone. Edificata nell’area appartente all’ex-Italsider di Bagnoli, nata per riqualificare un’area nel napoletano martoriata da anni di industria pesante, inquinamento, sciacallaggio ambientale.

Città della Scienza era un simbolo, il simbolo di qualcosa di pulito, qualcosa che fosse lontano dalle logiche criminali che appestano questa città. Più di diecimila metri quadrati di capannoni adibiti a musei, laboratori interattivi, sedi di mostre e conferenze. Ne rimane in piedi soltanto il teatro.

Impossibile non vederci la mano criminale dietro questo atto, impossibile non pensare subito al dolo. Diversi punti di innesco dell’incendio, la scelta di farlo accadere di lunedì, quando il polo è chiuso. È un segnale che a qualcuno, evidentemente, desse fastidio. Napoli è una città difficile, lo si sente dire sempre; guerre di camorra che ormai non fanno più notizia, diventate ormai normalità, problemi di ordine pubblico, periferie presidiate dalle forze dell’ordine ventiquattr’ore su ventiquattro. E poi i problemi di rifiuti, una criminalità organizzata che si è insidiata talmente tanto nel fitto sistema sociale da esserne diventata parte fondante.

Rogo a Città della ScienzaMa Napoli non è solo questo; Napoli è una città che cerca sempre di reagire, di resistere, di andare avanti, anche di fronte all’ennesimo assassinio di un innocente, anche di fronte all’ennesima infinita guerra di camorra. E Città della Scienza era forse uno dei simboli di questa resistenza. Un qualcosa che desse speranza, una cosa “pulita”. Purtroppo, questa è la fine che fanno le cose “pulite”. Date alle fiamme, come un disastroso film hollywoodiano, per fare notizia, per mostrare a tutti cosa significa andare contro quei “qualcuno”, quelli che comandano, quelli che spariscono per un po’, ma poi compiono atti terribili per ricordare a tutti che ci sono ancora, che quei “qualcuno” sono lì. È il loro regno.

“Ricostruire, quanto prima.” Queste le prime dichiarazioni di queste ore da parte delle istituzioni (compreso il Presidente della Repubblica), mentre sui volti dei lavoratori rimane impressa quell’espressione di sgomento mista a tristezza. Tante le lacrime versate anche dai cittadini dell’area, e tante le lacrime versate da tutti i napoletani. Ci hanno tolto un simbolo di pulizia, ci hanno tolto una cosa buona, l’hanno data alle fiamme. Viene da rassegnarsi, da gettare la spugna.

httpv://youtu.be/NZwa4J5pI5g

Questa città ha bisogno di aiuto, di un aiuto concreto, ha bisogno di cambiare. Troppo spesso il cambiamento viene mascherato dalle grandi opere “pubblicitarie”, dai lungomari liberati, dalle piazze ripulite. Ma Napoli ha bisogno di una presenza istituzionale forte, ha bisogno di indagini insistenti e spietate contro le cosche, ancor di più di come già oggi le forze dell’ordine fanno. C’è tanto lavoro da fare, servono risorse, uomini. Ma soprattutto serve fiducia. Questa città ha bisogno di fiducia nel futuro, nella gente, nella possibilità di credere che un giorno possa diventare pulita. Ha bisogno di poter sperare che le sue cose “pulite” non vengano bruciate.

Non lasciate che Napoli diventi cenere. Fermate questa mattanza.

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Mafia interiore

Senti un boato, il rumore di uno sparo, le grida di qualcuno. Nell’aria percepisci una certa tensione, il macabro profumo della vendetta e della morte. Poi sfogli le pagine del giornale locale e apprendi che il vicino di casa è stato prima minacciato e poi ucciso per motivi economici, motivi ancora non del tutto chiari, motivi che tuttavia non ti giustificano nulla. Infine tornano a galla le storie ormai obsolete che i media tirano fuori dal cassetto quando è il momento giusto per creare maggior allarmismo, tornano sui giornali i nomi, i cognomi e i soprannomi di chi furtivamente fa del male a noi e allo Stato, tornano a singhiozzo le sensibilità collettive riguardo alla malavita, al degrado sociale, alle ingiustizie più nascoste, tornano le consapevolezze mai costanti e incrollabili. Scoppia uno scandalo e tutto il mondo ne parla, le voci dilagano fluidamente in cunicoli che portano l’opinione pubblica a essere una voce frenata e spezzata dalla prepotenza mediatica, che riesce a calmare il panico sociale e al contempo lo riesce ad aizzare.

Di rado sentiamo raccontare e ripetere alla radio o alla TV qualcosa che i media volontariamente vogliono sbiadire o ridimensionare, o qualcosa di cui tutti insieme ci vergogniamo perché all’estero ci fa fare brutta figura. Sarebbe scandaloso per il pubblico sapere che un tempo si usava gettare i bambini nell’acido, eppure lo si faceva, e forse lo si fa tuttora. Bimbi innocenti e immacolati, annientati perché il padreContinua a leggere…

Il concorso per la Procura dello Stato: sogno di una notte di metà ottobre

Stamattina mi sono svegliato con un gran mal di testa. Deve essere dovuto al fatto che questa notte ho fatto un sogno terribile, ve lo racconto. Ero uno dei ragazzi che hanno partecipato al concorso per Procuratore dello Stato, la cui prova selettiva si sarebbe dovuta svolgere lo scorso 12 giugno presso i locali dell’Ergife Palace Hotel di Roma. Il bando prevedeva l’assunzione di tre candidati per il ruolo di Procuratore dello Stato, le persone che si sono presentate erano novecentosettantacinque.

Ricordo che la procedura si è svolta con modalità assolutamente poco chiare, il che ha dato luogo al verificarsi di circostanze del tutto anomale per un concorso pubblico.Non sono stati effettuati i doverosi controlli volti alla verifica dell’eventuale possesso di dispositivi elettronici, cellulari, libri e appunti personali.

Non c’è stata neanche la consegna della consueta “doppia busta”. Mi spiego. Di solito vengono consegnate due buste a tutela della trasparenza e dell’anonimato dei compiti svolti, una più grande e anonima in cui inserire l’elaborato al termine della prova e una più piccola contenente un cartoncino da compilare con i propri dati anagrafici che, una volta chiusa, va inserita all’interno della busta più grande insieme all’elaborato stesso.
Nonostante poi all’atto della consegna dei codici non fosse stato consentito ai candidati di introdurre nella sede concorsuale alcun dizionario, in aula vi era una moltitudine di candidati che sfogliavano indisturbati romanzi, riviste e quotidiani.
Ma le anomalie più peculiari si sono verificate all’interno del padiglione.
Sono stati fatti alcuni annunci da parte della Commissione esaminatrice: ai candidati è stato richiesto in primo luogo di controllare sui propri banchi se fossero in possesso di codici altrui. Sono stati fatti i nomi di alcuni candidati che non avevano trovato i propri codici sui banchi, che sono stati invitati ad avvicinarsi.Continua a leggere…

Quella notte la morte aveva una divisa blu: storia di Federico Aldrovandi

“Chi non conosce la Verità è uno sciocco, ma chi conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente.”

B. Brecht

Da quando sono incappata, per puro caso, nella vicenda di Federico Aldrovandi la mia vita non è stata più la stessa. Frase retorica, in quanto la mia vita ha continuato a scorrere con gli stessi ritmi di sempre, ma con pensieri e rivolgimenti alla sua storia che non mi hanno permesso di essere più la stessa. Ciò è attribuibile a più fattori individuabili, quali la sua morte, la vicenda giudiziaria infinita e costellata di buchi neri, il coinvolgimento delle forze di polizia, fatti oggettivi che lascerebbero perplesso chiunque dotato di un minimo di senno e di buon senso. Che vita avrebbe potuto condurre ora Federico, a venticinque anni, non ci è dato di saperlo, perché a lui non è stato concesso di vivere, ma a noi sì, ed è quindi un dovere conoscere la sua storia e quantomeno riflettere su di essa.

Questa la premessa necessaria, nel racconto di una vicenda che provoca in me una passione e un’intensità pari forse solo a quella per le vicende del G8 della scuola Diaz, e che mi portano a parlare di un ragazzo ammazzato, che risulta a me caro senza aver avuto mai il piacere di poterlo conoscere.

Riscostruiamo i fatti. Il 25 settembre 2005 Federico Aldrovandi, dopo una notte passata con amici, si trova in viale Ippodromo a Ferrara. Le ricostruzioni riportano l’arrivo della volante “Alfa 3” con a bordo Enzo Pontani e Luca Pollastri, i quali descrivono Federico come “un invasato violento in evidente stato di agitazione”, come riportato durante il processo, a cui segue il rinforzo della volante “Alfa 2” con a bordo Paolo Forlani e Monica Segatto. Lo scontro tra i quattro poliziotti e il ragazzo risulta violentissimo, ne sono testimonianza due manganelli spezzati e le innumerevoli ecchimosi  che verranno individuate successivamente.

Alle ore 6.04 le pattuglie richiedono l’invio dell’ambulanza, a causa di un sopraggiunto malore. Federico infatti è stato ammanettato ed è immobile, sembra svenuto. Dopo numerosi tentativi di rianimazione, la morte verrà indicata per arresto cardio-respiratorio e trauma cranico-facciale.

La famiglia intanto? La tensione aumenta perché Federico non torna ancora a casa, le telefonate si succedono ma senza risposta. Pura casualità vuole che Nicola Solito, ispettore della DIGOS e amico della famiglia Aldrovandi, venga chiamato sul posto, e riconoscendo il figlio degli amici provveda ad avvisare la famiglia ancora ignara di tutto.

I sospetti della famiglia, sempre secondo la ricostruzione durante il processo, cominciano a sorgere dal riconoscimento del cadavere da parte dello zio di Federico, infermiere, che riscontra evidenti lesioni ed ecchimosi (sembra più di 54), evidentemente frutto di tutto fuorché di un malore accidentale.

A causa delle indagini lente e lacunose e della scarsa attenzione rivolta al caso, il 2 gennaio 2006 la famiglia di Federico apre un blog (federicoaldrovandi.blog.kataweb.it), chiedendo che venga fatta finalmente luce su questo triste caso.

Il 20 febbraio 2006 viene depositata la perizia disposta dal Pubblico Ministero, secondo cui “la morte risiede in una insufficienza miocardica contrattile acuta […] conseguente all’assunzione di eroina, ketamina e alcol”. Altra voce quella del medico legale dei periti della famiglia, il quale dall’esame autoptico parla di “anossia posturale” causata dal caricamento sulla schiena di uno o più poliziotti.

In realtà, l’assunzione delle sostanze sovra citate non erano in grado di causare alcun tipo di arresto respiratorio, l’alcol era addirittura al di sotto dei limiti fissati dal codice della strada, la ketamina inferiore alla dose letale, l’eroina era presente in minima quantità.

Il 6 aprile 2006 giunge l’avviso di garanzia ai quattro agenti, iscritti nel registro degli indagati per omicidio colposo. Una svolta nelle indagini arriva grazie ad Annie Marie Tsagueu, camerunense e residente in via Ippodromo, l’unica a riferire di aver visto due agenti picchiare il ragazzo e manganellarlo, oltre che grida di aiuto e conati di vomito.

Molte le incoerenze all’interno del caso, quali l’assenza del PM per un sopralluogo sulla scena del decesso, il mancato sequestro dei manganelli, il ritardo della consegna del nastro con la comunicazione fra il 113 e la pattuglia, tutti elementi che porteranno all’apertura di un’inchiesta da parte della Procura di Ferrara per falso, omissione e mancata trasmissione di atti.

Molte le perizie, le testimonianze, i riscontri su cui si è dibattuto in aula, in una lotta senza esclusione di colpi. Il 6 luglio 2009 arriva la sentenza, nella quale il giudice Francesco Maria Caruso del tribunale di Ferrara condanna per omicidio colposo a tre anni e sei mesi di reclusione i quattro poliziotti indagati, riconoscendo l’eccesso colposo nell’uso legittimo di armi. Grazie alla legge dell’indulto, i quattro condannati non sconteranno mai la pena. Il 21 giugno 2012, la Corte di Cassazione conferma la condanna.

In seguito alla sentenza, come ciliegina sulla torta Paolo Forlani consegna alla bacheca di Facebook riflessioni auliche rispetto alla madre di Federico: “Che faccia da c… aveva sul tg, una falsa e ipocrita, spero che i soldi che ha avuto ingiustamente (2 milioni di euro, risarciti dal ministero degli interni alla famiglia Aldrovandi, ndA)  possa non goderseli come vorrebbe, adesso non sto più zitto dico quello che penso e scarico la rabbia di sette anni di ingiustizie.”

La famiglia di Federico continua a lottare affinché gli agenti condannati vengano dismessi dai loro posti di lavoro (ci sembrerebbe un’ipotesi ovvia e invece purtroppo non lo è). Chi compie atti di tale violenza, ferocia, senza alcun senso della vergogna, del rispetto e meno che mai del senso di colpa, non può indossare una divisa. Il 25 settembre è capitato a Federico, domani potrebbe capitare a me, domani l’altro ai nostri figli, compagni e persone che amiamo; il controllore purtroppo non lo controlla quasi mai nessuno.

Questa comunque è una parte della storia di Federico Aldovrandi, la parte che racconta della sua morte e dell’iter giudiziario che la famiglia ha dovuto intraprendere per scoprire la verità e cercare la giustizia.

L’altra parte, per fortuna, non ci apparterrà mai, ed è quella legata ai ricordi di un bambino bellissimo, divenuto un giovane uomo, dei natali passati in famiglia, delle feste, delle serate passate con gli amici, dei progetti di una vita, dei sogni e delle tante speranze coltivate, speranze di giustizia che la famiglia di Federico continua a portare avanti con forza instancabile, forse la forza di chi aveva ancora tanto, troppo amore da dare.

Una carezza, Federico, una carezza e un pensiero a ogni figlio, a ogni genitore, con la speranza che la vita riservi loro il meglio, ma soprattutto tanto amore, insieme.
Lino Aldrovandi

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L'incubo del passato, la paura per il futuro

Per tutta la giornata di sabato si è vissuto un incubo. Venti anni dopo l’orribile ’92, l’ipotesi di un ritorno dell’epoca delle stragi di mafia ha fatto tremare chi ancora non si è arreso all’idea di uno Stato in balia o peggio, complice, della criminalità organizzata.

Per fortuna, paradossalmente, pare che l’esplosione alla scuola di Brindisi sia un attentato terroristico. È assurdo, ma la cosa ha relativamente tranquillizzato tutti. Cinicamente, la graduatoria dell’orrore trova forse una sua logica. Senza intaccare il rispetto per tutte le vittime degli anni di piombo, l’ultima cosa che ci si potrebbe augurare è una matrice mafiosa. La possibilità che dietro quella che poteva essere una tremenda carneficina ci siano le organizzazioni terroristiche “classiche” sembra per il momento accantonata, soprattutto per via dell’assenza di rivendicazioni.

Sembra tuttavia improbabile che una singola mente malata abbia concepito e realizzato il tutto. Si fanno sempre più numerose le voci che ipotizzano un coinvolgimento di più persone. Sarebbe imprudente e inutile lanciarsi alla rincorsa di questa o quella possibilità. Quando le indagini avranno fornito più dettagli, sarà il momento di cominciare a valutare le conseguenze. Ancora peggiore sarebbe adeguarsi ai modi del peggior giornalismo e rotolarsi nel fango del dolore della famiglia della studentessa uccisa.

Per il momento, si può solo riflettere sul clima sociale e politico che in Italia si fa sempre più cupo. La latitanza della politica – quella vera, seria – non determina il vuoto ma il caos. Non serve una particolare intelligenza politica per tracciare un triste parallelo fra l’Italia dell’inizio degli anni ’90 e quella attuale. Sperimentiamo una crisi economica asfissiante che rischia di precipitare verso abissi ancora peggiori; la fiducia del paese nei confronti della classe dirigente, annegata nella corruzione e nel malaffare, ha raggiunto livelli da lancio di monetine. Tuttavia, non si vive mai due volte la stessa epoca. Anche quando la ruota sembra compiere un giro completo, ci si trova comunque sempre su un nuovo piano. E quando in venti anni non si sono compiuti passi in avanti, si è inesorabilmente tornati indietro.

Cas(t)a Pound

“È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”

                                                                                                                             (Costituzione Italiana, disposizioni finali XII)

Parlare di Casa Pound non è proprio un compito semplice. Associazione fortemente dibattuta, Casa Pound è stata protagonista delle cronache recenti in seguito all’omicidio di Samb Modou e Diop Mor da parte del simpatizzante Gianluca Casseri, e per la gambizzazione di Francesco Bianco, ex militante dei Nar.

Parlare di Casa Pound non è un compito semplice in quanto ci esprimiamo su un’associazione che sta acquistando un forte potere in Italia, soprattutto negli ultimi anni (3.500 iscritti al 2011, si legge dal sito), e soprattutto perché parliamo di una associazione di chiara ispirazione fascista, il che imbarazza a prescindere, visto i trascorsi del nostro Paese.

Ma cos’è Casa Pound e a cosa deve il suo successo? Dal sito ufficiale leggiamo che Casa Pound è un’associazione regolarmente costituita e riconosciuta, e la burocrazia finisce lì, per lasciare il posto all’azione e al volontariato.

Casa Pound nasce a Roma nel dicembre del 2003 con l’occupazione di uno stabile nel quartiere romano Esquilino da parte di alcuni giovani provenienti dall’esperienza precedente di Casa Montag. Il nome prende ispirazione da Ezra Pound, poeta statunitense aderente alla Repubblica Sociale Italiana, cosa che ha portato la figlia del suddetto a sporgere una bella denuncia a Casa Pound definendola “associazione compromessa”, quindi non degna di portare il nome del padre, che proprio uno stinco di santo non era.

Per Casa Pound il compito maggiore, a mio dire, è stato quello di restituire un’immagine del fascismo presentabile, a cui poter aderire alla luce del sole, storia che la destra attuale ha cercato di nascondere come la cenere sotto al tappeto, e che ha indispettito molti simpatizzanti e nostalgici del tempo che fu.

In effetti Casa Pound propone moltissime attività, che spaziano dai momenti culturali, con incontri di dibattito tra i diversi partiti, passando per musica con la creazione degli Zetazeroalfa – gruppo cult per l’associazione – attività teatrali, web tv, riviste, fino ad arrivare al punto forte, ovvero le attività nel sociale. Tra di esse ricordiamo la proposta del Mutuo Sociale, progetto politico che si interroga sull’emergenza abitativa in Italia; “Tempo di essere madri”, proposta per affrontare il tema delle madri lavoratrici, e non meno importante “Blocco studentesco”, movimento di organizzazione e mobilitazione studentesca.

Uno dei punti forti di questa associazione è rappresentato dalle numerose conferenze e iniziative che coinvolgono le nostre città, e che vengono promossi il più delle volte senza rispettare le disposizioni sulle affissioni pubbliche, il cosiddetto “attacchinaggio”. Casa Pound, un giorno sì e l’altro pure, organizza dibattiti sugli argomenti dell’attualità, come l’acqua pubblica e il nucleare, per essere “sempre sul pezzo”.

Ma la vera frontiera avanguardista riguarda gli incontri sulle personalità di spicco della nostra storia, da Craxi (e qui ci possiamo pure arrivare concettualmente) alle denunce sociali nascoste (nemmeno troppo) nei temi di Rino Gaetano, che però si è sempre dichiarato apartitico; a Peppino Impastato, fino ad arrivare alla ciliegina sulla torta: la conferenza su Ernesto “Che” Guevara al grido di “aprendimos a quererte”, ovvero “abbiamo imparato ad amarti”.

Ora, a parte non sapere, causa mancanza dell’interessato, se anche Che Guevara ha imparato ad amare loro, devo dire che Casa Pound assume in sé la capacità davvero invidiabile di richiamare, affascinare e coinvolgere tantissimi giovani a una passione e una concretezza politica che non riescono di certo a trovare nel “siamo mica qui a drizzare banane col martello” di Bersani, o nel (non?) più compianto “mi consenta” del Cavaliere.

Ma cos’è davvero Casa Pound? È l’associazione de “La Salamandra”, primo nucleo di protezione civile a favore dei più deboli, o il gruppo che si muove al grido di “nel dubbio mena” degli Zerozetaalfa? È l’associazione che promuove la legalità nel ricordo di Falcone e Borsellino o il gruppo il quale fondatore e presidente, Gianluca Iannone, è stato condannato a 4 anni per aggressione a un carabiniere per una rissa del 2004 (come riportato ne “Il resto del Carlino”)? È l’associazione di Gr.i.me.s – l’equipe di medici e infermieri nata per difendere i cittadini dalle falde del sistema sanitario – oppure quella contro cui si stanno scagliando Idv e Pd per toglierle la possibilità di ricevere finanziamenti dal 5×1000?

Domande a cui ciascuno di noi è libero di rispondere, ma che sicuramente non prevedono mezze misure, linee di confine, accoglienza e mediazione, come in molti cercano di fare per dare un bel colpo al cerchio e uno alla botte. Casa Pound o si odia o si ama, a noi la scelta.

Parlare di Casa Pound non è un compito semplice perché se parliamo di “fasc…” e non stiamo nominando un fascio di fiori, evidentemente c’è qualcosa che non va; perché stiamo parlando di una realtà la cui fonte di ispirazione in Italia è considerata (speriamo ancora per molto) un reato, e se lo è un motivo ci sarà; ma soprattutto è un compito non solo difficile, ma anche imbarazzante, pensare che possa esistere (dentro e fuori Casa Pound) qualcuno che identifica ancora il fascismo con onore e fedeltà.

Cronache di ordinario razzismo

Nel giro di pochi giorni, due fatti di cronaca hanno tristemente meritato gli onori delle prime pagine dei giornali. Con buona pace degli amanti dei plastici, in nessuno dei due casi c’è di mezzo un omicidio di una ragazza in una villetta. Forse proprio per questo, a entrambe le notizie, è concesso di risuonare nelle TV per non più di qualche volta, per poi addentrarsi nell’oblio. Stiamo parlando di quanto accaduto sabato a Torino e martedì a Firenze. Torino e Firenze, due fiori all’occhiello dell’Italia civile e colta. Evidentemente non immuni alla xenofobia e all’odio razziale. È bene fermarsi a riflettere su quanto accaduto senza trincerarsi dietro la generica definizione di “folle tragedia”.

Di razzismo se ne parla sempre troppo poco, specialmente in proporzione alla diffusione di questa piaga nella società. Fanno notizia per qualche ora i fischi rivolti negli stadi ai giocatori neri, ma in fin dei conti, deandreanamente (mi si passi il termine), ci si costerna, ci si indigna, ci si impegna e poi si getta la spugna, prima di tutto quella mediatica. È difficile, fa paura, ma è palese che del razzismo siamo tutti impregnati. Intere generazioni sono cresciute con l’incubo degli zingari che rubano i bambini, degli albanesi che rubano il portafoglio, dei marocchini che spacciano e degli extracomunitari che aggrediscono le donne la sera. Un discorso a parte meriterebbe l’analisi dell’utilizzo del termine “extracomunitari”, che dall’ambito squisitamente geopolitico ed economico è diventato un gradino di un’orribile scala di rispettabilità delle persone, non di rado uno degli ultimi. Sono interessanti  le dichiarazioni di Sandra (nome fittizio), la ragazza di Torino che ha inventato la balla dello stupro subito da parte dei rom. In un’intervista a Repubblica, ecco cosa risponde alla domanda sul perché abbia scelto proprio i rom del campo vicino a casa sua come finti aggressori: “Ho sbagliato. Ma il mio non è razzismo. Chiedete a chiunque in quartiere, quasi tutti hanno avuto un furto in casa. È normale che la gente sia esasperata, anche se non si può giustificare quello che è successo alle baracche dei rom, dove c´erano donne e bambini. Quando sono uscita dal garage (il luogo dove Sandra aveva passato il pomeriggio di giovedì insieme al fidanzato, di tre anni più grande, ndr) e ho incontrato mio fratello c´erano due ragazzi del campo in lontananza che scappavano. Io li ho visti, anche lui li ha visti, una parte della mia bugia è nata così”. L’equazione “straniero = delinquente” è scolpita nella mente. Nessuno intende giustificare o chiudere un occhio sui furti -se e quando commessi- ma se quello di Sandra non è razzismo, allora ci spieghi cos’è. Vogliamo chiamarlo “vendetta etnica”? Se non è zuppa è pan bagnato. Non si tratta di puntare l’indice contro di lei, che si spera possa almeno imparare qualcosa dalla vicenda. Tuttavia, è impressionante la facilità con cui la scintilla dell’odio si sia propagata, dalla mente di Sandra, alle torce della fiaccolata di protesta di sabato sera, per finire nel rogo del campo rom per opera degli immancabili criminali.

Diverso nei modi, ma della stessa natura, il caso di Firenze. Qui, in circostanze tragicamente più semplici, un pazzo ha deciso di sparare a vista ai senegalesi, iniziando in periferia per finire nel cuore del centro storico, prima di suicidarsi vistosi assediato dalla polizia. Il fatto che il folle criminale fosse un dichiarato neofascista, simpatizzante di Casa Pound, non restringe in alcun modo la gravità della vicenda e la cerchia di responsabilità morale. Fin troppo semplice ripararsi dietro il paravento dell’estremismo di Casseri, questo il nome dell’omicida-suicida. Piuttosto, è d’obbligo domandarsi come e perché certe indoli certamente non ordinarie possano condurre a comportamenti tali. È perfino superfluo sottolineare come il razzismo e la xenofobia abbiano trovato sempre più spazio negli ultimi anni nelle discussioni politiche, da quelle in Transatlantico a quelle al bar. Quando si arriva a proporre di sparare ai barconi, di riservare alcune carrozze della metropolitana agli stranieri, di istituire ronde di quartiere (proposta, questa, malauguratamente realizzata), in breve, di perseguire i più biechi istinti di discriminazione e intolleranza, senza che si registrino reazioni diverse dall’indignazione e dalla costernazione di cui sopra, è automatico che l’asticella della civiltà si muova verso il basso. La responsabilità materiale della morte dei senegalesi di Firenze, dell’incendio del campo nomadi di Torino, dei fischi allo stadio verso i giocatori neri, non grava certamente sulle spalle della Lega. D’altro canto, il movimento politico di Umberto Bossi & Co. è servito da apripista e cassa di amplificazione per il generale sdoganamento dell’intolleranza etnica e razziale. Troppe volte idee barbare e malsane sono state archiviate come folklore e frettolosamente accantonate nel mucchio delle fesserie senza conseguenze. La stessa sorte che probabilmente toccherà agli abietti commenti che fioccano sui forum di estrema destra in riferimento agli omicidi di Firenze. Magari qualcuno di questi animali finirà anche davanti al giudice, ma nella coscienza dell’opinione pubblica “questi sono fascisti, è un caso isolato”. Finita lì.

La goccia scava la roccia e oggi ci troviamo di fronte a una voragine di ignoranza che mina la civiltà e la modernità della nostra società. Per questo motivo, prima che i riflettori si spengano e i commenti si esauriscano, vale la pena chiedere: l’Italia si scopre razzista, o lo ha sempre saputo?

P.S.: Il titolo di questo articolo richiama volontariamente il nome di un sito di cui è caldamente consigliata la visita. Se la costruzione di una cultura di accoglienza trovasse la stessa rilevanza mediatica della bestialità, probabilmente non ci sarebbe bisogno di scrivere pagine come questa.

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L’acqua di Fukushima, tra radioattività e patriottismo

Ho appreso da giornali e televisioni che qualche giorno fa un parlamentare e membro del governo giapponese ha bevuto un bicchiere d’acqua preso da una vasca radioattiva situata all’interno dell’edificio che ospita l’ormai famosissimo reattore di Fukushima. Come tutti sanno, mi riferisco all’impianto che subì gravissime conseguenze dopo il terremoto della scorsa primavera e che per settimane ha monopolizzato l’attenzione della popolazione mondiale, facendola riflettere su un tema di interesse globale come, per l’appunto, l’utilizzo del nucleare. Anche noi, al tempo, avevamo approfondito l’argomento con degli articoli molto curati che cercavano di dare non solo un’interpretazione, ma anche una descrizione scientifica dell’accaduto. Ecco i link dei nostri precedenti articoli sull’argomento:

Nubi sul sol levante di Dario Ganci.
Fukushima febbre nucleare di Steppenwolf.

Yasuhiro Sonoda, questo è il nome del parlamentare, al fine di dimostrare l’efficacia del sistema di decontaminazione dell’impianto di Fukushima ha ingerito davanti a un mare di giornalisti sbalorditi, e con un neanche tanto velato nervosismo, un bicchiere d’acqua presa proprio da quel reattore tacciato di essere fortemente inquinato da scorie radioattive. La scena, a mio parere, è stata connotata da un mix di drammaticità e comicità. Da una parte, il pubblico rideva perché non credeva a quanto stesse accadendo dubitando della veridicità della dimostrazione, dall’altra, il gesto di Sonoda è stato visto come un tragico atto di estremo patriottismo, in termini di difesa dell’attività di governo. Per fare un paragone con la nostra Italia, a mero titolo esemplificativo, immaginiamoci Berlusconi che, per dimostrare la funzionalità delle nostre discariche, si abbevera dalle falde acquifere napoletane sulle quali abbiamo visto scorrere violentemente e incessantemente, durante l’alluvione di questi giorni, un mare informe di rifiuti dall’aspetto di certo non rassicurante.

Tornando al nostro parlamentare giapponese c’è da dire che, non a caso, le telecamere di tutto il mondo si sono soffermate sul suo volto, visibilmente nervoso, quasi terrorizzato e improvvisamente preso dal panico, mentre l’uomo esaudiva la richiesta di un’imminente dimostrazione dell’efficacia dell’impianto di decontaminazione. Le sue mani tremanti hanno fatto il giro del mondo e sinceramente ho provato una stretta allo stomaco nell’osservare quel gesto estremo. Ci vedo ben poco di patriottico, però, in un tentativo di rassicurare la popolazione attraverso un’azione tanto estrema quanto insignificante. Un dato di fatto è che la conferenza stampa del membro del governo Sonoda (ancora più assurdo sarebbe stato il medesimo gesto fatto da un parlamentare dell’opposizione) si è conclusa con le seguenti parole per nulla rassicuranti: “Il semplice fatto di bere quest’acqua non significa che la sicurezza sia confermata. Ne sono consapevole. Il modo migliore è fornire dei dati al pubblico”. Purtroppo nessuno ha presentato questi dati scientifici dalla funzione rasserenante all’opinione pubblica e dubito che qualcuno sia in grado, ad oggi, di confermare la non contaminazione di quell’acqua. Speriamo soltanto che a farne le spese non sia la popolazione mondiale (cosa che reputo assai utopica) e, dopo quanto accaduto, in prima persona il patriottico parlamentare giapponese, al quale questo gesto spero sia valso per lo meno una medaglia al merito.

Probabilmente il mondo intero avrebbe preferito qualche dato scientifico in più da parte del governo giapponese, anche a costo di un po’ di spettacolarità in meno, soprattutto considerando che per quanto io possa credere che quell’acqua non sia contaminata, il che mi sembra assai strano, faccio una grande fatica ad immaginarmela oltretutto anche “potabile”. Ci viene poi assicurato che l’acqua era stata precedentemente decontaminata da ogni traccia di iodio radioattivo e di cesio 134 e 137 e allora la domanda è un’altra: se l’acqua bevuta dal parlamentare è stata ulteriormente decontaminata, oltre alla decontaminazione che viene effettuata dagli appositi macchinari situati nel reattore, non è questo sufficiente a dimostrare che non si tratta della stessa acqua che si trova nella celebre vasca che ospita il reattore di Fukushima? A voi la risposta, io credo di poter tirare un sospiro di sollievo, non certo per la salute della popolazione mondiale, ma soltanto per quella del “patriottico” Sonoda.

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La morte di Meredith “oltre ogni ragionevole dubbio”

Non bisogna essere esperti di diritto per capire come tra una sentenza di condanna all’ergastolo ed un’ assoluzione vi sia una differenza abissale, soprattutto in termini di privazione della libertà personale per il soggetto nei cui confronti la decisione è rivolta. In realtà, tra una sentenza di condanna ed una sentenza di proscioglimento spesso ci passa davvero poco. Nel nostro sistema giudiziario penale, affinché possa essere emessa una sentenza di condanna nei confronti di un imputato, è necessario che il giudice sia convinto della sua colpevolezza “oltre ogni ragionevole dubbio”. Ciò significa che, ogni qual volta si trovi anche soltanto con il barlume del cruccio circa la responsabilità del soggetto sottoposto a processo penale, il giudice deve essere straconvinto, se non addirittura certo, della verità processuale sulla quale si trova a giudicare. E’ un po’ questo il succo del processo di secondo grado conclusosi il primo ottobre a carico di Amanda Knox e Raffaele Sollecito, imputati per la morte di Meredith Kercher.  Credo, infatti, che proprio il “ragionevole dubbio” sia nascosto dietro quella che in realtà è stata una vera e propria assoluzione con formula piena. I due imputati sono stati assolti con quella che in gergo è definita una “formula ampia” di assoluzione. Non voglio addentrarmi nel merito della decisione della Corte d’Assise d’Appello di Perugia perché, non avendo tra le mani gli atti del processo, non me la sentirei di dare un giudizio tecnico che risulterebbe approssimativo che mi condurrebbe a trarre conclusioni sommarie.  Vorrei, però, spiegare le tipologie di sentenze che possono essere emesse da un giudice penale in primo e secondo grado. Per la Cassazione, invece, il discorso è diverso essendo espressamente previste dalla legge le motivazioni che possono condurre ad un eventuale ricorso in Cassazione, motivazioni che non possono essere inerenti al “fatto”, ma devono necessariamente concernere questioni di “diritto”, quindi errori procedurali, di valutazione, di applicazione della legge, oppure carenze o vizi relativi alla motivazione della sentenza.

Le sentenze possono essere divise in due grandi gruppi: condanna e proscioglimento. La condanna è una sentenza che viene pronunciata qualora dalle carte processuali emerga oltre ogni ragionevole dubbio, come detto, la colpevolezza dell’imputato. Occorre cioè accertare che l’imputato abbia commesso il fatto, che, a seconda del tipo di reato, lo abbia commesso con dolo o colpa, che non vi siano cause diverse dalla condotta dell’imputato che abbiano determinato il verificarsi dell’evento e che non vi siano cause particolari od ulteriori tali da escludere, in qualunque altro modo, la sua responsabilità penale. Diversamente, le sentenze di proscioglimento si dividono in sentenze di due tipi: assoluzione e proscioglimento. Il proscioglimento, o per meglio dire il “non luogo a procedere”, indica il caso in cui il processo non può proseguire per motivazioni processuali. Ciò significa che il giudice non può spingersi sino ad accertare nel merito i fatti oggetto del processo ma deve, al ricorrere di una causa di estinzione del processo, dichiarare estinto il procedimento. Ad esempio tale circostanza si verifica in caso di intervenuta prescrizione del reato, di morte dell’imputato, amnistia, ed altre cause specificatamente previste dalla legge. In tutte queste ipotesi non potrà mai parlarsi di assoluzione proprio perché il giudice non avrà potuto accertare i fatti e non potrà parlarsi di “innocenza”. Non a caso tali sentenze vengono definite di proscioglimento “nel rito”.

Veniamo al secondo gruppo di sentenze, quelle di proscioglimento “nel merito”. L’innocenza dell’imputato è riconducibile esclusivamente a tale tipologia di provvedimenti. Le sentenze di assoluzione possono avere diverse “formule”: “Il fatto non sussite”, “il fatto non costituisce reato”, “il fatto non è previsto dalla legge come reato”, “l’imputato non lo ha commesso”, “l’imputato non è punibile o non è imputabile”. Tale decisione deve risultare il frutto di un’attenta e approfondita analisi dei fatti eseguita dal giudice il quale, alla luce dell’esito dell’istruttoria dibattimentale (luogo in cui avviene la formazione della prova), reputi l’imputato innocente. Ognuna di tali formule assolutorie ha un significato ben preciso. Amanda Knox e Raffaele Sollecito sono stati assolti con la formula “il fatto non sussiste”. In tale formula rientrano tutti i casi in cui dal processo emerge che manchino elementi per ritenere che quella specifica condotta sia stata tenuta dall’imputato. Ciò significa che non è stata provata la responsabilità penale in riferimento al fatto a loro contestato. I giudici della Corte d’Assise d’Appello hanno ritenuto che il comportamento dei due non abbia potuto determinare l’evento, cioè la morte di Meredith. Al contrario delle sentenze di condanna, per le sentenze di assoluzione non esiste il limite del ragionevole dubbio, proprio perchè in caso di dubbio il giudice è sempre tenuto ad assolvere l’imputato. Ciò non toglie che su alcune sentenze, come quella in commento, si possa rimanere un po’ incerti, un po’ perplessi o, per meglio dire, con un “ragionevole dubbio”.

Volo Bologna-Palermo: andata senza ritorno

Venerdì 27 giugno 1980, l’aereo di linea Douglas DC-9 della compagnia aerea Itavia si disperde nella tratta tra Ponza ed Ustica.

Ora diamo i numeri… Sono le ore 22.00 quando un Breguent Atlantic dell’Aeronautica rinviene i primi relitti e cadaveri. 81 morti (anche se si recupereranno soltanto 38 corpi): 77 i passeggeri, 4 i membri dell’equipaggio, 13 i bambini a bordo. Infine 31 sono gli anni in cui i familiari delle vittime attendono la verità su una delle vicende più torbide cha hanno coinvolto il nostro bel Paese.

Il volo IH870 decolla dall’aereoporto di Bologna alle ore 20.08, con due ore di ritardo, diretto a Palermo. Il volo prosegue normalmente, fino alle ore 20.58, orario dell’ultimo contatto con la torre di controllo di Roma, a cui fanno seguito prima i numerosi silenzi, poi le prime ricerche a cura del Soccorso Aereo di Martina Franca, infine al rinvenimento dei rottami prima, di alcuni cadaveri poi. Pochi i fatti certi, molti i dubbi e le incertezze, infiniti i silenzi e i tentativi di depistaggio su cui si è cercato di fare luce negli ultimi anni, ma che lasceranno sempre zone d’ombra troppo vaste.

Sono stati aperti procedimenti dalle procure di Roma, Bologna e Palermo, con la magistratura e Rino Formica, allora ministro dei Trasporti, il quale ha nominato una commissione d’inchiesta diretta dal dottor Luigi Luzzati. Quest’ultimo si è dimesso dalla suddetta nel 1982 a causa di contrasti con la magistratura. La prima ipotesi, quella di un cedimento strutturale dovuto alla cattiva manuntenzione, proposta nella prima requisitoria della Procura di Roma, viene abbandonata per il rinvenimento sul veicolo, che avverrà per il 96% soltanto nel 1991, di TNT e T4, esplosivi presenti generalmente nelle miscele di ordigni militari, e che porterà l’allora Ministro per le Relazioni con il Parlamento, Carlo Giovanardi, a sostenere fortemente questa ipotesi, ancora sostenuta a 30 anni di distanza, come evidenziato da un’intervista su Repubblica.

Nel 1989 la Commissione Stragi, istituita dal Senatore Libero Gualtieri, decide di inserire tra le proprie competenze anche l’incidente di Ustica, che da allora viene denominato appunto strage.

I lavori, seguitati per ben undici anni, hanno coinvolto i governi e le autorità militari per i numerosi tentativi di inquinare le prove in possesso. Dopo cinque mesi di analisi, la ricostruzione n° 266/90 prevedeva la certezza di un abbattimento causato da un missile, ipotesi negata dall’allora onorevole Francesco Cossiga, che magicamente ha ripreso la sua capacità critica anni dopo. Aldo Davanzali, presidente dell’allora Itavia, reo di aver avallato la tesi dell’abbattimento il 17 dicembre 1980, viene proprio per questo indiziato per il reato di diffusione atte a turbare l’ordine pubblico.

Come se non bastasse, come in un romanzo giallo, si aggiungono inquietanti particolari, che contribuiscono ad infittire la trama e mantenere lo spettatore sul filo del rasoio.
Il primo riguarda il registo del radar della stazione di Marsala, in cui viene individuata una pagina strappata in maniera molto accurata, tanto da sfuggire anche all’avvocato difensore, guarda caso proprio relativa al giorno della strage, e riscritta successivamente in una nuova versione; le casuali scomparse hanno riguardato anche il radar di Licola, di tipo fonetico-manuale, di cui non è stato mai ritrovato il modello originale, come indagato nella seduta delle audizioni dei periti radar. A tal proposito nel 1989, il giudice Bucarelli ha rinviato a giudizio 23 militari in servizio il giorno della tragedia.

Episodio altrettanto inquietante, quello della telefonata nel 1988 alla trasmissione “Telefono Giallo” condotto da Corrado Augias, in cui un anonimo, un aviere in servizio la sera della strage, dichiara di aver visto “tutto”, ma di essere stato invitato a tacere. Il tutto di cui parlava è stato poi riportato dal giornalista Nino Tilotta nell’articolo “Battaglia aerea e poi la tragedia”, nel quale ha descritto uno scontro aereo avvenuto tra due caccia, un F-14 Tomcat della US Navy e un MiG-23 libico.

A ben seguire la documentazione c’è da dire che il traffico delle nostre caotiche città è niente se paragonato a quello aereo descritto in quel periodo; infatti troviamo, grazie ai telex giunti nel 2003 grazie al Freedom Information Act, l’utilizzo della zona del Tirreno per le esercitazioni NATO, quelle degli aerei militari statunitensi, e infine le infiltrazioni accertate degli aerei militari libici, che si dirigevano in Jugoslavia per la manutenzione, come riscontrato dal ritrovamento di un MIG-23 libico precipitato sui monti della Sila. Il governo italiano dipendeva fortemente dalla Libia in quel periodo, soprattutto a livello economico, tanto da tollerare attraversamenti, addirittura mimetizzati nella rete radar in coda ad aerei civili, per evitare controlli da parte della NATO. Soltanto nella sera dell’incidente, in un range che va dalle 20.00 alle 24.00, viaggiavano più di 7 aerei militari non appartenenti all’Aeronautica Italiana. L’autostrada Salerno-Reggio Calabria dei cieli, insomma.

La prima istruttoria si conclude con l’impossibilità a procedere poichè ignoti risultano gli autori del reato. Da qui seguono numerosi processi a partire dal 28 settembre 2000, che prevedono tutte le assoluzioni “per non aver commesso il fatto” (sentenza primo grado 30 aprile 2004, secondo grado 15 dicembre 2005), due condanne ai generali Lamberto Bertolucci e Franco Ferri, cadute poi in prescrizione il 30 aprile 2004 perchè passati 15 anni. Le sentenze sono confermate successivamente in Corte di Cassazione il 10 gennaio 2007.

A conclusione di questo intrigo, ecco le dichiarazione del 24 gennaio 2010, in cui la buon’anima dell’Ex Presidente Emerito della Repubblica Francesco Cossiga ha dichiarato che un aereo francese, posizionato sotto quello italiano, ha erroneamente sganciato un missile, nel tentativo di colpire un velivolo libico. A seguito di questa “tempestiva” informazione la Procura della Repubblica ha aperto una nuova inchiesta tutt’ora in corso.

Notizia di pochi giorni fa, la terza sezione civile di Palermo ha condannato per omissioni e negligenze i Ministeri della Difesa e dei Trasporti (lo stesso Ministero incaricato per primo di occuparsi delle indagini, una garanzia insomma), le quali pagheranno una somma record di 100 milioni di euro alle famiglie delle vittime.

Molto ha operato l’Associazione parenti della strage di Ustica, presieduta dalla senatrice Daria Bonfietti, componente della Commissione Stragi e sorella di una delle vittime. Se oggi siamo ancora qui a parlare di Ustica non è solo per commemorarne l’anniversario o navigare nel torbido delle vicende ad essa legata, ma è soprattutto perchè grazie alle loro continue iniziative riusciamo a sentire il dolore di una ferita che anni dopo riesce ancora a bruciare, infettata da una verità ancora troppo tarda a venire.

E cosa resta alla fine di questa storia oltre che l’amaro in bocca? Rimangono loro, le vittime.

* Cinzia Andres
* Luigi Andres
* Francesco Baiamonte
* Paola Bonati
* Alberto Bonfietti
* Alberto Bosco
* Maria Vincenza Calderone
* Giuseppe Cammarota
* Arnaldo Campanini
* Antonio Candia
* Antonella Cappellini
* Giovanni Cerami
* Maria Grazia Croce
* Francesca D’Alfonso
* Salvatore D’Alfonso
* Sebastiano D’Alfonso
* Michele Davì
* Giuseppe Calogero De Ciccio
* Secondo assistente di volo Rosa De Dominicis
* Elvira De Lisi
* Francesco Di Natale
* Antonella Diodato, 7 anni
* Giuseppe Diodato, 1 anno
* Vincenzo Diodato, 10 anni
* Giacomo Filippi
* Primo ufficiale Enzo Fontana
* Vito Fontana
* Carmela Fullone
* Rosario Fullone
* Vito Gallo
* Comandante Domenico Gatti
* Guelfo Gherardi, 59 anni
* Antonino Greco
* Berta Gruber
* Andrea Guarano
* Vincenzo Guardi
* Giacomo Guerino, 9 anni
* Graziella Guerra
* Rita Guzzo
* Giuseppe Lachina
* Gaetano La Rocca
* Paolo Licata
* Maria Rosaria Liotta
* Francesca Lupo, 17 anni
* Giovanna Lupo, 32 anni
* Giuseppe Manitta
* Claudio Marchese
* Daniela Marfisi
* Tiziana Marfisi
* Erica Mazzel
* Rita Mazzel
* Maria Assunta Mignani
* Annino Molteni
* Primo assistente di volo Paolo Morici
* Guglielmo Norritto
* Lorenzo Ongari
* Paola Papi
* Alessandra Parisi
* Carlo Parrinello
* Francesca Parrinello
* Anna Paola Pelliccioni
* Antonella Pinocchio
* Giovanni Pinocchio
* Gaetano Prestileo
* Andrea Reina
* Giulia Reina
* Costanzo Ronchini
* Marianna Siracusa
* Maria Elena Speciale
* Giuliana Superchi, 11 anni
* Antonio Torres
* Giulia Maria Concetta Tripiciano
* Pierpaolo Ugolini
* Daniela Valentini
* Giuseppe Valenza
* Massimo Venturi
* Marco Volanti
* Maria Volpe
* Alessandro Zanetti
* Emanuele Zanetti
* Nicola Zanetti

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