Nato dalla piccola borghesia di colore (suo padre, funzionario, arrotondava lo stipendio come maître delle famiglie benestanti di Washington), Duke studia arte decorativa (vinse il concorso della NAACP – National Association for the Advancement of Coloured People: associazione per il miglioramento della condizione della gente di colore) prima di scegliere la musica che egli conosce da Henry Grant e che esercita partecipando a delle riunioni a Washington (True Reformer’s Hall, Abbott House, Oriental Theatre…). Viene ingaggiato da Louis Thomas, Daniel Doyle, Doc Perry, Elmer Snowden e Russel Wooding prima di riunire un gruppo, The Duke’s Serenaders, che diventerà The Washingtonians. Con lui troviamo: Elmer Snowden (banjo), Otto Hardwick (alto sax) e Arthur Whetsol (tromba).
Duke suona al Barron’s e all’Hollywood Club. Alla direzione della sua orchestra, nel 1924, firma il successo della rivista Chocolate Kiddies e inizia ad esibirsi regolarmente nel New England, particolarmente alla Charleshurst Ballroom di Salem, al Flamingo di New York, al Ciro’s, con Harry Richman, al Cafè Plantation, al Kentucky Club, al Lafayette e allo Standard Theatre di Filadelfia. Tutto questo accade dal 1925 al 1927, anno in cui la sua orchestra, gestita da Irving Mills, viene scelta per suonare al Cotton Club, fino al 1931, ma ciò non gli impedisce di suonare anche al Palace, al Paramount, al Fulton e di recarsi in California dove lavora per il cinema. Numerosissimi gli spostamenti di Duke e la sua formazione a partire dal 1933, anno dei suoi primi concerti a Londra e Parigi. Fino alla vigilia della sua morte, instancabile e spinto da un vero spirito missionario, Ellington gira tutto il mondo, suona sia nei dancing popolari sia nei club altolocati, sale da concerto, festival, per ogni tipo di pubblico, per ogni etnia, per tutti, dagli studenti ai capi di stato e gli amanti del Jazz.
Dal 1924 al ’39 possiamo dire che le sue produzioni appartengono allo stile Jungle. Dopo aver obbedito allo stile “saltellante”, di moda all’inizio degli anni ’20, Ellington esplora un nuovo universo sonoro in cui il tono rauco degli ottoni, aggressivo e vocalizzato dell’uso di sordine in gomma (wah wah “sordina a cappello o a bombetta”) si mescola alla dolcezza degli strumenti ad ancia su una base ritmica solidamente costruita. Il suo incontro con Bubber Miley determina questa scelta. Soprannominato stile jungle (la giungla del ghetto di Harlem) questo modo unico e originale permette a Ellington di valorizzare un repertorio in cui il blues (vedi The Mooche), in ogni tempo, occupa un posto essenziale accanto a melodie raffinate ed esotiche (vedi Mood Indigo). Il Kentucky Club e il Cotton Club sono il teatro dei grandi exploit del Jungle in cui la musica accompagna dei balletti e danze acrobatiche negli stomps frenetici. In questo contesto Duke sa integrare dei ritmi e delle coloriture latino-americane – Cuba e Portorico – per attirare più pubblico e ottenere dei successi commerciali (vedi Caravan). È anche un precursore delle formule concertanti che permettono di valorizzare un solista (vedi Echoes of Harlem). Intorno a Duke, i suoi musicisti, tutti della sua generazione, sono in perfetto accordo con le sue ambizioni.
In questo periodo, per aggirare dei contratti in esclusiva, l’orchestra registra sotto gli appellativi di: D.E. And His Famous Orchestra, Washingtonians, Whoopee Makers, Harlem Footwarmers, Six Jolly Jester’s, Mill’s Ten Blackberries, Harlem Hot Chocolates, Jungle Band, Memphis Hot Shots, Sonny Greer And His Memphis Men.
Diventato uomo di fiducia di Ellington, il pianista e arrangiatore Billy Strayhorn, venticinque anni nel 1940, contribuisce a ringiovanire la formula della grande orchestra di Duke, permettendole così di rivaleggiare con le formazioni dell’epoca dello Swing (Goodman, Lunceford, Dorsey e Basie). Lo spirito dello stile Jungle viene integrato in uno schema più flessibile. Le sezioni strumentali sono aumentate, si sviluppa l’uso del riff, la ritmica diventa più agile; i solisti prendono di nuovo il sopravvento. Fra essi, il geniale contrabbassista Jimmy Blanton e il tenore di Ben Webster. Ma anche il trombettista e violinista Ray Nance, i trombettisti Taft Jordan e Cat Anderson, il clarinettista Jimmy Hamilton, il contrabbassista Alvin Raglin, i vocalist Joya Sherrill, Betty Rochè, Al Hibbler e Herb Jeffries.
Verso la metà degli anni ’40 Duke sviluppa il suo repertorio; conserva alcuni dei suoi pezzi Jungle e dei successi dei primi anni ’40, ma aggiunge delle opere descrittive o impressioniste, spesso in tempi lenti, in cui si sviluppa un esotismo a mezze tinte languide e sfumate. Compone delle suite concertanti di lunga durata in cui mescola tutti questi ingredienti per costruire qualcosa di coerente in cui egli possa esprimere un’idea globale del mondo delle emozioni. Si uniscono all’orchestra i trombettisti Harold Baker, Nelson Williams, Francis Williams, Willie Cook e Clark Terry, i trombonisti Claude Jones, Wilbur DeParis, Tyree Glenn, Quentin Jackson, i sassofonisti Russell Procope, Willie Smith, Paul Gonsalves, i bassisti Oscar Pettiford e Wendell Marshall, i batteristi Dave Black e Louie Bellson, i vocalist Kay Davis e Yvonne Lanauze. In questo periodo Billy Strayhorn è ancora il braccio destro di Duke.
Dal 1955 Duke è alla ricerca, da una parte, di una sintesi dei suoi lavori e, dall’altra, di nuovi incontri. Dirige la sua orchestra, suona e risuona con essa, trionfa al festival di Newport (1956).
Lo si ascolta sempre di più al piano, con la sua orchestra ma anche in altri contesti, particolarmente in trio. Dal 1965, in particolare, cerca di terminare una suite di musica sacra, In The Beginning God, che egli presenta nelle chiese e nei templi degli Stati Uniti e d’Europa, cercando una vita ecumenica che riprenda anche i principali movimenti della Black, Brown And Beige (storia dei neri). Dopo diversi successi, tornano accanto a Duke le vedette che lo avevano già affiancato: Cootie Williams, Johnny Hodges, Lawrence Brown e l’organista Wild Bill Davis che, dopo la morte di Billy Strayhorn nel 1967, prepara degli arrangiamenti per l’orchestra.
L’arte di Duke Ellington si impone come l’espressione originale, accessibile a ogni tipo di pubblico, di una negritudine contemporaneamente accettata e superata. Predica una possibilità di comunicazione universale, senza abusare troppo delle canzonette o degli effetti di virtuosismo. Mescolando lo spirito del blues all’inventiva orchestrale più raffinata, la musica di Ellington, in costante riferimento alla cultura afroamericana, resta popolare evitando le trappole della moda. Duke Ellington è, con Louis Armstrong, il più importante “creatore” del Jazz. Al contrario di Armstrong, il cui genio si esprime nelle improvvisazioni, Ellington traduce il suo pensiero attraverso la sua orchestra. In collaborazione con diversi musicisti compone, da un materiale abbastanza semplice, dei temi seducenti che lui stesso riveste di superbe orchestrazioni dall’atmosfera armonica raffinata, dalle mescolanze sonore delicate. Nell’interpretazione di questi brani egli mira all’emozione, al movimento e allo swing, facendo dare il meglio di loro stessi a solisti scelti con cura, esaltando le loro improvvisazioni con dei background originali e degli interventi al piano, strumento che Ellington utilizza in modo molto personale. La sua esecuzione, proveniente dal ragtime e dallo stride di New York, si basa su un senso molto vivo dei contrasti e delle nuance e su una tensione ritmica sempre molto accentuata. Fino alla morte, Duke Ellington resterà fedele alla grande tradizione nera americana (blues e swing). È il vero e proprio creatore dell’estetica della grande orchestra e riesce a piacere in tutto il mondo, pur raccontando la storia del suo proprio popolo.