La vera crisi dell'avvocatura



Libero professionista
: colui che svolge un’attività economica, a favore di terzi, volta alla prestazione di servizi mediante lavoro intellettuale. L’etimologia  deriva da “professare” cioè essere fedele a degli statuti ordinistici o regolamentanti una attività, mentre il termine freelance deriva dal termine medievale britannico usato per un mercenario (free-lance ovvero lancia-indipendente o lancia-libera), cioè, un soldato appunto professionista che non serviva un signore specifico, ma i suoi servigi potevano essere al servizio di chiunque lo pagasse.

Avvocato: dal latino advocatus, sostantivo derivante dal participio passato del verbo advoco = ad-vocatum = chiamato a me, vale a dire “chiamato per difendermi”, cioè “difensore”. Libero professionista che svolge attività di assistenza e consulenza giuridica e/o legale a favore di una parte.

Lavoro subordinato: informalmente detto lavoro dipendente, indica un rapporto nel quale il lavoratore cede il proprio lavoro (tempo ed energie) ad un datore di lavoro in modo continuativo, in cambio di una retribuzione monetaria, di garanzie di continuità e di una parziale copertura previdenziale.Continua a leggere…

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Il concorso per la Procura dello Stato: sogno di una notte di metà ottobre

Stamattina mi sono svegliato con un gran mal di testa. Deve essere dovuto al fatto che questa notte ho fatto un sogno terribile, ve lo racconto. Ero uno dei ragazzi che hanno partecipato al concorso per Procuratore dello Stato, la cui prova selettiva si sarebbe dovuta svolgere lo scorso 12 giugno presso i locali dell’Ergife Palace Hotel di Roma. Il bando prevedeva l’assunzione di tre candidati per il ruolo di Procuratore dello Stato, le persone che si sono presentate erano novecentosettantacinque.

Ricordo che la procedura si è svolta con modalità assolutamente poco chiare, il che ha dato luogo al verificarsi di circostanze del tutto anomale per un concorso pubblico.Non sono stati effettuati i doverosi controlli volti alla verifica dell’eventuale possesso di dispositivi elettronici, cellulari, libri e appunti personali.

Non c’è stata neanche la consegna della consueta “doppia busta”. Mi spiego. Di solito vengono consegnate due buste a tutela della trasparenza e dell’anonimato dei compiti svolti, una più grande e anonima in cui inserire l’elaborato al termine della prova e una più piccola contenente un cartoncino da compilare con i propri dati anagrafici che, una volta chiusa, va inserita all’interno della busta più grande insieme all’elaborato stesso.
Nonostante poi all’atto della consegna dei codici non fosse stato consentito ai candidati di introdurre nella sede concorsuale alcun dizionario, in aula vi era una moltitudine di candidati che sfogliavano indisturbati romanzi, riviste e quotidiani.
Ma le anomalie più peculiari si sono verificate all’interno del padiglione.
Sono stati fatti alcuni annunci da parte della Commissione esaminatrice: ai candidati è stato richiesto in primo luogo di controllare sui propri banchi se fossero in possesso di codici altrui. Sono stati fatti i nomi di alcuni candidati che non avevano trovato i propri codici sui banchi, che sono stati invitati ad avvicinarsi.Continua a leggere…

Nel loro nome chiedo sia fatta giustizia

Non c’è cosa più spaventosa che percepire, sotto di sé, il pavimento oscillare e sentire le persone al proprio fianco che, con gli occhi inumiditi, implorano Dio che tutto finisca bene, cioè che le pareti smettano di muoversi da una parte all’altra. Da sempre ci hanno insegnato, in modo austero e freddo, che l’unica cosa che non dobbiamo fare – soprattutto noi alunni, quando inaspettatamente il terremoto decide di spezzare la nostra terra – è abbandonarsi al panico. Ammetto però di non essere affatto capace di mantenere la calma, in particolar modo non l’ho saputo fare il 20 e il 29 maggio, quando potenti scosse hanno violentemente agitato l’Emilia, la mia terra; non è che mi paralizzo davanti a tale potenza naturale, anzi, ho dei buoni riflessi: alla prima vibrazione cerco subito riparo. Il problema è che il terrore, che viene partorito non appena sento il pavimento ballare, inibisce ogni mia briciola di coraggio e preclude la mia possibilità di vivere tranquillamente. È logico rispondere di avere paura davanti a questa situazione incontrollabile – per tal motivo trovo schifosamente deficienti quei giornalisti che domandano ai terremotati cosa hanno provato o come stanno dopo una scossa di terremoto – e se ora qualcuno mi chiedesse come sto, ammetterei disinvoltamente di avere ancora paura, un po’ perché ho la certezza che qui, come in molti angoli d’Italia, gli edifici sono costruiti senza criteri antisismici, e un po’ perché non so quale buon futuro mi si prospetta davanti, soprattutto in seguito alla dichiarazione rilasciata da Squinzi che, dinanzi alle macerie e ai capannoni semi-distrutti, ha detto che gli edifici sono costruiti a regola d’arte, e in seguito alla falsa solidarietà di Napolitano che ha spiegato che soltanto noi Emiliani saremo in grado di sistemare le cose: evidentemente voleva affermare in maniera chiara e definitiva che dallo Stato non arriverà nessun aiuto. Ma si sapeva senza che lo dichiarasse pubblicamente.

Da buona emiliana, spero soltanto che lo sciame sismico si sia definitivamente placato e che, con coraggio e fortuna, riusciremo a sistemare ciò che il terremoto ha annientato. Come molti altri emiliani sono molto delusa, arrabbiata e infelice. Sono delusa dallo Stato perché, come sempre, è assente dinanzi a tali calamità naturali, e perché trova ogni pretesto per salvarsi il culo ogniqualvolta che è necessario. Sono arrabbiata perché c’è chi, come Napolitano, ha lasciato che la situazione rimanesse solo nelle mani nostre, poiché falsamente convinto che noi possiamo fare tutto, anche ricominciare daccapo. Sono infelice perché per colpa dell’italianità – ossia del prendere tutto alla leggera, non eseguire controlli e non ammodernarsi in modo consapevole e giusto – sono morte ventisette persone, molte delle quali erano operai. Nel loro nome io scrivo questo articolo, per affermare quel che disse Lennon – “lavoro è vita” – e per denunciare che nel duemiladodici non possono crollare case, palazzine, capannoni, industrie poiché costruite in tutti i modi fuorché a regola d’arte. In nome di Paolo Siclari, Mauro Mantovani, Enea Grilli, Eddy Borghi, Vincenzo Iacono, Hou Hongli, Iva Contini, Daniela Salvioli, Enzo Borghi, Sergio Cobellini, il parroco don Ivan Martini, Gianni Bignardi, Mohamad Azarg, Kumar Pawan, delle altre vittime, degli sfollati, dei ferraresi, dei modenesi, dei reggiani e dei mantovani, io accuso il Papa di essere un avido individualista che ha speso oltre 13.000.000 di euro per la sua visita a Milano durante i primi di giugno, quando era pienamente consapevole che una parte di quel denaro poteva essere risparmiata e consegnata alle terre colpite dal sisma; accuso inoltre Napolitano di essere il peggior esempio di rappresentanza statale che io abbia finora incontrato lungo i miei diciotto anni di vita, e che oltre a essere avaro, è pure disgustosamente indifferente: cosa ha fatto di effettivo per l’Emilia, oltre a esprimere la sua più sentita vicinanza alla mia terra? E infine, accuso i media che invece di mettere in chiaro i reali motivi per cui l’Emilia è stata colpita da infiniti sismi e di narrare la reale gravità della situazione che lega la mia terra a un incontrollabile panico sociale, sposta l’attenzione sui centri storici che vanno a pezzi, sui sismologi che boriosamente sparano al vento le loro assurde teorie (c’è chi dice che s’è aperta una nuova faglia, chi rammenta che la mia terra è sempre stata sismica, eccetera), creando una situazione di terrore e distogliendo l’attenzione degli italiani dai nodosi problemi di natura politico-economica. Nel nome di chi è morto perché il soffitto gli è cascato in testa, io voglio che venga fatta giustizia, e cioè che, partendo da questa lugubre ma non irrimediabile realtà, venga abbandonato l’assurdo modo italiano che utilizziamo nel fare le cose; che quindi vengano effettuati più controlli, che nascano grandi innovazioni, che si acquisiscano idee moderne, più efficaci in campo architettonico e lavorativo. Voglio che l’Italia esca dal medioevo e dalle barbarie sociali per tuffarsi in una realtà più panoramica e sicura per tutti noi. Ciò che frena queste mie utopie sono l’incoerenza e la fragilità proprie del nostro Paese che lo limitano a bloccarsi a ogni ostacolo, a ogni cataclisma, a ogni imbattibile apparenza: tali debolezze rendono invincibile tutto ciò che, con un po’ di consapevolezza e coraggio, si può combattere.

“Pardunànd uń lèder as cundàna chi è unest” (“perdonando troppo chi sbaglia, si fa ingiustizia all’onesto”): noi emiliani non abbiamo bisogno di sentirci dire dai governanti che ci sono vicini col pensiero, che in futuro ci manderanno aiuti, o che ci sarebbe potuto capitare qualcosa di peggiore. Abbiamo bisogno che l’Italia cambi faccia per sempre. Abbiamo bisogno che venga fatta giustizia in nome di chi, andando al lavoro, ora non c’è più.

Comodamente omertosi

Se ne sente parlare di rado. Anche a scuola stanno zitti, nessuno osa raccontare quel che hanno fatto Pasquale Zagaria – detto “Bin Laden” – e suo fratello Michele – capoclan dei Casalesi – quando la loro libertà era ancora viva; non vogliono nemmeno ricordare l’omicidio di Aldo MoroPaolo Borsellino e Ilaria Alpi. Nessuno si attenta a parlare di queste crude realtà perché – ne sono certa – quasi tutti trovano comodo vivere nel silenzio dell’omertà. Poi capita di sentire che il vicino è stato minacciato, che il cantiere edile dietro a casa è stato incendiato da un racket che era in conflitto con il clan proprietario della costruzione, che i propri rifiuti hanno una destinazione così misteriosa da indurci a chiedere dove diavolo finiscono. E quando sporadicamente senti questi eventi sconcertanti, ti accorgi che tacere e lasciare scorrere questo luridume sono le opposizioni più sbagliate che i cittadini immacolati possono fare contro l’abominevole problema nazionale: la mafia. Non ti senti colpevole sapendo che l’omertà è la tua reazione primaria davanti a questo remoto dilemma che ha colpito il nostro Stato?

Il cemento avanza, devasta parchi, foreste, campi agricoli. In Italia il terzo millennio funziona così: le mafie vivono di ininterrotte lotte all’ultimo pezzo di terreno per scopi lucrativi e chi più imbratta il suolo di calcestruzzo e mattoni diventa il più potente: attributo che nelle organizzazioni criminali significa molto. Infatti, dai primi anni duemila fino a ora, al nord si è registrato un esponenziale aumento di espansione edilizia: è il decennio in cui il verde vira gradualmente al grigio, in cui gli interessi mafiosi roteano attorno all’appropriazione di terreno edificabile per riciclare il danaro sporco e per scopi speculativi.

Case, capannoni, palazzi: tutti vuoti. Sull’altra sponda parchi, campi agricoli e zone verdi diminuiscono a vista d’occhio, sottolineando il rischio di una totale estinzione di aree naturali e agrarie. È evidente a chiunque che si sta fagocitando terreno a dismisura e si sa che tutto questo aggraverà le condizioni ambientali già sfavorevoli a causa dell’inquinamento atmosferico. Ma le giunte comunali, diversi sindaci e i politici in sé non sembrano nutrire molto interesse per questa questione ambientale che, spesso e volentieri, viene resa una tematica poco rilevante. Il nodo cruciale si trova soprattutto in quest’avida classe dirigente infettata dalle organizzazioni criminali che l’hanno silenziosamente rovinata attraverso la corruzione. Non c’è da meravigliarsi, quindi, se abbiamo una politica sleale, manipolata da un potente volere criminale, e un sistema ingiusto che il nostro Stato sembra accettare amichevolmente.

La mafia sotterra i rifiuti nei campi agricoli, dai quali poi germogliano cereali e vegetali che finiscono sulle nostre tavole; li esporta e li vende all’estero, in Africa, nell’Europa orientale e in Cina, li usa come cemento per costruire case e come asfalto per stendere nuove strade, li nasconde nei mari. La gestione dei rifiuti invece di essere nelle mani di persone competenti, si trova nelle grinfie di questi criminali che fanno illecitamente tutto quello che vogliono. E noi, donne e uomini immacolati, continuiamo a vivere nel silenzio delittuoso della comoda omertà, lasciando che la gestione dei rifiuti, come tante altre iniziative, rimanga sotto lo stretto controllo delle organizzazioni criminali.

Forza, ammettiamo di essere persone schifosamente omertose! Ammettetelo voi che vendete i vostri scarti industriali alle criminalità organizzate solo perché vi offrono il servizio a un prezzo bassissimo: preferite spendere dieci centesimi (per chilo) per smaltire i vostri rifiuti illegalmente, piuttosto che spenderne sessanta per sbrogliarveli da dosso in modo del tutto legale. Ci sono parecchi politici che desiderano falsamente un’Italia migliore dove non esiste alcuna briciola di illegalità, quando in realtà sono gli ultimi a volersi rimboccare le maniche, a compiere azioni legalmente accettabili, a evitare collaborazioni mafiose. Vogliono una politica sobria, efficiente, sincera, ma non sanno che per fare questo dovrebbero destituirsi, perché sono loro stessi parte integrante della mafia. Dobbiamo cercare di smetterla di cedere alle varie tentazioni che vengono proposte e provare a reagire in modo civile alla lugubre questione sociale protagonista nel nostro Stato. Essere omertosi, comportarsi come tali, è solo una scusaun atto negligente col quale abbiamo deciso di lasciare sporco il sistema italiano che riguarda tutti quanti, perché la paura non è niente se ci si unisce e si lotta tutti assieme!

Sindaci, politici, imprenditori, professori, gente comune, uscite da questo comportamento stereotipato! Il silenzio è lo scudo del vigliacco e dell’impotente, non del risoluto e del prode. Davanti a tale problema molti di noi sono vigliacchi e impotenti, sono comodamente omertosi, ma è arrivata l’ora di uscire da questo conformismo, da quest’assurda complicità silenziosa che troviamo confortevole, dalla paura. Professori, parlate di tutto questo ai ragazzi! Sindaci, ammettete il vero! Imprenditori, siate forti e non cedete alle tentazioni criminali!
Il sistema è sporco e ingiusto; io non lo voglio, né per me né per i miei figli. E come me, moltissimi altri non lo tollerano. Il futuro è certo e a noi non resta altro che combattere fino all’ultimo per dare al Paese un’immagine migliore e restituirgli un po’ di dignità. Questa non è l’Italia di Zagaria, Provenzano e Riina, è l’Italia di Falcone e Borsellino. Quindi, facciamoci coraggio e usiamo la purezza e la giustizia che ci sono rimaste in tavola per vincere questa temibile battaglia!

Intervista a Mario Fresa, Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione (parte 2)

[stextbox id=”custom” big=”true”]Questa è la seconda parte dell’intervista rilasciata da Mario Fresa, Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, ex membro del Consiglio Superiore della Magistratura. Abbiamo approfondito diverse tematiche, dal rapporto tra la magistratura e la politica alla separazione delle carriere, sino ad un’accurata analisi della situazione attuale della giustizia italiana. Trovate qui la prima parte[/stextbox]

Cosa sono le “correnti” all’interno della magistratura?

Per “correnti” della magistratura si intendono le diverse associazioni di magistrati che si riconoscono tutte all’interno dell’Associazione Nazionale Magistrati. L’A.N.M., nata nel lontano 1909, sciolta nel ventennio fascista e ricostituita nel 1945, ai sensi dell’art. 2 dello Statuto, si propone i seguenti scopi: 1) dare opera affinché il carattere, le funzioni e le prerogative del potere giudiziario, rispetto agli altri poteri dello Stato, siano definiti e garantiti secondo le norme costituzionali; 2) propugnare l’attuazione di un Ordinamento Giudiziario che realizzi l’organizzazione autonoma della magistratura in conformità delle esigenze dello Stato di diritto in un regime democratico; 3) tutelare gli interessi morali ed economici dei magistrati, il prestigio e il rispetto della funzione giudiziaria; 4) promuovere il rispetto del principio di parità di genere tra i magistrati in tutte le sedi associative ed in particolare assicurare la presenza equilibrata di donne ed uomini negli organismi dirigenti centrali, distrettuali e sottosezionali dell’Associazione, nonché in tutte le articolazioni del lavoro associativo e nei casi in cui l’Associazione sia chiamata a designazioni di suoi rappresentanti; 5) dare il contributo della scienza ed esperienza della magistratura nella elaborazione delle riforme legislative, con particolare riguardo all’Ordinamento Giudiziario.

Come si vede, l’A.N.M. non può definirsi soltanto come il sindacato dei magistrati, ma è un organo che contribuisce in modo rilevante alla c.d. politica giudiziaria, nell’ottica di un miglioramento dell’efficienza e dell’efficacia della Giustizia, al servizio dei cittadini. Le c.d. correnti della magistratura non rappresentano altro che le diverse culture esistenti tra i magistrati e i diversi approcci possibili all’esame e alla soluzione dei comuni problemi degli uffici giudiziari. Direi che da questo punto di vista rappresentano la linfa vitale del sistema giudiziario italiano; sono centri di elaborazione di idee e di progetti volti a migliorare il funzionamento della Giustizia e che, attraverso l’A.N.M., interagiscono con il mondo politico, sottoponendo al Governo e al Parlamento il punto di vista per così dire “tecnico” sulle possibili riforme legislative.

Ribadita l’essenzialità delle correnti al fine di tenere qualitativamente alto il dibattito sulla Giustizia e di garantire il pluralismo associativo all’interno dell’A.N.M., devo anche dire che, spesso, le stessi correnti hanno tradito i loro ideali e si sono degradate a centri di interessi corporativi o, peggio, personali. Del resto, proprio per contrastare queste patologie e riportare l’associazionismo dei magistrati ai più alti valori per i quali era nato, Giovanni Falcone e altri valorosi colleghi, nel 1988, fondarono il Movimento per la Giustizia, che si prefiggeva proprio il superamento delle divisioni fondate non su diversi ideali, ma su diversi interessi corporativi, tra l’altro aprendosi anche al contributo di giuristi provenienti dall’esterno della magistratura.

La strada che ci si prefiggeva di percorrere si è poi rivelata irta di ostacoli. Credo però che non si possa seriamente pensare di risolvere il problema della Giustizia italiana ritenendo di abolire le correnti della magistratura, così come non si può pensare di risolvere i problemi della Politica italiana, propugnando la soppressione dei partiti. Ci si deve invece impegnare per evitare il perseguimento di interessi che non collimino con quelli della collettività, così come sintetizzati nella Costituzione, e si deve far questo tanto nella Giustizia quanto nella Politica.

Qual è la sua opinione sulla separazione delle carriere tra organo giudicante e requirente?

Si tratta di un problema che ciclicamente si ripropone con più o meno forza, senz’altro serio ma, forse, sopravvalutato in relazione ad altre riforme che ritengo più urgenti per il sistema Giustizia. Come noto, la separazione delle carriere tra organi giudicanti e organi requirenti è auspicata da chi ritiene che, nell’attuale sistema processual-penalistico, ove il processo segue un rito del tipo accusatorio, il PM sia in tutto e per tutto una parte processuale e che, per le garanzie della difesa, debba essere posto sullo stesso piano delle parti private, con un giudice in posizione di effettiva terzietà, anche ordinamentale oltre che processuale.

Vero è che, nel rito penale vigente, il PM è una parte sui generis, perché tenuto per legge alla ricerca della verità e non alla verifica di una ipotesi di colpevolezza. Tant’è che l’organo requirente è tenuto a cercare ogni prova in vista dell’accertamento della verità e, quindi, anche le prove favorevoli all’indagato. Non può dunque il PM essere posto in tutto e per tutto in posizione speculare a quella della difesa privata, perché gli avvocati degli indagati (come quelli di parte civile) sono tenuti, per apposito mandato, a sostenere le ragioni del proprio cliente e non a ricercare la verità. Detto questo, un PM che fosse separato dall’organo giudicante, con diverso concorso di accesso e con carriera irreversibilmente separata, si porrebbe più lontano dalla giurisdizione per avvicinarsi a funzioni più prettamente investigative, quasi che fosse un superpoliziotto. E se nel sistema vigente il problema è quello di assicurare ad ogni cittadino indagato o imputato le garanzie più ampie di difesa, in un sistema a carriere separate il PM, più vicino alla figura del superpoliziotto che a quella del giudice, offrirebbe sicuramente meno garanzie di quante ne offra attualmente, sia pure con le cadute di professionalità alle quali in vari casi si assiste. Un concorso di accesso comune e percorsi professionali separati solo funzionalmente, e non irreversibilmente, assicurano invece una maggior cultura della giurisdizione dei pubblici ministeri, specie di quelli che, per scelta o per assegnazione iniziale, abbiano effettivamente svolto le funzioni giudicanti. Conseguentemente, garantiscono maggiormente i cittadini ed è per queste ragioni che i vari Paesi ove le carriere sono separate auspicano riforme nella direzione del modello italiano.

Direi di più. Ammesso che si vari una riforma, necessariamente costituzionale, che separi le carriere dei magistrati giudicanti da quelle dei magistrati requirenti (come il disegno di riforma costituzionale presentato dal Governo Berlusconi il 10 marzo 2011, tuttora pendente in Parlamento), ne conseguirebbe un vero e proprio rafforzamento della categoria dei pubblici ministeri che, garantendo meno i cittadini, necessiterebbe di appositi e più incisivi controlli. Insomma, inutile illudersi. Un PM forte e separato dai giudici, con minor cultura giurisdizionale e maggiori poteri investigativi, cadrebbe inevitabilmente sotto il controllo del potere esecutivo. A questo punto, sarebbe in pericolo anche il principio di obbligatorietà dell’azione penale, che è garanzia di eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, con il passaggio all’azione discrezionale sotto il controllo del Governo di turno.

Con ciò vedrebbe la sua realizzazione il vecchio e mai sopito desiderio di parte della classe politica e dei poteri forti di abbassare o limitare a determinate categorie di reati l’effettivo controllo di legalità sul territorio del nostro Paese. Forse i più giovani non sanno che questo era uno dei principali obiettivi dell’associazione segreta denominata P2 e del suo indiscusso capo Licio Gelli. Basta leggere i libri di storia per capire che questa organizzazione (alla quale partecipavano diversi politici, imprenditori, affaristi, tuttora in circolazione) non aveva come scopo il bene dell’Italia, ma quello dei propri fratelli massoni.

Quali sono le difficoltà reali e i problemi della giustizia italiana in questo periodo di generale crisi del paese?

Sono convinto che non siano i problemi processuali o quelli di diritto sostanziale a rendere estremamente difficoltosa e inadeguata la Giustizia italiana. Come dicevo, non solo la cultura giuridica italiana è invidiata in tutto il mondo, ma anche i nostri modelli processuali lo sono. Quanto al diritto sostanziale, esso sconta necessariamente i limiti, cui pure accennavo, di una legislazione di gran lunga più lenta di quanto non sia l’evoluzione dei costumi e delle tecnologie della società.

Ma il punto è un altro. Bisogna mettere in grado gli uffici giudiziari italiani di rispondere con maggior qualità e maggior celerità all’enorme mole delle domande di giustizia che piovono quotidianamente da ogni parte del territorio. Viceversa, su un organico previsto per legge di 10151 magistrati ordinari, siamo in servizio solo in 8118 e questo è anche la conseguenza di molti anni trascorsi (soprattutto durante il Ministero Castelli) senza che fossero emanati bandi per il concorso di accesso, sia perché si era in attesa di una riforma ordinamentale (quella del 2006) che poco aveva a che fare con l’esigenza della massima copertura dei posti in organico, sia perché mancavano le risorse economiche, che tuttora mancano.

Per il personale amministrativo la situazione è ancor più disastrosa e, per risolvere il problema dei tanti posti vacanti in organico, si è proceduto a ridurre fortemente il numero degli organici medesimi, con il risultato che da molti anni non si bandiscono più concorsi nell’amministrazione della giustizia. Per non parlare della mancanza di mezzi di ogni tipo. Strutture edilizie da tempo inadeguate e, a volte, non conformi alla normativa riguardante la sicurezza dei lavoratori. Mancanza di stanze per i magistrati e di aule di udienza. Mancanza di scrivanie, sedie, computer, carta… Insomma, il c.d. servizio giustizia in queste condizioni – che tutti possono verificare facendosi un giro per gli uffici giudiziari – è frustrante per i magistrati, poco dignitoso per gli altri dipendenti pubblici e del tutto insoddisfacente per i cittadini.

E’ vero. Oggi si assiste a una generale crisi del Paese, soprattutto economica e finanziaria. Non tutti sanno però che questa crisi è acuita non poco dalle inefficienze della Giustizia che, ad esempio nel settore civile, dove i tempi di definizione dei processi sono davvero biblici, si riflettono in una notevole contrazione degli investimenti degli imprenditori italiani e stranieri, timorosi di non poter recuperare in modo pieno e celere i propri crediti. Al contrario, chi non vuole onorare i propri debiti trova terreno fertile nei ritardi giudiziari. Di qui l’ulteriore considerazione che la crisi della Giustizia non fa che acuire la crisi economica e finanziaria.

 La giustizia italiana di quale tipo riforma o cambiamento radicale avrebbe bisogno?

Quello che si dovrebbe chiedere al potere legislativo non è tanto la riforma dei quattro codici o della miriade di leggi speciali in vigore, quanto una riforma organica che metta mano finalmente ai veri problemi degli uffici giudiziari, che sono problemi organizzativi, gestionali, informatici, o anche solo culturali. Gli abnormi ritardi dei processi in Italia, specie di quelli civili, come prima evidenziato non sono dovuti a procedure farraginose e lo sono solo in minima parte a causa della lentezza dei magistrati nel deposito dei provvedimenti. Essi sono dovuti principalmente ad una architettura degli uffici giudiziari che (pochi lo sanno) risale ancora al regno sabaudo (ne è una riprova l’esistenza di ben 16 tribunali dislocati, soltanto, nella Regione Piemonte), quando per andare a cavallo o in carrozza da Roma a Civitavecchia ci si impiegava di più di quanto oggi si impiega per andare da Roma a Palermo ed era necessaria una capillarizzazione della presenza dei magistrati sul territorio. Oggi si rende urgente una economizzazione e razionalizzazione delle (poche) risorse a disposizione, anche tenuto conto che, come noto, gli uffici giudiziari in grado di rendere risposte più efficienti ed efficaci alla collettività non sono né quelli di piccole dimensioni (dove si pongono problemi di funzionalità minime e di incompatibilità processuali irrisolvibili), né quelli c.d. metropolitani (dove si pongono problemi di gestione assai difficili da risolvere), ma sono invece gli uffici di medie dimensioni.

Una revisione delle circoscrizioni giudiziarie – invano auspicata con apposita proposta legislativa dal C.S.M. nel luglio 2010 – costituirebbe, quindi, lo strumento indefettibile per realizzare un sistema moderno ed efficiente di amministrazione della giurisdizione, che sia in grado di fornire la dovuta risposta di merito alle istanze di giustizia, nel rispetto di tempi ragionevoli di durata del processo, nella consapevolezza che il ritardo nel giungere alla decisione si risolve in un diniego di giustizia. Si renderebbe possibile in tal modo un’ottimizzazione delle risorse a disposizione del sistema giustizia (personale di magistratura, personale amministrativo, mezzi e strumenti, anche informatici), capace di aumentare sensibilmente la risposta giudiziaria in relazione alla corrispondente domanda di giustizia dei cittadini. Una riforma di tal genere sarebbe più di ogni altra capace di invertire il “trend” giudiziario e di far superare il senso di profonda amarezza che alberga nella coscienza di chi si pronuncia ogni giorno “in nome del popolo italiano” e viene al contempo delegittimato proprio da chi, pure, quel popolo rappresenta.

Una amarezza, certo, che non è nuova se si pensa a quanto affermava Calamandrei nel lontano 1921: “la crisi della giustizia sta nella svalutazione morale della magistratura: ad aggravar la quale hanno dato opera assidua da cinquant’anni a questa parte burocrazia e parlamento. Se lo stato avesse voluto preordinatamente distruggere a colpi di spillo il prestigio della magistratura di fronte al popolo e spegnere a poco a poco in lei stessa ogni fiducia nell’opera propria, avrebbe dovuto comportarsi verso di essa come si è comportato […] Ed ecco: questi magistrati che sono la voce vivente della legge e la incarnata permanente riaffermazione dell’autorità dello Stato, si accorgono che lo Stato agisce talora come se fosse il loro più aperto nemico: sentono che, se vogliono seguitare a render giustizia, devono farlo, più che in nome dello Stato, a dispetto dello Stato, il quale incarnato nel Governo, fa di tutto per neutralizzare, per corrompere, per screditare, per rendere incerta e poco seria l’opera loro”.

 

 

 

 

 

Intervista a Mario Fresa, Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione (parte 1)

[stextbox id=”custom” big=”true”]Mario Fresa è un magistrato della Repubblica italiana, nato a Roma il 22 settembre 1961. Entrato in magistratura il 22 dicembre 1987, è stato Pretore civile a Rieti e poi a Roma. Ha svolto poi le funzioni di magistrato addetto alla segreteria del CSM dal dicembre 1995 al giugno 2001, all’ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di Cassazione, dove ha svolto anche l’incarico di referente informatico presso la stessa Corte. Da sempre impegnato nell’Associazione Nazionale Magistrati, ha aderito al Movimento per la Giustizia sin dal 1988 ed ha svolto per diversi anni l’incarico di segretario del distretto romano. Nel 2003 è stato eletto nel Comitato Direttivo Centrale dell’ANM. Dal 2006 al 2010 è stato componente del CSM, ove ha svolto anche le funzioni di giudice della Sezione Disciplinare. E’ autore del libro “La responsabilità disciplinare nelle carriere magistratuali”. Attualmente svolge funzioni requirenti quale Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione.[/stextbox]

 Cosa significa per Lei essere un magistrato?

Essere magistrato significa, anzitutto, attuare quotidianamente e con coerenza quei valori ai quali si è giurata fedeltà al momento dell’ingresso in magistratura. Attuare dunque i principi della Costituzione della Repubblica Italiana, che devono essere coniugati – in una dimensione europea da tempo recepita nel nostro ordinamento – con le norme dell’Unione Europea e quelle della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il magistrato contemporaneo, lungi dall’essere semplice “bouche de loi”, deve essere il vero e autentico custode di quei valori per i quali ha giurato fedeltà e, nel contrasto eventuale tra leggi positive e valori costituzionali, convenzionali ed euro-unitari, deve dare la prevalenza a questi ultimi, un po’ come Antigone fece applicando gli “αγραπτα νομιμα”, le consuetudini ritenute di origine divina, e disapplicando il “νομος”, la legge positiva del re Creonte.

Per far questo il magistrato non può astrarsi dalla società in cui vive, ma deve invece calarsi in essa, per essere in grado di interpretare le leggi garantendo la tutela dei diritti di tutti i cittadini, in egual misura, attraverso un continuo, difficile e mutevole raffronto con i diversi principi fondamentali, raffronto che può portare ad una delicata operazione di bilanciamento dei diversi ed a volte contrapposti valori in gioco. Questa operazione può portare, certo, a molteplici, legittime opzioni interpretative tra i diversi giudici dei tribunali e delle Corti d’Appello e tra questi ed i giudici della Corte di Cassazione, ma questa eventualità – se riportata nell’ambito fisiologico, evitando le interpretazioni abnormi e confidando nel buon esercizio della cosiddetta attività di nomofilachia della corte di cassazione (cioè nell’elaborazione di quei principi di diritto autorevoli ed al tempo stesso convincenti, in ciò assicurando una tendenziale unitarietà del diritto) – la considero un bene per la giurisdizione e per la stessa tenuta della democrazia del nostro Paese. Si, perché l’interpretazione delle leggi attraverso il consapevole bilanciamento dei diversi valori in gioco (il principio di eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge e le pari opportunità, la tutela dei lavoratori e l’iniziativa economica, il diritto alla salute ed alla libertà di autodeterminazione, la libertà di manifestazione di pensiero ed i doveri di riserbo, ecc.) rende il diritto più vicino ai cittadini e limita il distacco tra l’Auctoritas  ed il comune sentire degli uomini, destinato ad evolversi nel tempo e, sicuramente, più velocemente di quanto non facciano le leggi stesse.

Cosa si deve intendere al giorno d’oggi, a Suo parere, con l’espressione “ bravo magistrato”?

Un bravo magistrato è colui che riesce a far ciò, in maniera imparziale e indipendente ed al contempo in modo moderno, aperto alle esigenze di efficienza del terzo millennio e della società della globalizzazione, – come ha affermato diversi anni fa un mio collega “prestato” alla politica, Elvio Fassone, in occasione della presentazione di un suo disegno di legge sulle verifiche di professionalità dei magistrati – laborioso, ma non attento soltanto a fare statistica; capace di ascoltare, più che di esprimere subito le sue convinzioni; portatore di opinioni, anche ferme, ma disposto a cambiarle dopo avere ascoltato; osservante del codice deontologico non meno dei quattro codici; prudente nel discostarsi da ciò che è consolidato, ma coraggioso nel sottoporre a verifica ciò che è pacifico; consapevole che ogni fascicolo non è una “pratica”, ma un destino umano; paziente nell’approfondire, indipendente nel giudicare, rispettoso nel trattare.

Un magistrato di tal genere, a mio parere, è un magistrato che, con riferimento alla famosa metafora del Calamandrei, della bilancia che porta in un piatto due grossi volumi e nell’altro una rosa (da un lato le leggi e la dottrina e dall’altro il costume degli uomini che hanno il compito di far funzionare quelle leggi), riesce a far pendere la Giustizia dalla parte della rosa.

Lei ha ricoperto ruoli molto importanti durante la sua carriera di magistrato, a cominciare dall’esser stato eletto membro del Consiglio Superiore della Magistratura fino al recente incarico di Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione. Cosa ha segnato maggiormente e come può sintetizzare, dal punto di vista professionale, la Sua esperienza al CSM?

L’attività giurisdizionale, se rettamente intesa non come esercizio di un potere personale, ma come esercizio di un servizio a tutela dei diritti fondamentali dei cittadini, è una professione capace di fornire immense soddisfazioni. Fare Giustizia, nel senso più autentico del termine, e cioè reintegrare o risarcire nei diritti lesi chi abbia subito una ingiusta violazione di regole e, al contempo, punire o sanzionare chi quelle regole, penali o civili, abbia ingiustamente violato, significa essere compartecipi di ciò che il Costituente ha voluto realizzare nel lontano 1948, all’indomani del ventennio fascista e di una tragica guerra che aveva sparso tanto sangue in terra italiana. Ed il costituente, nel prevedere forti garanzie per l’esercizio autonomo e indipendente del potere giurisdizionale, ha voluto preservarlo – nell’esclusivo interesse dei cittadini a veder assicurato il diritto all’eguaglianza dinanzi alla legge – da possibili attacchi, provenienti non solo dall’esterno e, in particolare, dagli altri poteri dello Stato (legislativo ed esecutivo), ma anche dall’interno della stessa magistratura. E’ per questo che la nostra Costituzione ha previsto che i magistrati si distinguono solo per funzioni, evitando con ciò possibili gerarchie all’interno del corpus magistratuale e possibili interferenze interne all’esercizio delle funzioni giudiziarie.

Oggi, che svolgo le funzioni di sostituto procuratore generale presso la corte di cassazione, non per questo svolgo funzioni sovraordinate rispetto a quelle che svolgevo da giudice-ragazzino e pretore, più di venti anni fa, in una piccola città di provincia. Giovanni Falcone, in una storica relazione tenuta a Milano nel lontano novembre 1988, affermò a ragione che non esiste il mestiere del giudice, ma esistono i mestieri dei giudici e che ciascuna funzione svolta è parimenti delicata perché incide direttamente sulla vita dei cittadini. I cittadini del resto hanno diritto non al miglior giudice possibile, ma ad un giudice (e ovviamente ad un pubblico ministero) attrezzato e attitudinalmente idoneo a risolvere la specifica questione giuridica. Per questo posso dire che tutti i “mestieri” che ho svolto hanno nella stessa misura segnato la mia formazione professionale.

Non posso negare, però, che l’essere stato componente del Consiglio Superiore della Magistratura nel quadriennio 2006/2010, e cioè aver fatto parte dell’organo che la Costituzione ha appositamente previsto per il governo autonomo della magistratura (con ciò intendendo sottrarre l’esercizio del potere giurisdizionale alle influenze della politica e dei partiti), ha segnato fortemente la mia vita professionale.

Il CSM è l’organo preposto ad assicurare alla giurisdizione e ai magistrati che la esercitano autonomia e indipendenza da ogni altro potere. Ma è anche l’organo che deve assicurare ai cittadini il buon funzionamento della giustizia e la professionalità dei magistrati. Quindi il CSM, come ha il dovere di tutelare i magistrati lesi nella loro autonomia e indipendenza di giudizio, ha anche il compito di intervenire nelle situazioni determinate da gravi cadute di professionalità nell’esercizio delle funzioni. La tutela dei magistrati lesi nell’esercizio delle funzioni e l’intervento nei casi in cui la giurisdizione perde credibilità a causa di comportamenti scorretti sono due facce della stessa medaglia.

Nella mia recente esperienza mi sono sempre battuto perché queste prerogative del CSM fossero in egual misura assicurate. Ho ad esempio contributo alla deliberazione di diverse pratiche a tutela della giurisdizione dai continui attacchi e denigrazioni del Presidente del Consiglio, ma ho pure contribuito a sanzionare magistrati, anche famosi, perché si erano resi protagonisti di gravi cadute di professionalità.

Non sempre però molti componenti del CSM hanno avuto la stessa sensibilità sul fronte, per così dire, interno. Ancora oggi, non sono superate vecchie concezioni corporative tese a difendere il collega sempre e comunque, anche quando sbaglia. Salvo, a volte, a prenderne le distanze quando poi le questioni acquistano rilevanza pubblica e mediatica (P3, P4, ecc.). Per non parlare di quando si devono verificare in comparazione più professionalità al fine di conferire importanti incarichi direttivi. Qui, la conoscenza diretta o indiretta del singolo candidato o, a volte, pregiudizi ideologici, giocano ancora un ruolo negativo che determina una grave caduta di immagine dell’organo di governo autonomo. E sono fattori che hanno indotto talvolta persino il Capo dello Stato – che il CSM presiede – ad intervenire stigmatizzando queste patologie.

Ecco, a mio parere il CSM potrebbe fare molto di più su questo aspetto. Non si può essere credibili quando si interviene a tutela dei magistrati lesi nell’indipendenza se al contempo non si è rigorosi e scrupolosi nel valutare la loro professionalità, tanto ai fini del conferimento di importanti incarichi, quanto ai fini di eventuali sanzioni disciplinari.

Quando era in carica al CSM Lei era membro della sezione disciplinare, sede deputata all’applicazione delle sanzioni nei confronti dei magistrati. Quali sono le sanzioni in cui possono incorrere i magistrati in caso di fatti commessi durante l’esercizio della propria funzione?

La riforma legislativa del 2006, che ha tipizzato le singole fattispecie di illecito disciplinare per fatti commessi sia nell’esercizio delle funzioni sia al di fuori dell’esercizio delle funzioni, prevede ora le seguenti sanzioni per il magistrato che viola i suoi doveri: 1) l’ammonimento, che è la sanzione più lieve e si risolve in un semplice richiamo all’osservanza, da parte del magistrato, dei suoi doveri, in rapporto all’illecito commesso; 2) la censura, che è una dichiarazione formale di biasimo; 3) la perdita di anzianità nel ruolo, prevista da un minimo di due mesi ad un massimo di due anni, che si riflette in un ritardo nella progressione economica e di carriera del magistrato; 4) la temporanea incapacità ad esercitare un incarico direttivo o semidirettivo, per un periodo che può andare da sei mesi a due anni; 5) la sospensione dalle funzioni, che consiste nell’allontanamento dalle funzioni esercitate, con la sospensione dello stipendio entro limiti dipendenti dalla classe economica in cui è collocato il magistrato per effetto della sua anzianità; 6) la rimozione, che è la sanzione più grave e determina la cessazione del rapporto di servizio.

E qual è il rapporto tra gli illeciti penali e quelli disciplinari commessi da un magistrato?

Il magistrato, come ogni altro cittadino, può rendersi responsabile di reati, commessi sia nell’esercizio delle funzioni, sia al di fuori delle funzioni. Anche un atto o un provvedimento giurisdizionale, dunque, possono essere strumenti di commissione di reati (abuso d’ufficio, interesse privato in atto d’ufficio, corruzione, ecc.). In questi casi il magistrato utilizza la giurisdizione a fini propri, privati e diversi da quelli istituzionali, di tutela della collettività o, comunque, dei diritti soggettivi delle parti in causa e la responsabilità penale concorre con quella disciplinare.

Si pongono quindi complicati problemi di rapporti tra le diverse tipologie di illeciti, che si riflettono, ad esempio, sulla possibile sospensione del procedimento disciplinare ogni qualvolta sia esercitata l’azione penale per lo stesso fatto, sino all’esito del giudicato penale. Paradossalmente, l’efficacia della giustizia disciplinare che si sta dimostrando agile strumento di repressione di gravi cadute di professionalità può essere vanificata, nei casi più gravi, proprio dal concorrente ed a volte pregiudiziale procedimento penale, che può giungere dopo anni alla definitiva conclusione. In questi casi, o si assiste ad una possibile “fuga” dalla giurisdizione, mediante le dimissioni del magistrato o, in mancanza dei presupposti per l’adozione della misura cautelare della sospensione dalle funzioni, si espone per anni la collettività all’esercizio della giurisdizione da parte di un magistrato-imputato, con perdita della credibilità del magistrato stesso e con grave discredito dell’istituzione giudiziaria.

Parlando in termini pratici qual è oggi il rapporto tra la politica e la magistratura?

In un Paese “normale” il rapporto tra politica e magistratura dovrebbe essere la conseguenza del noto principio della ripartizione di attribuzioni tra i diversi poteri dello Stato (legislativo, esecutivo e giudiziario). Vorrei chiarire che si fa confusione quando si nega l’esistenza, nel nostro ordinamento, del potere giudiziario. Se la magistratura, nel suo complesso, non è un potere, ma – per dettato costituzionale – un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere, ogni singolo magistrato, nel momento in cui rende giustizia in nome del popolo italiano, esercita un potere dello Stato.

I problemi sorgono, per un verso, quando una buona parte della politica – da sempre non incline a subire un efficace controllo di legalità – si rende intollerante verso le decisioni giurisdizionali non gradite e denigra, delegittima dinanzi all’opinione pubblica i magistrati che si sono resi responsabili di decisioni non gradite, o la magistratura nel suo complesso; per altro verso, quando alcuni magistrati protagonisti violano i doveri di riserbo o correttezza, utilizzando il potere giudiziario a scopo di notorietà, propaganda o altro.

Pur quando non si giunga ai veri e propri conflitti di attribuzioni tra poteri dello Stato, che vengono decisi dalla Corte Costituzionale e che rappresentano, per fortuna, un numero limitato di casi, oggi il rapporto tra politica e magistratura è particolarmente inquinato e si caratterizza spesso per la “personalizzazione” delle vicende giudiziarie che porta, a volte, il potere esecutivo ed il potere legislativo ad emettere veri e propri provvedimenti legislativi “ad personam”, onde evitare non solo il ripetersi in futuro di scomode inchieste giudiziarie, ma addirittura la paralisi dei processi in corso.

E’ questa una anomalia tutta italiana, che in Europa ed in altre parti del mondo viene biasimata e condannata. I principi del rispetto reciproco dei diversi ruoli e dell’equilibrato bilanciamento tra poteri dello Stato, e tra questi e le cosiddette Istituzioni di garanzia (il Presidente della Repubblica, la Corte Costituzionale, il Consiglio Superiore della Magistratura, ecc.) è infatti il pilastro imprescindibile di ogni moderna democrazia.

I magistrati sono effettivamente autonomi e indipendenti, come d’altronde prescrive la nostra Costituzione, oppure esiste una qualche interferenza inevitabile con il Governo o con il Parlamento?

L’autonomia e indipendenza di ciascun magistrato dipende, ovviamente, dalla coscienza e dalla sensibilità del singolo nell’esercizio delle funzioni. Come detto precedentemente, un magistrato che si riveli in concreto non indipendente può rendersi responsabile di reati penali od illeciti disciplinari, in relazione ai quali sono auspicabili severe sanzioni.

Sul piano disciplinare, sembra opportuno richiamare le norme che, a presidio dell’indipendenza e imparzialità del magistrato, prevedono: a) il divieto di partecipazione ad associazioni segrete o i cui vincoli sono oggettivamente incompatibili con l’esercizio delle funzioni; b) il divieto di coinvolgimento nelle attività di soggetti operanti nel settore economico o finanziario che possono compromettere anche solo l’immagine del magistrato; c) il divieto di iscrizione o partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici.

Dunque, il magistrato non può occuparsi in modo attivo e continuativo di politica. La presenza di magistrati fuori ruolo per mandato parlamentare o per altri incarichi che comunque rivestono responsabilità politiche sembra dunque una contraddizione in termini. Eppure è una realtà. Una realtà che, vorrei sottolineare, riguarda ogni orientamento politico. Non esistono toghe rosse o toghe nere. Esistono toghe che si vestono e si svestono con troppa disinvoltura. Da tempo, l’ANM chiede ai politici una legge che impedisca la commistione tra politica e magistratura, limitando al tempo stesso le interferenze tra le ragioni della politica e le ragioni della giustizia. A mio parere, sul punto, sarebbe sufficiente la previsione secondo la quale un magistrato che entri in politica, una volta cessato il mandato, non possa più rientrare nel ruolo della magistratura. Infatti, il punto dolente non mi pare quello di limitare i diritti politici del magistrato che, come ogni altro cittadino, può anche compiere la scelta di passare a svolgere attività politica. Mi pare piuttosto quello di garantire che questa scelta, una volta effettuata, sia irreversibile e segni una scissione definitiva, sincronica e diacronica, tra attività giurisdizionale e attività politica. Perché scarse garanzie di imparzialità possono avere coloro i quali, dopo aver svolto attivamente e continuativamente attività politica, tornino poi alla giurisdizione.

La morte di Meredith “oltre ogni ragionevole dubbio”

Non bisogna essere esperti di diritto per capire come tra una sentenza di condanna all’ergastolo ed un’ assoluzione vi sia una differenza abissale, soprattutto in termini di privazione della libertà personale per il soggetto nei cui confronti la decisione è rivolta. In realtà, tra una sentenza di condanna ed una sentenza di proscioglimento spesso ci passa davvero poco. Nel nostro sistema giudiziario penale, affinché possa essere emessa una sentenza di condanna nei confronti di un imputato, è necessario che il giudice sia convinto della sua colpevolezza “oltre ogni ragionevole dubbio”. Ciò significa che, ogni qual volta si trovi anche soltanto con il barlume del cruccio circa la responsabilità del soggetto sottoposto a processo penale, il giudice deve essere straconvinto, se non addirittura certo, della verità processuale sulla quale si trova a giudicare. E’ un po’ questo il succo del processo di secondo grado conclusosi il primo ottobre a carico di Amanda Knox e Raffaele Sollecito, imputati per la morte di Meredith Kercher.  Credo, infatti, che proprio il “ragionevole dubbio” sia nascosto dietro quella che in realtà è stata una vera e propria assoluzione con formula piena. I due imputati sono stati assolti con quella che in gergo è definita una “formula ampia” di assoluzione. Non voglio addentrarmi nel merito della decisione della Corte d’Assise d’Appello di Perugia perché, non avendo tra le mani gli atti del processo, non me la sentirei di dare un giudizio tecnico che risulterebbe approssimativo che mi condurrebbe a trarre conclusioni sommarie.  Vorrei, però, spiegare le tipologie di sentenze che possono essere emesse da un giudice penale in primo e secondo grado. Per la Cassazione, invece, il discorso è diverso essendo espressamente previste dalla legge le motivazioni che possono condurre ad un eventuale ricorso in Cassazione, motivazioni che non possono essere inerenti al “fatto”, ma devono necessariamente concernere questioni di “diritto”, quindi errori procedurali, di valutazione, di applicazione della legge, oppure carenze o vizi relativi alla motivazione della sentenza.

Le sentenze possono essere divise in due grandi gruppi: condanna e proscioglimento. La condanna è una sentenza che viene pronunciata qualora dalle carte processuali emerga oltre ogni ragionevole dubbio, come detto, la colpevolezza dell’imputato. Occorre cioè accertare che l’imputato abbia commesso il fatto, che, a seconda del tipo di reato, lo abbia commesso con dolo o colpa, che non vi siano cause diverse dalla condotta dell’imputato che abbiano determinato il verificarsi dell’evento e che non vi siano cause particolari od ulteriori tali da escludere, in qualunque altro modo, la sua responsabilità penale. Diversamente, le sentenze di proscioglimento si dividono in sentenze di due tipi: assoluzione e proscioglimento. Il proscioglimento, o per meglio dire il “non luogo a procedere”, indica il caso in cui il processo non può proseguire per motivazioni processuali. Ciò significa che il giudice non può spingersi sino ad accertare nel merito i fatti oggetto del processo ma deve, al ricorrere di una causa di estinzione del processo, dichiarare estinto il procedimento. Ad esempio tale circostanza si verifica in caso di intervenuta prescrizione del reato, di morte dell’imputato, amnistia, ed altre cause specificatamente previste dalla legge. In tutte queste ipotesi non potrà mai parlarsi di assoluzione proprio perché il giudice non avrà potuto accertare i fatti e non potrà parlarsi di “innocenza”. Non a caso tali sentenze vengono definite di proscioglimento “nel rito”.

Veniamo al secondo gruppo di sentenze, quelle di proscioglimento “nel merito”. L’innocenza dell’imputato è riconducibile esclusivamente a tale tipologia di provvedimenti. Le sentenze di assoluzione possono avere diverse “formule”: “Il fatto non sussite”, “il fatto non costituisce reato”, “il fatto non è previsto dalla legge come reato”, “l’imputato non lo ha commesso”, “l’imputato non è punibile o non è imputabile”. Tale decisione deve risultare il frutto di un’attenta e approfondita analisi dei fatti eseguita dal giudice il quale, alla luce dell’esito dell’istruttoria dibattimentale (luogo in cui avviene la formazione della prova), reputi l’imputato innocente. Ognuna di tali formule assolutorie ha un significato ben preciso. Amanda Knox e Raffaele Sollecito sono stati assolti con la formula “il fatto non sussiste”. In tale formula rientrano tutti i casi in cui dal processo emerge che manchino elementi per ritenere che quella specifica condotta sia stata tenuta dall’imputato. Ciò significa che non è stata provata la responsabilità penale in riferimento al fatto a loro contestato. I giudici della Corte d’Assise d’Appello hanno ritenuto che il comportamento dei due non abbia potuto determinare l’evento, cioè la morte di Meredith. Al contrario delle sentenze di condanna, per le sentenze di assoluzione non esiste il limite del ragionevole dubbio, proprio perchè in caso di dubbio il giudice è sempre tenuto ad assolvere l’imputato. Ciò non toglie che su alcune sentenze, come quella in commento, si possa rimanere un po’ incerti, un po’ perplessi o, per meglio dire, con un “ragionevole dubbio”.

Concorso in magistratura: poche consegne per tanti supereroi

Mercoledì 15 giugno, esattamente le ore 06:44 del mattino. Ho aperto gli occhi e mi sono accorto che la sveglia sarebbe suonata esattamente un minuto dopo il mio risveglio. Una doccia, una colazione veloce, giusto il tempo di un caffè, un bicchiere d’acqua e poi via di corsa verso la Nuova Fiera di Roma. Lunedì 13 e martedì 14 giugno erano stati i giorni della consegna dei codici e fino a quel momento, in fin dei conti, le emozioni ancora erano latitanti. In realtà il mio umore saltellava su e giù come un grillo e l’ansia saliva precipitosamente da giorni. Ma quella mattina mi sono accorto subito che era diverso, quella mattina era il giorno della prima prova del concorso in magistratura.

Si sono presentate circa 4.200 persone delle ventimila che si erano iscritte. Arrivo all’immenso parcheggio che giganteggia dinanzi l’ingresso nord della Nuova Fiera e mi trovo davanti un mare umano. Ciascuno dotato di una propria busta (tutte buste della spesa trasparenti) dove venivano custoditi gelosamente viveri, penne, documenti e poco altro, insomma il necessario per passare il tempo dalle otto del mattino sino alle sette della sera. Dopo circa un’ora e qualcosa di fila finalmente ognuno arriva al proprio padiglione. Eravamo divisi in quattro immenso blocchi, solitamente atti ad accogliere eventi fieristici, ma questa volta adibiti a enormi sale dove vi erano infinite file di banchi, ognuno con un nome, una data e una matricola.

Arrivo al mio posto, con non poca adrenalina nel sangue e, agitatissimo, mi siedo. Mi guardo intorno e vedo gente di ogni età. Gente alla sua prima volta, ma anche veterani alle terza, altri anche alla quarta. La legge consente tre consegne nell’arco di una vita; la quarta consegna è consentita in via eccezionale per coloro i quali si siano iscritti al bando di concorso prima dell’uscita dei risultati del concorso precedente. Sostanzialmente tutti hanno diritto a quattro consegne, tranne casi estremamente rari. È molto difficile, infatti, che escano i risultati del concorso precedente prima dell’uscita del bando del concorso successivo, dato che per le correzioni occorrono spesso molti mesi.

La commissione, seduta in cima alla sala su un’immensa cattedra, il primo dei tre giorni ha optato per il tema in materia di diritto amministrativo. Non vi nascondo che si è trattata di una vera e propria strage. In circa cinquecento si sono alzati allo scadere della quarta ora, limite minimo per potersi alzare e abbandonare la gara. I 3.700 candidati rimasti seduti hanno dovuto confrontarsi con una traccia estremamente complessa su un argomento tanto inaspettato quanto angusto. Alla fine della prima giornata non hanno consegnato più di 3.300 persone. Del resto, il giorno dopo è stato estratto il tema di diritto civile e la carneficina è proseguita incalzante. L’ultimo giorno, infine, la traccia di penale ha dato il colpo di grazia a un concorso che, a dire dei più, non era così difficile da anni. Le consegne effettive dovrebbero aggirarsi intorno alle duemila persone. Ricordo che il concorso era stato bandito per un numero pari a 360 posti, che verosimilmente non verranno integralmente coperti, come al solito. Tracce strane, imprevedibili, ma soprattutto dai titoli fuorvianti, a dire di molti finalizzate a testare la lucidità, più che la preparazione, dei candidati.

Facendo un calcolo approssimativo, e tenendo conto del fatto che delle ventimila iscrizioni siamo rimasti in meno di duemila, la percentuale di possibilità di essere promossi alle prove scritte si aggira attorno al 18%, più o meno uno su cinque verosimilmente ce la farà. Una percentuale altissima considerando che ci si attendeva quasi il doppio delle consegne, e quindi la metà della percentuale. Tirando le somme di questa tre giorni posso dire che, prima di tutto, è stata una grande esperienza di vita, nonché una dura prova di nervi, lucidità e ragionamento. È stata davvero dura soprattutto per chi, come me, era seduto lì per la prima volta.

D’altra parte è stata anche una prova di enorme crescita personale. Niente a che vedere con l’esame di abilitazione alla professione di avvocato, tutta un’altra musica, tutta un’altra aria e soprattutto tutta un’altra tensione. I risultati, a questo punto e dato il numero esiguo di consegne, sono previsti non più tardi dell’inizio del prossimo inverno; diciamo che, se tutto dovesse filare liscio, entro la fine di gennaio saranno esaurite le correzioni. Nell’articolo che scrissi prima del concorso avevo parlato di supereroi. Oggi più che mai mi sembra ampiamente azzeccata questa definizione; adatta non soltanto a chi avrà avuto la bravura e la fortuna di passare, ma anche a chi pur non risultando idoneo avrà avuto il coraggio di consegnare tutte e tre le prove, e a coloro che non se la sono sentita nemmeno di consegnare, e giorno dopo giorno hanno abbandonato il campo. Concludo questo articolo come conclusi il precedente: in bocca al lupo a tutti, supereroi e non.

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Concorso in magistratura: la carica dei ventimila

Tra poco più di due settimane si terrà presso la Nuova Fiera di Roma il concorso in magistratura per trecentosessanta posti, bandito lo scorso autunno dal Ministero della Giustizia. I giorni 15, 16 e 17 giugno migliaia di persone, giovani e meno giovani, si riverseranno nella capitale piene di speranze, sogni e disillusioni. Da fonti ministeriali circola la voce che risultano iscritte circa ventimila persone; nella migliore delle ipotesi (o peggiore, dipende dai punti di vista) se ne presenteranno circa cinquemila. Questo perché, nei sei mesi che sono passati dalla chiusura del bando di partecipazione, qualcuno degli iscritti avrà inevitabilmente deciso di rinunciare.

Alcuni perché si saranno arresi all’immensa mole di studio, altri si saranno semplicemente dimenticati di essersi precedentemente iscritti, altri ancora perché, al tempo, si erano iscritti esclusivamente per tenersi viva fino all’ultimo la possibilità di scegliere se partecipare o meno. Del resto le spese da sostenere, anche solo per presentarsi, in quei giorni a Roma non sono di poco conto. Innanzitutto le almeno tre notti d’albergo, da sommare ai trasporti per recarsi nella capitale, cui va aggiunto il costo esuberante dei codici giuridici da portare in sede di concorso. Il conto, approssimando per difetto, è presto fatto. Quaranta euro al giorno per dormire, che moltiplicati per almeno tre notti (che diventano quattro per la metà dei candidati, dato che le consegne dei codici sono previste a seconda della lettera alfabetica il giorno 13 e 14 giugno) fanno centoventi euro. Poi il prezzo del viaggio che, tanto per tenersi bassi, non viene a costare meno di cento euro a testa, oltre ovviamente ai vari spostamenti in città. Dulcis in fundo non possiamo non annotare sul nostro bel taccuino il prezzo dei codici che, per quei quattro giorni, saranno gli unici compagni di viaggio di tutti i candidati. Sicuramente ho dimenticato qualche scontrino nella tasca di qualche giacca, ma ciò non toglie che le spese che ognuno dovrà sostenere ammonteranno all’incirca sui cinquecento euro. Tralasciamo le spese per mangiare, al limite ci penserà il “buon Dio” – come direbbe De André – a trovare il modo per saziargli lo stomaco.

Riassumendo, cinquecento euro in mezza settimana per sperare di rientrare in quel 7,2%, qualora si presentassero “solo” in cinquemila, percentuale che scende vertiginosamente all’1,8% circa qualora si presentassero tutti e ventimila. Insomma, se non si è preparati sembra davvero inutile presentarsi, motivo per cui saranno circa in tremila a consegnare tutte e tre le prove. Questo anche perché ogni persona può consegnare i tre scritti per tre soli tentativi nell’arco della sua vita.

Il fatto di essere in tanti può consolare, perché si possono condividere con tante altre persone le  emozioni e i sentimenti che pervadono i candidati; ma può anche abbattere, perché la carica dei ventimila farebbe paura anche a un supereroe di fama conclamata. Da qualunque lato la si guardi, ne resteranno poco più di trecento e l’imperativo è crederci.

In bocca al lupo a tutti, supereroi e non.

 

Pm Cancro della democrazia

Ormai non c’è più limite al peggio. Non passa giorno che l’asticella della normalità non venga spostata qualche centimetro più avanti. All’udienza del processo Mills, il premier Silvio Berlusconi ha definito i pm “cancro della democrazia” (fonte | Repubblica.it). Mentre il presidente Napolitano invitava ad abbassare i toni, a chiudere le polemiche e i continui attacchi ai giudici nel giorno della memoria delle vittime del terrorismo, a Milano va avanti lo show propagandistico di Berlusconi fuori dalle aule del processo. Il Premier addirittura auspica la creazione di una commissione d’inchiesta “per verificare se ci sia un’associazione con fine a delinquere” (fonte | Repubblica.it).

Attacchi continui alla magistratura malvagia, unica indiziata dei mali di questo Paese. Attacchi che salgono gradualmente di tono, che equiparano un organo dello Stato istituito per far rispettare il diritto ad una malattia terribile e terminale. Il messaggio è chiaro, curare questo cancro, questa metastasi. La scelta dei termini utilizzati in queste dichiarazioni serve a colpire la massa, serve a dare un’immagine fortemente negativa del lavoro dei PM che, per l’appunto, non fanno altro che svolgere il proprio lavoro. Eppure vengono attaccati quotidianamente, insultati, delegittimati. Cosa si fa con il cancro? Lo si cura, lo si elimina, si cerca di estirparlo, prima che sia troppo tardi. Prima che porti alla morte del malato. Il solo pensiero fa accapponare la pelle, eppure in Italia la cosa passa quasi in sordina, non c’è indignazione, sembra quasi che le forze ormai siano finite, terminate. Chi si azzarda a contestare, a parlare, a dire la sua in maniera forse irruenta, viene trascinato di peso dalle forze dell’ordine, con un’aggressività onestamente ingiustificata (video qui). “Non si può più neanche parlare in questo paese.” Una frase che colpisce. Non è vero, caro il mio contestatore. Si può parlare, ma non tutti possono farlo. Tu non puoi urlare “fatti processare”, ma qualcun’altro può dire “i PM sono il cancro.” Paradossi tutti italiani che riempiono il cuore di amarezza.

Sono cadute le braccia a tutti, la voglia di combattere sta finendo, e continuiamo a sorbirci comizi pseudo-politici e propaganda elettorale spicciola dove tutto è permesso, dove lo Stato attacca sé stesso, rigetta i suoi organi principali. Un Premier che trasforma il suo essere imputato in un punto di forza o di debolezza degli avversari. Non si riesce a sconfiggerlo democraticamente, e allora i PM eversivi fanno di tutto per danneggiarlo. È questa l’immagine che passa, la realtà delle cose lontana dalla realtà dei fatti. Non fa più scandalo un Premier che è imputato in diversi processi ancora in carica al suo posto al Governo, lo scandalo diventano i PM che vogliono sovvertire il voto popolare (quella famosa maggioranza assoluta, che poi tanto assoluta non è), il voto democratico.

Ma sono davvero i PM il vero pericolo della nostra democrazia? O forse di quest’ultima non è rimasto più niente, è stata ormai fatta a brandelli? Chi è il vero cancro del nostro Paese?