[stextbox id=”custom” big=”true”]Mario Fresa è un magistrato della Repubblica italiana, nato a Roma il 22 settembre 1961. Entrato in magistratura il 22 dicembre 1987, è stato Pretore civile a Rieti e poi a Roma. Ha svolto poi le funzioni di magistrato addetto alla segreteria del CSM dal dicembre 1995 al giugno 2001, all’ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di Cassazione, dove ha svolto anche l’incarico di referente informatico presso la stessa Corte. Da sempre impegnato nell’Associazione Nazionale Magistrati, ha aderito al Movimento per la Giustizia sin dal 1988 ed ha svolto per diversi anni l’incarico di segretario del distretto romano. Nel 2003 è stato eletto nel Comitato Direttivo Centrale dell’ANM. Dal 2006 al 2010 è stato componente del CSM, ove ha svolto anche le funzioni di giudice della Sezione Disciplinare. E’ autore del libro “La responsabilità disciplinare nelle carriere magistratuali”. Attualmente svolge funzioni requirenti quale Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione.[/stextbox]
Cosa significa per Lei essere un magistrato?
Essere magistrato significa, anzitutto, attuare quotidianamente e con coerenza quei valori ai quali si è giurata fedeltà al momento dell’ingresso in magistratura. Attuare dunque i principi della Costituzione della Repubblica Italiana, che devono essere coniugati – in una dimensione europea da tempo recepita nel nostro ordinamento – con le norme dell’Unione Europea e quelle della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il magistrato contemporaneo, lungi dall’essere semplice “bouche de loi”, deve essere il vero e autentico custode di quei valori per i quali ha giurato fedeltà e, nel contrasto eventuale tra leggi positive e valori costituzionali, convenzionali ed euro-unitari, deve dare la prevalenza a questi ultimi, un po’ come Antigone fece applicando gli “αγραπτα νομιμα”, le consuetudini ritenute di origine divina, e disapplicando il “νομος”, la legge positiva del re Creonte.
Per far questo il magistrato non può astrarsi dalla società in cui vive, ma deve invece calarsi in essa, per essere in grado di interpretare le leggi garantendo la tutela dei diritti di tutti i cittadini, in egual misura, attraverso un continuo, difficile e mutevole raffronto con i diversi principi fondamentali, raffronto che può portare ad una delicata operazione di bilanciamento dei diversi ed a volte contrapposti valori in gioco. Questa operazione può portare, certo, a molteplici, legittime opzioni interpretative tra i diversi giudici dei tribunali e delle Corti d’Appello e tra questi ed i giudici della Corte di Cassazione, ma questa eventualità – se riportata nell’ambito fisiologico, evitando le interpretazioni abnormi e confidando nel buon esercizio della cosiddetta attività di nomofilachia della corte di cassazione (cioè nell’elaborazione di quei principi di diritto autorevoli ed al tempo stesso convincenti, in ciò assicurando una tendenziale unitarietà del diritto) – la considero un bene per la giurisdizione e per la stessa tenuta della democrazia del nostro Paese. Si, perché l’interpretazione delle leggi attraverso il consapevole bilanciamento dei diversi valori in gioco (il principio di eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge e le pari opportunità, la tutela dei lavoratori e l’iniziativa economica, il diritto alla salute ed alla libertà di autodeterminazione, la libertà di manifestazione di pensiero ed i doveri di riserbo, ecc.) rende il diritto più vicino ai cittadini e limita il distacco tra l’Auctoritas ed il comune sentire degli uomini, destinato ad evolversi nel tempo e, sicuramente, più velocemente di quanto non facciano le leggi stesse.
Cosa si deve intendere al giorno d’oggi, a Suo parere, con l’espressione “ bravo magistrato”?
Un bravo magistrato è colui che riesce a far ciò, in maniera imparziale e indipendente ed al contempo in modo moderno, aperto alle esigenze di efficienza del terzo millennio e della società della globalizzazione, – come ha affermato diversi anni fa un mio collega “prestato” alla politica, Elvio Fassone, in occasione della presentazione di un suo disegno di legge sulle verifiche di professionalità dei magistrati – laborioso, ma non attento soltanto a fare statistica; capace di ascoltare, più che di esprimere subito le sue convinzioni; portatore di opinioni, anche ferme, ma disposto a cambiarle dopo avere ascoltato; osservante del codice deontologico non meno dei quattro codici; prudente nel discostarsi da ciò che è consolidato, ma coraggioso nel sottoporre a verifica ciò che è pacifico; consapevole che ogni fascicolo non è una “pratica”, ma un destino umano; paziente nell’approfondire, indipendente nel giudicare, rispettoso nel trattare.
Un magistrato di tal genere, a mio parere, è un magistrato che, con riferimento alla famosa metafora del Calamandrei, della bilancia che porta in un piatto due grossi volumi e nell’altro una rosa (da un lato le leggi e la dottrina e dall’altro il costume degli uomini che hanno il compito di far funzionare quelle leggi), riesce a far pendere la Giustizia dalla parte della rosa.
Lei ha ricoperto ruoli molto importanti durante la sua carriera di magistrato, a cominciare dall’esser stato eletto membro del Consiglio Superiore della Magistratura fino al recente incarico di Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione. Cosa ha segnato maggiormente e come può sintetizzare, dal punto di vista professionale, la Sua esperienza al CSM?
L’attività giurisdizionale, se rettamente intesa non come esercizio di un potere personale, ma come esercizio di un servizio a tutela dei diritti fondamentali dei cittadini, è una professione capace di fornire immense soddisfazioni. Fare Giustizia, nel senso più autentico del termine, e cioè reintegrare o risarcire nei diritti lesi chi abbia subito una ingiusta violazione di regole e, al contempo, punire o sanzionare chi quelle regole, penali o civili, abbia ingiustamente violato, significa essere compartecipi di ciò che il Costituente ha voluto realizzare nel lontano 1948, all’indomani del ventennio fascista e di una tragica guerra che aveva sparso tanto sangue in terra italiana. Ed il costituente, nel prevedere forti garanzie per l’esercizio autonomo e indipendente del potere giurisdizionale, ha voluto preservarlo – nell’esclusivo interesse dei cittadini a veder assicurato il diritto all’eguaglianza dinanzi alla legge – da possibili attacchi, provenienti non solo dall’esterno e, in particolare, dagli altri poteri dello Stato (legislativo ed esecutivo), ma anche dall’interno della stessa magistratura. E’ per questo che la nostra Costituzione ha previsto che i magistrati si distinguono solo per funzioni, evitando con ciò possibili gerarchie all’interno del corpus magistratuale e possibili interferenze interne all’esercizio delle funzioni giudiziarie.
Oggi, che svolgo le funzioni di sostituto procuratore generale presso la corte di cassazione, non per questo svolgo funzioni sovraordinate rispetto a quelle che svolgevo da giudice-ragazzino e pretore, più di venti anni fa, in una piccola città di provincia. Giovanni Falcone, in una storica relazione tenuta a Milano nel lontano novembre 1988, affermò a ragione che non esiste il mestiere del giudice, ma esistono i mestieri dei giudici e che ciascuna funzione svolta è parimenti delicata perché incide direttamente sulla vita dei cittadini. I cittadini del resto hanno diritto non al miglior giudice possibile, ma ad un giudice (e ovviamente ad un pubblico ministero) attrezzato e attitudinalmente idoneo a risolvere la specifica questione giuridica. Per questo posso dire che tutti i “mestieri” che ho svolto hanno nella stessa misura segnato la mia formazione professionale.
Non posso negare, però, che l’essere stato componente del Consiglio Superiore della Magistratura nel quadriennio 2006/2010, e cioè aver fatto parte dell’organo che la Costituzione ha appositamente previsto per il governo autonomo della magistratura (con ciò intendendo sottrarre l’esercizio del potere giurisdizionale alle influenze della politica e dei partiti), ha segnato fortemente la mia vita professionale.
Il CSM è l’organo preposto ad assicurare alla giurisdizione e ai magistrati che la esercitano autonomia e indipendenza da ogni altro potere. Ma è anche l’organo che deve assicurare ai cittadini il buon funzionamento della giustizia e la professionalità dei magistrati. Quindi il CSM, come ha il dovere di tutelare i magistrati lesi nella loro autonomia e indipendenza di giudizio, ha anche il compito di intervenire nelle situazioni determinate da gravi cadute di professionalità nell’esercizio delle funzioni. La tutela dei magistrati lesi nell’esercizio delle funzioni e l’intervento nei casi in cui la giurisdizione perde credibilità a causa di comportamenti scorretti sono due facce della stessa medaglia.
Nella mia recente esperienza mi sono sempre battuto perché queste prerogative del CSM fossero in egual misura assicurate. Ho ad esempio contributo alla deliberazione di diverse pratiche a tutela della giurisdizione dai continui attacchi e denigrazioni del Presidente del Consiglio, ma ho pure contribuito a sanzionare magistrati, anche famosi, perché si erano resi protagonisti di gravi cadute di professionalità.
Non sempre però molti componenti del CSM hanno avuto la stessa sensibilità sul fronte, per così dire, interno. Ancora oggi, non sono superate vecchie concezioni corporative tese a difendere il collega sempre e comunque, anche quando sbaglia. Salvo, a volte, a prenderne le distanze quando poi le questioni acquistano rilevanza pubblica e mediatica (P3, P4, ecc.). Per non parlare di quando si devono verificare in comparazione più professionalità al fine di conferire importanti incarichi direttivi. Qui, la conoscenza diretta o indiretta del singolo candidato o, a volte, pregiudizi ideologici, giocano ancora un ruolo negativo che determina una grave caduta di immagine dell’organo di governo autonomo. E sono fattori che hanno indotto talvolta persino il Capo dello Stato – che il CSM presiede – ad intervenire stigmatizzando queste patologie.
Ecco, a mio parere il CSM potrebbe fare molto di più su questo aspetto. Non si può essere credibili quando si interviene a tutela dei magistrati lesi nell’indipendenza se al contempo non si è rigorosi e scrupolosi nel valutare la loro professionalità, tanto ai fini del conferimento di importanti incarichi, quanto ai fini di eventuali sanzioni disciplinari.
Quando era in carica al CSM Lei era membro della sezione disciplinare, sede deputata all’applicazione delle sanzioni nei confronti dei magistrati. Quali sono le sanzioni in cui possono incorrere i magistrati in caso di fatti commessi durante l’esercizio della propria funzione?
La riforma legislativa del 2006, che ha tipizzato le singole fattispecie di illecito disciplinare per fatti commessi sia nell’esercizio delle funzioni sia al di fuori dell’esercizio delle funzioni, prevede ora le seguenti sanzioni per il magistrato che viola i suoi doveri: 1) l’ammonimento, che è la sanzione più lieve e si risolve in un semplice richiamo all’osservanza, da parte del magistrato, dei suoi doveri, in rapporto all’illecito commesso; 2) la censura, che è una dichiarazione formale di biasimo; 3) la perdita di anzianità nel ruolo, prevista da un minimo di due mesi ad un massimo di due anni, che si riflette in un ritardo nella progressione economica e di carriera del magistrato; 4) la temporanea incapacità ad esercitare un incarico direttivo o semidirettivo, per un periodo che può andare da sei mesi a due anni; 5) la sospensione dalle funzioni, che consiste nell’allontanamento dalle funzioni esercitate, con la sospensione dello stipendio entro limiti dipendenti dalla classe economica in cui è collocato il magistrato per effetto della sua anzianità; 6) la rimozione, che è la sanzione più grave e determina la cessazione del rapporto di servizio.
E qual è il rapporto tra gli illeciti penali e quelli disciplinari commessi da un magistrato?
Il magistrato, come ogni altro cittadino, può rendersi responsabile di reati, commessi sia nell’esercizio delle funzioni, sia al di fuori delle funzioni. Anche un atto o un provvedimento giurisdizionale, dunque, possono essere strumenti di commissione di reati (abuso d’ufficio, interesse privato in atto d’ufficio, corruzione, ecc.). In questi casi il magistrato utilizza la giurisdizione a fini propri, privati e diversi da quelli istituzionali, di tutela della collettività o, comunque, dei diritti soggettivi delle parti in causa e la responsabilità penale concorre con quella disciplinare.
Si pongono quindi complicati problemi di rapporti tra le diverse tipologie di illeciti, che si riflettono, ad esempio, sulla possibile sospensione del procedimento disciplinare ogni qualvolta sia esercitata l’azione penale per lo stesso fatto, sino all’esito del giudicato penale. Paradossalmente, l’efficacia della giustizia disciplinare che si sta dimostrando agile strumento di repressione di gravi cadute di professionalità può essere vanificata, nei casi più gravi, proprio dal concorrente ed a volte pregiudiziale procedimento penale, che può giungere dopo anni alla definitiva conclusione. In questi casi, o si assiste ad una possibile “fuga” dalla giurisdizione, mediante le dimissioni del magistrato o, in mancanza dei presupposti per l’adozione della misura cautelare della sospensione dalle funzioni, si espone per anni la collettività all’esercizio della giurisdizione da parte di un magistrato-imputato, con perdita della credibilità del magistrato stesso e con grave discredito dell’istituzione giudiziaria.
Parlando in termini pratici qual è oggi il rapporto tra la politica e la magistratura?
In un Paese “normale” il rapporto tra politica e magistratura dovrebbe essere la conseguenza del noto principio della ripartizione di attribuzioni tra i diversi poteri dello Stato (legislativo, esecutivo e giudiziario). Vorrei chiarire che si fa confusione quando si nega l’esistenza, nel nostro ordinamento, del potere giudiziario. Se la magistratura, nel suo complesso, non è un potere, ma – per dettato costituzionale – un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere, ogni singolo magistrato, nel momento in cui rende giustizia in nome del popolo italiano, esercita un potere dello Stato.
I problemi sorgono, per un verso, quando una buona parte della politica – da sempre non incline a subire un efficace controllo di legalità – si rende intollerante verso le decisioni giurisdizionali non gradite e denigra, delegittima dinanzi all’opinione pubblica i magistrati che si sono resi responsabili di decisioni non gradite, o la magistratura nel suo complesso; per altro verso, quando alcuni magistrati protagonisti violano i doveri di riserbo o correttezza, utilizzando il potere giudiziario a scopo di notorietà, propaganda o altro.
Pur quando non si giunga ai veri e propri conflitti di attribuzioni tra poteri dello Stato, che vengono decisi dalla Corte Costituzionale e che rappresentano, per fortuna, un numero limitato di casi, oggi il rapporto tra politica e magistratura è particolarmente inquinato e si caratterizza spesso per la “personalizzazione” delle vicende giudiziarie che porta, a volte, il potere esecutivo ed il potere legislativo ad emettere veri e propri provvedimenti legislativi “ad personam”, onde evitare non solo il ripetersi in futuro di scomode inchieste giudiziarie, ma addirittura la paralisi dei processi in corso.
E’ questa una anomalia tutta italiana, che in Europa ed in altre parti del mondo viene biasimata e condannata. I principi del rispetto reciproco dei diversi ruoli e dell’equilibrato bilanciamento tra poteri dello Stato, e tra questi e le cosiddette Istituzioni di garanzia (il Presidente della Repubblica, la Corte Costituzionale, il Consiglio Superiore della Magistratura, ecc.) è infatti il pilastro imprescindibile di ogni moderna democrazia.
I magistrati sono effettivamente autonomi e indipendenti, come d’altronde prescrive la nostra Costituzione, oppure esiste una qualche interferenza inevitabile con il Governo o con il Parlamento?
L’autonomia e indipendenza di ciascun magistrato dipende, ovviamente, dalla coscienza e dalla sensibilità del singolo nell’esercizio delle funzioni. Come detto precedentemente, un magistrato che si riveli in concreto non indipendente può rendersi responsabile di reati penali od illeciti disciplinari, in relazione ai quali sono auspicabili severe sanzioni.
Sul piano disciplinare, sembra opportuno richiamare le norme che, a presidio dell’indipendenza e imparzialità del magistrato, prevedono: a) il divieto di partecipazione ad associazioni segrete o i cui vincoli sono oggettivamente incompatibili con l’esercizio delle funzioni; b) il divieto di coinvolgimento nelle attività di soggetti operanti nel settore economico o finanziario che possono compromettere anche solo l’immagine del magistrato; c) il divieto di iscrizione o partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici.
Dunque, il magistrato non può occuparsi in modo attivo e continuativo di politica. La presenza di magistrati fuori ruolo per mandato parlamentare o per altri incarichi che comunque rivestono responsabilità politiche sembra dunque una contraddizione in termini. Eppure è una realtà. Una realtà che, vorrei sottolineare, riguarda ogni orientamento politico. Non esistono toghe rosse o toghe nere. Esistono toghe che si vestono e si svestono con troppa disinvoltura. Da tempo, l’ANM chiede ai politici una legge che impedisca la commistione tra politica e magistratura, limitando al tempo stesso le interferenze tra le ragioni della politica e le ragioni della giustizia. A mio parere, sul punto, sarebbe sufficiente la previsione secondo la quale un magistrato che entri in politica, una volta cessato il mandato, non possa più rientrare nel ruolo della magistratura. Infatti, il punto dolente non mi pare quello di limitare i diritti politici del magistrato che, come ogni altro cittadino, può anche compiere la scelta di passare a svolgere attività politica. Mi pare piuttosto quello di garantire che questa scelta, una volta effettuata, sia irreversibile e segni una scissione definitiva, sincronica e diacronica, tra attività giurisdizionale e attività politica. Perché scarse garanzie di imparzialità possono avere coloro i quali, dopo aver svolto attivamente e continuativamente attività politica, tornino poi alla giurisdizione.