Umberto I: “Accade spesso”. Ma perché accade?

La vicenda della paziente lasciata in una lettiga per giorni è entrata in tutte le case italiane, compresa la mia. E ha destato stupore, sgomento, disprezzo.

In qualità di operatrice sanitaria, spesso alle prese con la dimensione dell’urgenza, non ho potuto esentarmi dal vivere emozioni e percorrere analisi, spesso ambivalenti o addirittura contraddittorie tra loro. Lo sdegno, l’immedesimazione nei familiari o nei sanitari, il disprezzo per le aree dirigenziali, la preoccupazione per un sistema sanitario che vacilla ogni giorno di più.

Che situazioni analoghe (non esattamente uguali) a questa si verifichino di frequente nei maggiori ospedali, specie nei grandi centri urbani, purtroppo non è cosa nuova. Si arriva in pronto soccorso con barelle ovunque, feriti, persone agonizzanti e spesso si  individuano casi che meriterebbero un ricovero immediato. Ma il posto letto non c’è. Occupato da pazienti ricoverati in regime ordinario (ossia giunti dal domicilio e non in urgenza), destinati a procedure diagnostiche che richiedono il ricovero o a trattamenti medico-chirurgici complessi e, il più delle volte, salvavita. Se dessimo spazio sempre e solo all’urgenza, i pazienti non sarebbero mai ricoverati e non potrebbero accedere ad interventi per tumori, malformazioni cardiache o vascolari da correggere, malattie degenerative da diagnosticare e trattare per quanto possibile. Insomma, le persone, se rispettassimo sempre e solo l’urgenza, probabilmente morirebbero a casa propria, morirebbero d’attesa, potremmo dire, in maniera analoga a coloro che sono in attesa in pronto soccorso.

Ovviamente è necessario un giusto equilibrio tra ricoveri programmati e urgenza: e chi lo deve concretizzare? I direttori, i caposala, la direzione, i medici stessi. E lo fanno? Parlando della mia esperienza personale in realtà disparate e diverse tra loro, risponderei  un secco no. La sensazione è quella di una profonda disorganizzazione; di un’infantile rivalsa sui colleghi ricoverando i “propri” pazienti; di uno spasimo direttoriale nel ricercare DRG più succulenti (il DRG è una classificazione usata per il finanziamento ospedaliero).

Ma dobbiamo confrontarci anche con un altro dato: gli enormi tagli dei posti letto che sono stati effettuati a carico delle cosiddette “low care”, ovvero le unità a bassa intensità di cura, ove defluisce la maggior parte dei malati che accedono ad un pronto soccorso. Le persone anziane con malattie in fase di scompenso, i ricoveri per indigenza (dobbiamo ricordarci che gli indigenti italiani e stranieri sono in vertiginoso aumento), i ricoveri per assistenza in fase terminale o per supporto di persone abbandonate al proprio destino costituiscono una larga percentuale dei pazienti che giungono al pronto soccorso. In confronto, il numero di pazienti destinati ai reparti specialistici o iperspecialistici è incredibilmente esiguo.

E sebbene questo dato sia incontrovertibile e ormai noto a tutti, le grandi aziende ospedaliere investono in reparti di lusso per patologie rare ove effettuare qualche trattamento da prima pagina del quotidiano nazionale.

E gli altri? Affari loro; non portano soldi, rappresentano un costo a fronte di nessun riconoscimento regionale o nazionale. Perché occuparsene? Ed ecco i tagli alle strutture. Ed ecco la frustrazione dei medici d’urgenza e gli specialisti che turnano in pronto soccorso, impotenti a Roma o Milano come potrebbe essere impotente un ostetrico in Burkina Faso, di fronte alla mancanza di risorse, mezzi, possibilità.

Ma non siamo in Africa. E le risorse ci sono. Ma sono male allocate, a partire dai vertici.

 In Emilia Romagna sono nate le Case della Sanità, strutture che coagulano risorse quali medici di base, pediatri di base, guardie mediche con modalità e tempistiche quasi sovrapponibili  a quelli del pronto soccorso, ovviamente per pazienti senza i criteri di urgenza. E i malati, grazie alla promozione, alla divulgazione e alla conoscenza, stanno cominciando ad affidarsi, senza correre per qualsiasi cosa in pronto soccorso.

La dirigenza che rappresenta la categoria dei medici di base promette (e dico “promette”) ristrutturazioni sostanziali che valorizzino, riqualifichino e tutelino la figura del medico di medicina generale, elemento essenziale nella lunga filiera della salute, che fino a una ventina di anni fa costituiva la roccaforte per le paure delle famiglie italiane in ambito sanitario.

Che cosa manca?

Manca la visione d’insieme. Manca la realizzazione dei progetti in fieri e l’estensione di quelli già in corso solo in poche fortunate regioni. Manca una ristrutturazione degli ospedali in direzione opposta a quella che stiamo percorrendo.

Ma ciò di cui maggiormente si sente la mancanza, nonché il bisogno, è un ritorno alle origini. Senza paura di apparire reazionaria o retorica, credo si debba tornare ad una visione della salute, della cura e dell’accudimento del tutto autentica, gratuita, onesta. Dove, certamente, i conti devono tornare ma non possono giustificare scelte indecorose, politiche mafiose, atteggiamenti omertosi e vili.

In fondo, abbiamo recitato il giuramento in nome di Ippocrate, non del dio denaro.

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Giovani medici: una risorsa o una preoccupazione?

Di recente sono stata “costretta” a partecipare a eventi che generalmente rifuggo: i congressi medici (“scientifici” suona decisamente sperticato).
L’ultimo, in particolare, mi ha fatto pentire amaramente di non aver millantato una malattia folgorante e misteriosa dell’ultimora: un coacervo di baroni, marchesi, conti e nobili decaduti superesperti – o presunti tali – di una determinata patologia. Al loro seguito, come vassalli, valvassini e valvassori, uno stuolo di giovani dallo sguardo rapace, l’andatura spavalda e la parlantina da “sono un nobel in fieri”. Una tragedia.
A dire il vero non so, di tutto quello cui ho dovuto assistere, cosa mi abbia sconfortata maggiormente. La presunzione di vecchie cariatidi che per presentare i loro studi triti e ritriti sul pomodoro come fattore di rischio per il tal malanno si citano addosso e urlano contro i tecnici perché un loro video del 1980 non parte immediatamente? L’affastellamento di scempiaggini prive di buon senso e concretezza clinica che affollano i discorsi di questi signori per colmare il vuoto assoluto (e riconosciamolo!) della nostra conoscenza su certi fenomeni? Il modo indecoroso con cui emeriti Cav.Lup.Man, dalle distinte qualifiche e onorificenze, si scaraventano sul buffet a piene mani, con le mandibole ferine, sgomitando anche se sei una dolce donzella (ovviamente fanno eccezione le hostess, alle quali si rivolgono con rivoli di bava incipienti)? Lo scambio avido di biglietti da visita tra “giovani figli di” con “giovani amanti di” o “giovani sponsorizzati da”? La frase: “noi italiani non abbiamo nulla da invidiare agli stranieri perché abbiamo pubblicazioni quanto… anzi! Più di loro!” Peccato per l’omissis: italiani… all’estero.
Non saprei.
Certamente i giovani mi preoccupano molto, non solo per la vicinanza anagrafica o per una potenziale invidia repressa. Piuttosto perché loro sono il futuro (?). Prima o poi le cariatidi se ne andranno e, di questo passo, nelle mani di ignoranti e presuntuosi figliocci di una generazione decadente, che fine faremo?
Però, il momento attuale che il fato (maledetto) mi ha scagliato addosso come un boomerang – un momento di enorme preoccupazione per la salute di un mio familiare – ha offerto punti di vista e scorci interpretativi inediti.
La persona che si è fatta carico della situazione immediatamente, vista la giovane età e il sospetto preoccupante, è stata una mia coetanea: pur non sapendo della parentela stretta con un medico, senza che io intervenissi, senza passare per vie private, senza avere necessità di fare numero in un’eventuale casistica, per un possibile articolo e probabile correlata gloria. A sue spese: tempo, organizzazione, spazi, numeri di cellulare e indirizzi e-mail personali forniti spontaneamente (con quello che può voler dire, per un medico, se riposti in mani incaute).

Le persone che mi hanno accolta offrendomi il massimo dell’ascolto e della disponibilità gratuita – quando sconvolta ho chiesto aiuto e un canale rapido, anche a pagamento – sono miei coetanei. E all’ascolto sono seguiti i fatti, pur dovendosi fermare ore in più, per gli esami e i relativi referti. Non solo: le loro parole e le loro strette di mano sono state per me dolorose (come non decodificare gesti che ho fatto io stessa un sacco di volte?) ma balsamiche, gentili, buone, carezzevoli.

Le persone che mi hanno respinta con un secco “non so cosa dirti, mi spiace ma sono di corsa, vai e chiedi aiuto a qualcuno”, sono persone che lavorano con me, a stretto contatto con me. Non sono mie coetanee. Non hanno alzato una volta la cornetta per chiedermi a che punto siamo e come sto. Anzi, quando mi vedono girano al largo, mica che ci sia qualche altra richiesta nell’aria.
Da questo groviglio professional-esistenziale voglio trarre alcune conclusioni (del tutto non definitive).

Ho deciso di credere che una vita triste, la professione, il sistema o non so cos’altro (e non mi interessa) abbiano segnato certi medici al punto da renderli mostri.
Ho deciso anche che aspetterò con pazienza (e una bottiglia di champagne) che si estinguano e spariscano da una professione per cui non sono nati – o cresciuti.
Ho deciso di allontanare il più possibile dai miei occhi e dal mio lavoro le civette sui comò di antistorici tromboni ormai aterosclerotici.
Ho deciso di aspettare a distanza anche la loro senescenza, nel frattempo pregando che un UFO se li porti via durante uno dei ridicoli meeting da giovani enfants prodiges.
Ho deciso di credere nella quota di persone giovani che come me fanno notte per un paziente che necessita del mio aiuto, che come me sanno accarezzare con lo sguardo chi ne ha bisogno, che come me non guardano l’orario, il ceto o il colore.
Ho deciso, però, che sia riduttivo credere nell’età come unica discriminante. Credo profondamente nell’“individualità”, intesa come unità esistente, unica e irripetibile.
Ho deciso che appoggerò le “unità irripetibili” (ancor più se giovani) che fanno questo mestiere in modo autentico, genuino ed empatico: parlando di loro, cercando di interagire con loro, sperando di poter costruire “insieme a loro” un futuro per questo sciagurato paese.
Per il momento, li ringrazio di cuore.

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Un'estate in ospedale, con il salvagente per paura di affogare (parte 2)

[stextbox id=”custom” big=”true”]Torna su Camminando Scalzi la rubrica “Med and the City” a cura della nostra blogger/medico Betty Bradshaw. L’articolo che state per leggere è la seconda parte  del racconto post estivo scritto da Betty. Qui il link al primo capitolo.

questo link trovate tutti i post precedenti di Med and the City. Buona lettura! [/stextbox]

L’estate in ospedale che, mi rendo conto, è ormai solo un lontano e funesto ricordo (ancora capace, però, di serpeggiare malvagio nelle stanze della memoria) non se ne va lasciandoti indifferente. Non è come qualsiasi altro periodo dell’anno: costituisce un amplificatore di paure.  Le paure che ogni sanitario, dotato di buon senso e ragionevolezza, dovrebbe sentir vibrare dentro di sé osservando il panorama medico-assistenziale di questa era buia e truce che siamo a vivere. La paura dei tagli al personale, ai servizi, ai supporti di base; la paura conseguente di commettere un errore sulla pelle di qualcuno o sulla propria. La paura dell’incapacità, da parte delle risorse attuali, di affrontare il sorprendente cambiamento della durata della vita. La paura di non riuscire a corrispondere le aspettative altissime di una società in cui il tessuto famigliare non esiste più, dove si nota un imbarbarimento dell’utente medio, che manca di qualsiasi forma di rispetto verso chi assiste, e in cui la morte è considerata un elemento non più accettabile, nemmeno per “giusta”, naturale e talora confortante causa.

In estate il personale viene dimezzato (o meglio, si auto-dimezza) per l’arrivo delle tanto agognate ferie estive. Abitualmente la gestione delle partenze e degli arrivi è irrispettosa verso chi resta ad assistere (e quindi a chi deve essere assistito): non è pensabile che al dimezzamento del numero dei letti possa corrispondere una riduzione del personale a meno di un quarto del totale. È matematica spicciola, non filosofia. E il risultato di questa leggerezza dell’animo gestionale si traduce in una vignetta del tipo: “io (medico) continuo a fare il massaggio cardiaco, tu (infermiere 1) chiama il rianimatore e prendi le piastre del defibrillatore, tu (infermiere 2) vai a vedere se la signora che ha avuto una crisi epilettica dieci minuti fa è ancora viva; tu (operatore socio-sanitario) per favore chiama il pronto soccorso e dì che vedrò il paziente con l’ictus appena avrò risolto qui”. Worst-case scenario (e anche il più probabile ad agosto)? Un morto (il povero signore con l’infarto, in particolare se il telefono della rianimazione è occupato), un ferito grave (la signora con la crisi epilettica mal gestita, tanto più se malauguratamente ha aspirato saliva durante la crisi), un invalido a vita (il paziente con ictus, specialmente se avrebbe potuto giovare da trattamenti specifici e invasivi).

Se sopravvivi psicologicamente e legalmente a tutto questo, devi ricordare a te stesso che “the show must go on”.  Ossia: hai davanti a te mezza giornata e una notte nelle stesse condizioni e, dopo qualche misera ora di riposo nella canicola agostana, ricomincerai alla stessa maniera, per una ventina di giorni almeno. Se poi hai la disgrazia di condividere siffatta macilenta zattera con altri due/tre lavativi-irresponsabili-menefreghisti-disamorati cronici che ti danno il cambio nei turni, beh… A quel punto hai capito che davvero non sarai uno dei prescelti dalla matrigna selezione naturale.

Il rischio di commettere errori incrementa esponenzialmente ogni giorno che pass,a e i pericoli per la tua salute e la tua incolumità fisica (l’incidente stradale è dietro l’angolo) tendono agguati quotidiani, aumentando la tua soglia di ansia, attivazione e, dulcis in fundo, frustrazione. Il rischio burnout (Betty ce ne aveva parlato in un altro articolo, ndR) è davvero altissimo.

La “calata” in pronto soccorso nel mese di agosto offre uno spaccato sociale e antropologico del nostro tempo, meglio che in qualunque altro periodo dell’anno (con il suo climax nel giorno di ferragosto).  Orde di ultranovantenni in condizioni dolorosamente indecorose giungono in ospedale, accompagnati da una fiera di badanti, parenti di 5°-6° grado in cerca di eredità, vicini di casa in infradito e pantaloncini hawaiani che sbraitano come selvaggi per la lunga attesa. Motivo dell’accesso: “per qualche secondo lo sguardo della nonna  non è stato quello di sempre”.

Ora: ammettiamo che mia nonna abbia 96 anni, sia inferma, con le piaghe, incapace di parlare e nutrirsi da sola e che io mi rendessi conto, tra un fritto misto e un’insalata nel pranzo di ferragosto, di un suo sguardo perso, cosa farei?

A) Anzitutto: avrei lasciato che mia nonna fosse messa in un letto con una nutrizione artificiale, con dolori da piaga mostruosi, con infezioni ricorrenti, priva di qualunque lume della ragione?

B) Se ravvisassi che Dio la sta chiamando a sé regalandole, chissà, un sollievo dalle attuali pene terrene, la abbraccerei forte, e in lacrime proverei ad accompagnarla nel lungo e triste viaggio. Mai e poi mai la sottoporrei a ore di estenuante e inutile attesa nella medina di Beirut (il Pronto Soccorso).

La morte, al giorno d’oggi, è un fatto socialmente inaccettabile, anche quando è naturale, fisiologico e rassicurante. C’è un delirio di onnipotenza nei medici – e di eternità nei parenti degli assistiti – che è preoccupante. Come anche è preoccupante il fatto che la capienza delle strutture sanitarie a oggi presenti non è sufficiente nemmeno per chi a quarant’anni scopre di avere un tumore e deve essere operato per sperare di arrivare ai quarantacinque. Ma quand’è che abbiamo perso la strada? Quando abbiamo creato un’immagine dell’uomo sempiterna? Quando abbiamo cominciato a rifiutare l’esistenza della morte a costo di costringere qualcuno a morire ogni giorno?

D’estate il pronto soccorso è anche pieno di extracomunitari che non parlano e non comprendono l’italiano. Abbiamo a disposizione UN mediatore culturale. E gli altri 300 pazienti? Vogliamo finalmente accettare che la multietnicità fa ormai parte del nostro paese e che chiudere gli occhi di fronte alla sempre crescente numerosità di stranieri non ci consentirà mai di farli sparire come molti vorrebbero? Vogliamo prendere atto del fatto che le enormi differenze culturali vanno rispettate, capite e talora accettate anche se incompatibili con il nostro modello assistenziale?

Come se non bastasse, in estate il disagio psichico affiora a pelo d’acqua con veemenza, così come durante le festività. Poveri cristi disperati e abbandonati dal mondo affollano le sale visita con urla raccapriccianti o pianti dolorosissimi. Pensiamo davvero che le pochissime rispettabili e onorevoli case-alloggio siano sufficienti? Crediamo con tutta onestà di avere dedicato sufficienti risorse economiche agli operatori che fronteggiano ogni giorno la realtà tragica del disagio psichico?

Da ultimo (ma non meno importante): fino a quando dovremo trovare parole di amorevolmente inutile comprensione verso gli ultrasettantenni genitori di giovani disabili che speravano in un ricovero estivo in ospedale (in quanto “teoricamente” meno affollato) e invece si trovano di fronte all’ennesimo rimbalzo al domicilio?

Queste nuove emergenti e preoccupanti percezioni etiche e morali distorte, associate alla più completa, reiterata e sfacciata inettitudine della classe dirigente a tutti i livelli ci avvicinano paurosamente al collasso. Le fantasmatiche paure del mio inconscio, d’estate, mi scuotono con violenza. Un mese in queste condizioni potrebbe diventare la realtà quotidiana. Inaccettabile.

Non ho idea di come e su chi si possa intervenire, tanto più in tempi di crisi come questi.  Non ho idea di quali saranno le nostre sorti, di quanti morti e feriti dovremo avere sulla coscienza prima di renderci conto che il futuro non è nella direzione che stiamo percorrendo ma in quella opposta. L’autostrada che abbiamo imboccato è un percorso tronco: a un certo punto, di botto, l’asfalto finirà e cadremo nel vuoto.

Un’inversione a U in autostrada è proibita, vietata, pericolosissima. Forse, però, l’unica soluzione è chiudere gli occhi, prendere il volante e sterzare vigorosamente.

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Un'estate in ospedale, con il salvagente per paura di affogare

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L’estate in città non è mai qualcosa di banale.

L’estate al lavoro non ti lascia mai indifferente.

L’estate in ospedale non se ne va mai senza averti impresso in corteccia ricordi indelebili.

Vivere e lavorare d’estate è sempre un po’ diverso dalla vita di tutti gli altri giorni dell’anno: le strade, i luoghi pubblici, le vie, le facce delle persone mutano gradualmente, man mano che ci si addentra nel caldo e nell’afa col trascorrere dei mesi. Aprire gli occhi e scrutare intorno a sé con attenzione e curiosità è un modo efficace per sopportare meno tediosamente le ore afose che ci toccano.

Le persone che restano a casa girovagano per le vie assolate con volti tranquilli e un po’ sparuti. Il tempo è come se fosse meno inclemente: la marcia di tutti è un po’ meno frettolosa, la borsa da lavoro è un po’ più leggera e l’occhio spesso si permette di correre alle vetrine debordanti di saldi. Si incontrano molti anziani – rigorosamente con un golfino leggero, anche se la colonnina di mercurio viaggia ben oltre i 30°C – e il carrellino della spesa trascinato a fatica, molti extracomunitari in tenuta da lavoro o, la domenica a pranzo, riuniti con la famiglia a godere della frescura dei parchi. Sono sorprendenti gli abitanti delle case popolari: sebbene abbiano terrazzi grandi come fazzoletti, non si fanno mai mancare sfiziosi pranzetti all’aperto, sovraccarichi al limite del cedimento strutturale, ma invariabilmente sorridenti dietro a svolazzanti e variopinti ventagli.

I TG filogovernativi sono una vera tragedia: tutti gli anni le nostre retine vengono travolte da natiche di donne muscolose che ancheggiano su cyclette da spiaggia in riviera adriatica, da nuove tendenze trasgressive propinate insieme al bikini, da massaggi e scherzoni in voga sotto l’ombrellone, da illustri esperti che ci insegnano come sedurre tra le onde e ci mettono in guardia dalle cocenti delusioni degli amori nati sulla sabbia; sempre altissimo è il monito a prestare attenzione all’impacco di fico, mango e papaya: che la vanità non prenda il sopravvento sulla prudenza, o si finisce nel primo centro ustionati a tiro. Il TG3 è gravemente deprimente quest’anno: dopo una giornata di duro lavoro il “fuzzimib”, i bond, lo spread (che, non si sa bene perché, ma tra 100 vocaboli economici del tutto incomprensibili, questo te lo spiegano tutte le sante volte), le banche in crollo, B. che saluta dalla Costa Smeralda sono il trampolino di lancio verso la lametta al polso.

Il lungo tragitto che conduce sul posto di lavoro, di giorno in giorno, diviene meno lungo. O almeno, così pare. Il tempo si contrae dopo la prima settimana di agosto, l’asfalto scorre sotto le ruote liscio come l’olio, ti permetti prodezze da brivido autovelox. Le grandi arterie stradali sono sempre meno affollate, salvo nei giorni che il TG1 definisce da “bollino nero”.  Le vie della città acquisiscono un volto nuovo: spuntano terrazzini, portoni, stucchi, statue di cui non ti eri mai accorto e che ti soffermi volentieri ad ammirare.

I tuoi compagni di viaggio cambiano: ai volti pallidi e seri, alle orecchie intasate dai cellulari, alle imprecazioni di uomini in gessato e donne cotonate subentrano bimbi sorridenti che ti salutano dal lunotto posteriore, auto cariche di bici, pinne fucile ed occhiali, tavole da surf, camper. E, sebbene lo spettacolo sia molto più gradevole, senti l’invidia azzannarti alla giugulare.

Alla radio trasmettono tutte le repliche dei mesi passati, perché i tuoi programmi preferiti fanno pausa estiva; riascolti tutto con un po’ di noia, ma anche con un certo innegabile piacere. Sin dai primi giorni di luglio la morsa della nostalgia ti attanaglia: le canzoni che hanno spopolato estati fa vengono riproposte in modo quasi compulsivo. E in quel momento i tuoi amori estivi, i tuoi struggimenti adolescenziali, le tue cocenti delusioni su chi avevi sperato diventasse il padre dei tuoi figli tornano alla mente come un’onda anomala, con una pregnanza e un’attualità che scuote (e forse anche un po’ ti preoccupa). Le radio più “maranza” ti crivellano con i tormentoni estivi da discoteca con sonorità che ormai sono paleolitiche per le orecchie, mentre le emittenti locali si sbizzarriscono con cantanti intramontabili, ma che, davvero, vengono rispolverati solo in tempi di calura: Bertè, Bennato, Giuni Russo, Califano, Leali, Baglioni old style, Oxa, gli insuperabili Righeira (immancabili: “L’estate sta finendo” cominciano a passarla a maggio).

Ti fermi al supermercato perché, nel delirio dei turni, non sei riuscito a prepararti la “schiscetta” (per i non milanesi: il pranzo fai-da-te): il market è pieno di carrozzelle. Ma dove sono tutte queste persone diversamente abili durante l’anno? A casa, perché negozi, vie, piazze, centri commerciali sono sempre troppo affollati, sempre troppo caotici, sempre con gli elevatori e i presidi di ausilio “guasti”. Ricordo con struggente languore e qualche lacrima tutti gli anni dedicati al volontariato con ragazzi dis-abili. Ti ricomponi, afferri distrattamente un prodotto rigorosamente light (la nostra società non accetta il sovrappeso) che scaraventi con poca grazia nel cestello e corri verso le casse, lanciando un’ultima occhiata clandestina e un sorriso al ragazzo italianissimo con gli occhi a mandorla che ti sta salutando mentre la mamma lo redarguisce.

Riabiti la tua auto e prosegui sino all’ospedale. Nel vuoto del viale dietro l’ospedale riesci a guardare meglio i volti dei mendicanti senza una gamba, un braccio, un occhio. E noti una cosa di cui non ti eri mai reso conto: tu entri in ospedale alle 8 ed esci a sera inoltrata, ma loro fanno più o meno i tuoi orari – o almeno credi. Cerchi di scorgere se sotto la polvere, la massa di capelli brizzolati e crespi, i vestiti laceri c’è sempre la stessa persona per tutte quelle ore o se anche per la gente di strada c’è un cambio guardia, come per te.

Arriva dunque il momento della timbratura: passi il cancello, entri nel parcheggio dell’ospedale. Deserto. Non fatichi per nulla a mettere la macchina all’ombra o, di notte, il più vicino possibile all’entrata, qualora ti chiamassero in altri reparti. E’ proprio in quel momento che ti rendi conto della brutale verità: sei realmente uno dei pochi disgraziati rimasti a casa a lavorare per tutta l’estate. Ed è una vera tragedia.

 (to be continued…)

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Nel mio ospedale c'è: un gioco di ieri, un incubo di oggi

Nel mio ospedale c’è.

Nel mio ospedale c’è una tale quantità di edifici semidistrutti e fatiscenti che non sembra di stare in Italia, ma a Tripoli dopo l’ultimo bombardamento. E in questi edifici… ci sono ancora i reparti.

Nel mio ospedale c’è una pista di atterraggio elicotteri sul tetto del mio padiglione; quando ne arriva uno mi ripercorre la stessa sensazione di cattivo presagio che avvertivo in montagna nel sentire, di notte, il volo del soccorso alpino.

Nel mio ospedale ci sono certi ascensori che pensi non possano esistere più, tanto meno in un luogo pubblico; hanno ante scorrevoli in plastica perennemente rotte, sono lentissimi e servono a trasportare sia i malati in barella sia l’esorbitante flusso di persone. Ore e ore d’attesa (sempre che non si blocchino, come accade un giorno sì e uno anche).

Nel mio ospedale ci sono reparti con esposte foto che ritraggono le camere alla fine dell’800: bella come idea. Peccato che quando varchi la soglia delle stanze da otto letti, alte quattro metri, con finestroni enormi in legno marcio, ti aspetti che sia Florence Nightingale a venirti incontro.

Nel mio ospedale c’è un pronto soccorso che ricorda un girone infernale: un ammasso di carne, sangue e lacrime, spalmato in spazi angusti e maleodoranti.

Nel mio ospedale c’è tanta di quella nevrosi e cattiveria che, se fosse possibile convertire tutta quell’energia negativa in calore, luce o elettricità, non avremmo bisogno nemmeno di citarlo il nucleare.

Nel mio ospedale c’è un centro prenotazioni che sembra un aeroporto: i pazienti ci chiedono il permesso di andare al “centro commerciale”. Non hanno tutti i torti.

Nel mio ospedale c’è un nonnismo tale che è difficile distogliersi dalla convinzione di essersi arruolati in marina.

Nel mio ospedale c’è pochissima umanità, buon senso e ragionevolezza; se tutti, ma dico tutti, ce ne mettessero un pizzico in più, forse le cose non andrebbero poi così male.

Nel mio ospedale c’è un piccolo gruppo superstite di esseri umani ancora degni di questo nome; quando ti capita di incontrarne uno, la sorpresa e la commozione sono così travolgenti che ti verrebbe voglia di abbracciarlo.

Nel mio ospedale c’è un rito di benvenuto ai nuovi arrivi: consiste in ignobili attacchi alla giugulare a qualsiasi ora del giorno e della notte, oltre a un superlavoro ai limiti della legalità, nella peggiore delle condizioni possibili.

Nel mio ospedale c’è una camionata di medici che non hanno voglia di fare assolutamente niente, che scrivono male le cartelle, che mandano al diavolo colleghi, infermieri e pazienti, che hanno come unico obiettivo quello di fare il meno possibile nel peggior modo possibile.

Nel mio ospedale c’è un tipo di specializzandi con cui è davvero bello e prezioso interagire: sono giovani curiosi, dediti, operosi; ce n’è un secondo, purtroppo, che meriterebbe l’estromissione dalla specialità tout court: giovani delfini di chirurghi onnipotenti ovvero miagolanti gatte morte che traggono beneficio da torbidi rapporti con chi riveste ruoli di comando.

Nel mio ospedale c’è una strana consuetudine: ai vertici, nella stragrande maggioranza dei casi, vengono collocate persone dispotiche, ottuse, machiavelliche o semplicemente stupide e nevrotiche.

Nel mio ospedale c’è un padiglione talmente nuovo che, a distanza di anni dall’apertura, manca ancora la cartellonistica e, inevitabilmente, ancora si cercano alcuni dispersi.

Nel mio ospedale c’è una violenza dilagante: medici che spaccano porte e aggrediscono le persone intorno a loro, infermieri che si menano, pazienti e parenti che urlano, imprecano, maledicono, minacciano.

Nel mio ospedale c’è una credenza: chi è buono è fesso e va punito e sfruttato per questo.

Nel mio ospedale c’è sempre troppo poco tempo da dedicare a chi soffre: non c’è tempo per confortare, stringere una mano, asciugare una lacrima. E poi… che paura! Se il dolore fosse contagioso?

Potrebbe andare peggio di così?

Credo di sì; perché oggi, nonostante tutto, il mio ospedale c’è. Per tutti. Gratuitamente. A prescindere dal colore della pelle, dal conto in banca e dalle assicurazioni.

E domani?

"Gli occhi di Giacomo" ovvero D.N.R. – DA NON RIANIMARE.

[stextbox id=”custom” big=”true”]Inauguriamo oggi la rubrica “Med and the City”. L’autrice è Betty Bradshaw, già autrice di vari post sulla medicina, alcuni dei quali molto particolari… Vi invitiamo a rileggerli tutti a questo link [/stextbox]

Giacomo. Sì, si chiamava Giacomo. O forse… si chiama Giacomo.

Non so più nulla di lui, dal lontano 2007.

Lo conobbi nel periodo in cui ero consulente presso un centro dedicato agli stati vegetativi e di coscienza minima. Fu un’esperienza molto forte lavorare in una struttura del genere, sebbene gli spot della consulenza non siano paragonabili all’intensità del tempo pieno. È difficile descrivere le emozioni e i pensieri che scaturiscono dal contatto con realtà così particolari e così diverse da quelle in cui capita di imbattersi nel corso di laurea o di specializzazione. Non sei mai abbastanza pronto.

Ciò che mi sorprese la prima volta che entrai in “reparto” fu il silenzio. Un silenzio che non è quello della notte e nemmeno quello che immagino se penso alla fine, al vuoto, alla morte. È un silenzio buio ma denso: permettendomi una sinestesia, lo paragonerei al mare di notte. Sai che è il mare, ma non riesci a guardarci dentro e non sai che cosa si muove vicino a te. Fare il bagno di notte nel mare non mi è mai piaciuto, forse proprio per quel senso di vulnerabilità di fronte al nero che ti ricopre e a cui appartieni. La seconda cosa che mi colpì al bancone degli infermieri fu la presenza di un enorme acquario, popolato di stupendi pesci tropicali, silenziosi, leggeri, sottili. E mentre ero intenta a seguire le loro evoluzioni leggiadre con gli occhi sgranati e il naso appiccicato al vetro come una bambina, d’un tratto si materializzò davanti ai miei occhi un grosso e sgradevole pesce nero, di fronte al quale preferii abbandonare lo spettacolo. Le metafore interpretative si sprecano. La mia, piuttosto banale, mi indusse a credere che l’acquario non fosse lì per caso, che i pesci eterei e cangianti rappresentassero le anime dei pazienti e che il pesce nero non fosse altro che uno spettrale memento per tutti.

I degenti erano anziani signori il cui cuore aveva smesso di battere per un tempo molto, troppo lungo; ma non abbastanza da esaurire tutte le energie vitali, soprattutto quelle dei “centri di comando”, come per uno scherzo beffardo del destino (fortemente aiutato da soccorritori-Rambo che non sanno quando è il momento di lasciar andare). Ragazzi usciti di strada dopo una serata con gli amici e mai tornati a casa. Giovani uomini e padri di famiglia le cui arterie cerebrali avevano deciso di inondare il cervello di sangue, rompendosi, per non si sa bene quale protesta verso chi o cosa, lasciando però indenne proprio il fulcro della vita.

Giacomo però era diverso. Lui sentiva e vedeva tutto. E tutto comprendeva. Una gravissima malattia neurologica lo aveva travolto intorno ai 60 anni, e nel giro di 3 lo aveva portato all’impossibilità di muovere quasi tutti i muscoli del corpo. Una sera sopraggiunse un affanno improvviso, il respiro divenne sempre più difficoltoso e i familiari – la moglie e le sue due figlie – non adeguatamente informate su ciò che sarebbe accaduto (e forse anche su quanto impietosa e rapida fosse la malattia) lo portarono al pronto soccorso. Lì Giacomo ebbe una grave crisi respiratoria. Non esistendo in Italia (per questi malati e non solo) una legge che regolamenti la procedura e il diritto al non trattamento, Giacomo fu intubato, senza che fosse espresso un consenso suo (peraltro in stato di semi-incoscienza) o dei parenti (non informati sulle gravissime ripercussioni che avrebbe avuto sulle loro vite quel gesto comandato da altri, o meglio, dall’alto).

Fu intubato. E poi tracheostomizzato e ventilato artificialmente. Per sempre. Perché ogni tentativo di svezzarlo dal respiratore fu vano.

Nel giro di alcuni mesi Giacomo perse progressivamente l’uso di quasi tutti i muscoli, sino a poter muovere solo gli occhi. E fu in quella fase della malattia che lo conobbi. Era così ormai da anni.

Entrando nella sua stanza mi soffermai nell’anticamera e, senza essere vista, ebbi il tempo di perlustrarla con lo sguardo: era tappezzata di foto, Giacomo che inforca una bici in cima a una montagna carica di neve, Giacomo che scala una parete di roccia, Giacomo il giorno delle nozze mentre sorride felice con la sua moglie biondissima e innamoratissima, Giacomo giovane che abbraccia un bebè con una tutina rosa, Giacomo che abbraccia un secondo bebè con una tutina rosa a fiori. Sull’altra parete le foto non includevano più Giacomo: la moglie biondissima abbracciata a due splendide ragazze, una delle quali incoronata d’alloro e ricoperta da una toga, forense, la moglie biondissima mentre bacia l’altra ragazza vestita a nozze e radiosa, come la mamma tante foto e tanti anni prima. Spostai dall’armadio lo sguardo verso il fondo del letto: due arti inermi e magrissimi riempirono i miei occhi e il rumore di un respiratore affaticato le orecchie. Di lì una cascata di emozioni mi si rovesciò addosso, compreso il senso di colpa, la fastidiosa sensazione di essere una guardona impertinente. Il cuore sobbalzò nel petto con capriole sgraziate, il volto si avvampò di un calore insano e preoccupante. Senza rendermene conto mi ritrovai fuori dalla stanza, con un respiro doloroso e irregolare, aggrappata alla cartelletta di plastica stretta al punto da avere le nocche delle dita completamente bianche.

Cercai di appellarmi al buon senso, al distacco gelido con il quale i professoroni ti dicono di guardare i malati, a un ente soprannaturale che mi aiutasse a non farmi sopraffare ancora dalle emozioni.

Respirai a fondo, chiusi gli occhi ed entrai. Lo visitai e fu straziante. Parlai con Giacomo, dicendogli che avrei provato con un farmaco a lenire il dolore che avvertiva a tutti gli arti (la beffa della natura matrigna vuole che in questa malattia il movimento sia proibito e la sensibilità, invece, viva e vitale). I dolori erano stati comunicati da Giacomo ai medici del centro, in un linguaggio cui, sapevo per certo, non avrei mai potuto accedere. Cercai nel suo sguardo un cenno di assenso. Ma nei suoi occhi leggevo solo dissenso, diffidenza, lontananza. Quelli come me, i medici, avevano portato a tutto questo. Quelli come me lo riducevano a questo strazio. Quelli come me non lo avevano informato. Quelli come me non gli avevano permesso di decidere. Per non crollare davanti a lui e alla sua sferzante accusa, provai a rievocare alla velocità della luce le teorie secondo le quali Giacomo avrebbe una degenerazione di una parte del cervello che regola la critica, il giudizio, le emozioni, rendendo apatici, indifferenti, privi di emotività. Ma con una violenza inaudita, l’idea che questa ipotesi non fosse altro che un giustificativo per far dormire tranquilla tutta la comunità scientifica si impossessò di me. E a quel punto, sentii gravare sulle mie spalle un peso enorme. Insostenibile. Quasi mi uscì di bocca la parola “scusa”.

Gli sorrisi grevemente, mi aggrappai alla cartelletta, unica certezza della giornata, e feci per uscire dalla stanza. Le lacrime stavano prendendo il sopravvento, per cui accelerai. Come un vortice nella testa già ebbra volarono pensieri del tipo: ma se fossi io, non sarebbe tremendo vedermi tutti i giorni in canoa o immersa in acque cristalline, risentire le braccia che pagaiano e nuotano e non riuscirle a muoverle? Non vorrei morire se vedessi mio marito che mi sorride nel giorno di nozze? Non vorrei che mia figlia avvocatessa vendicasse la mia sofferenza orribile punendo un sistema malato che dilania e uccide le persone, fingendo di salvare ciò che la natura ha creato?

Quasi mi misi a correre, ma il mio sguardo riuscì a catturare l’ultimo frammento che mi fece rabbrividire: sulla porta, in bella vista, il disegno di un bimbo raffigurava i nipoti di Giacomo. Davide, Noemi, Riccardo: D-N-R. Da non rianimare.

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Medici e Pazienti visti dal profondo degli abissi

Smonto notte.

Anzi, smonto da tre giorni di delirio, perché quasi tutto il personale di reparto di un “eccellente” ospedalone lombardo ha deciso di partecipare a un congresso assolutamente imperdibile. Nessun ente regolatore sopraordinato si è preoccupato del fatto che essere medici significa assistere, prima di tutto, non aggiornarsi e approfittarne per andare a farsi una pucciatina in mare.

Venerdì tre turni, di cui due consecutivi e due contemporanei (9-20), sabato 14-21, domenica mattina e, sì, questa notte 21-9.30. E ora non riesco a dormire. Perché vaga nel subconscio inquieto un sottobosco di emozioni pungenti, di pensieri assolutamente scoordinati e schizofrenici, di immagini che riappaiono come errore di proiezione sullo schermo di un cinema decadente, di odori acri, di suoni molesti, di gemiti ritmici e impossibili da quietare.

Cosa resta di tutto questo? Come gestire e placare questo moto ondoso che impedisce il sonno? Forse solo ripescando i pesci più grossi, guardandoli in faccia attentamente e ributtandoli nelle acque torbide da cui provengono.

Gli squali: ragazzi giovani, con una diagnosi che non lascia speranza, in preda alla frenesia di rimettersi in piedi e riappropriarsi della propria vita dopo un intervento non risolutivo. Le loro domande circa il futuro (che sono mesi, nella migliore delle ipotesi) mordono con denti aguzzi e taglienti; le mie risposte pressappochiste e vaghe (“pretese” da fidanzate, mamme e mogli) tormentano come spilli la mia coscienza: ma se fossi io, non pretenderei di decidere se trascorrere i miei ultimi giorni in un viaggio intorno al mondo che mi ricompensi almeno in parte della bellezza del mondo che mi verrà sottratta, anziché restare in un letto a vomitare per la chemio?

I pesciolini rossi: innocui, fragili, relegati in una piccola boccia, privi di compagnia; gli anziani signori e signore, soli, maleodoranti, abbandonati da figli cugini e nuore, arrivati in pronto soccorso per non si sa bene che cosa. Alcolismo, gravi malattie mai curate (o, peggio, mai diagnosticate), farmaci non assunti perché la memoria non funziona, denti che mancano, vestiti laceri intrisi di urina. E cellulari di parenti del tutto irrintracciabili. O meglio: “siamo via per il week end”. Solo compassionevoli vicini di casa che da qualche giorno, non vedendoli, hanno chiamato i vigili, hanno fatto aprire la porta e li hanno trovati per terra. Però… “ci scusi, è domenica, dobbiamo andare alla cresima del nipote del cognato della zia… ve ne occupate voi ora”.

I pesci degli abissi: imperscrutabili, nelle profondità del mare della coscienza, intangibili, incontattabili. Provi a toccarli, a pizzicarli con energia, ma non troppa, perché quasi ti sembra di essere crudele. E non risponde nessuno, non c’è nessuno in casa. Un messaggio sulla porta: non ci siamo. Un biglietto aggiuntivo: elettroencefalogramma piatto, erniazione cerebrale, asistolia. Sono caldi ma, come in fondo al mare, li circonda un freddo spettrale che accappona la pelle e svuota la mente.

I pesci trasparenti: nuotano liberi, si muovono, sfuggono, scappano, scivolano, rischiano di correre contro a uno scoglio, ma la loro essenza è trasparente. Non c’è presente, non c’è passato né futuro, manca un dato di realtà su cui confrontarsi, a cui appigliarsi. Noi che abbiamo bisogno di realtà, di concretezza, noi che non sappiamo stare in sospensione, che il vuoto fa paura. Talora questi pesci “eterei”, d’un tratto, emettono urla spaventose, come se qualcuno o qualcosa li stesse lacerando. Noi che abbiamo bisogno di realtà, di numeri, di parole, di esami, pensiamo sia dolore, cerchiamo spiegazioni razionali e ragionevoli. Ma magari la loro è paura. Paura dei fantasmi che popolano il loro mondo trasparente, paura di volti minacciosi che li fissano dal fondo del letto, di bestie spaventevoli che popolano le loro acque.

Le murene: si aggirano con camici bianchi ma non sono medici. Sono creature fameliche, elettrifiche, prive di ogni forma di buon senso, ragionevolezza, compassione, umanità. Sono dietro l’angolo: aspettano solo che tu ti avvicini con le migliori intenzioni, per stabilire un contatto sottomarino, perché pensi che siano pesci come te. Ma appena li tocchi erogano una corrente che è pari a un elettroshock, per te e per l’ecosistema. Ma non sei tu a urlare quando ricevi la scossa, anzi: devi prodigarti per contenere le urla indegne di questi esseri immondi, frustrati dalla vita, falliti come professionisti e come persone. Da queste bestemmie esistenziali che con fattezze pseudo umane si aggirano nel mondo reale sgraziati e insolenti, devi proteggere i pesciolini per cui li hai interpellati, perché non subiscano anche tutto questo. Sono esseri indegni di esistere nel mondo reale: siamo in una guerra ma, invece di combattere tutti contro il nemico asserragliati nella medesima trincea, gli immondi sparano non solo contro di te, ma anche contro i civili in fin di vita.

Io amo l’acqua, è il mio elemento naturale, ma questi pesci e queste onde torbide mi estenuano. Il corpo e la mente mi supplicano di cambiare mare.

Ho una voglia irrefrenabile di un mare trasparente, di acque caraibiche con fondale a vista e con tanti bellissimi e innocui pesci pagliaccio nel mio branco.

E fanculo alle murene.

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Sogno di una notte di piena guardia ovvero la sanità che vorrei

Sono di guardia questa notte. Il telefonino di reperibilità è sul letto profumato di lenzuola pulite, al mio fianco, in attesa di chiamate dal pronto soccorso o da altri reparti. Un pensiero vola ai miei due bimbi, che ho lasciato con il cuore stretto in una morsa a casa, insieme al papà. Ma la malinconia se ne va quando penso che, contro ogni probabilità, sono riuscita a portare a termine due gravidanze senza rischio di licenziamento, a stare a casa con i miei piccoli tutto il tempo necessario, senza pericolo di ritorsioni o vendette da parte dei colleghi o del primario. Li ho avuti tardi, ma ho preferito aspettare che la società si risvegliasse da un incubo, prima di generare due creature sole e una madre depressa, licenziata o sottoposta a mobbing per la propria naturale voglia di maternità.

È giovedì. Cavoli, mi capitano sempre guardie il giorno in cui c’è Annozero.  E per fortuna che c’è e c’è sempre stato Annozero, a tutelare il nostro diritto all’informazione, a svegliare le coscienze, a smuoverci da un pericoloso e malato torpore.

È giovedì notte, quindi domani e nel week end sarò di riposo. Grazie al cielo sono state abolite quelle turnazioni deliranti per cui lavoravi non stop giorni e notti di fila, per poi tornare a casa e lanciarti insonnolita contro un platano.

Ora sì che si lavora bene.  Gli ospedali, tanto per cominciare, non sono più “aziende” ospedaliere, non devono più produrre un utile, perché il vero utile è (ed è sempre stato) la salute del paziente. Non il bilancio, il fatturato e le mazzette alle mafie. È stata operata una pulizia radicale a partire dai vertici: non più politici a capo delle strutture sanitarie, solo tecnici, medici e amministrativi. Non ci sono più 5 portaborse (con annessi uffici di lusso rifiniti in radica) per ogni direttore, non ci sono più 15 settori amministrativi che si suddividono lo stesso compito in modo ridondante e dispendioso. I concorsi avvengono regolarmente (non ogni 10 anni) e le assunzioni vengono moderate da collegi disciplinari esterni che valutano le reali competenze del candidato, compresi primari e dirigenti. Ora a capo delle unità operative ci sono solo medici in possesso di un curriculum scientifico (non accademico) di tutto rispetto. Una carriera o un appoggio politico o di lobby o massonico sono elementi che pregiudicano largamente l’accesso a qualsiasi tipo di concorso.

I medici giovani hanno avuto la possibilità di scardinare il vecchio modus vivendi e operandi: basta con i “figli d’arte”, basta con la tolleranza verso i soprusi pur di lavorare, basta con l’accanimento verso il meno arrivista, basta con i furti dei progetti di ricerca, basta con gli spintoni nei fossi bui dai quali si esce solo con il licenziamento. Basta mobbing, basta burn out. La vecchia guardia, purtroppo, è rimasta segnata dai decenni di medioevo sanitario e molti non ce l’hanno fatta: sono ancora carichi d’odio, diffidenti e rimpiangono il passato. Si spera che con il prossimo pensionamento riescano a ricostruire la vita che hanno perso in queste stanze.

I turni sono equi, i riposi adeguati e vige un rapporto di piena e serena collaborazione tra professionisti soddisfatti che hanno come unico obiettivo quello di migliorare il servizio al malato. Gli infermieri sono altrettanto tutelati e la motivazione è alta. Si lavora in squadra e un sistema di controllo sicuro e super partes premia il merito e l’efficienza: chi è svogliato, demotivato o gestisce male pazienti e personale viene sottoposto, medico, infermiere, primario o ausiliario che sia, a una valutazione disciplinare.

I pronto soccorsi non sono più dei gironi infernali: i malati sono seguiti meglio anche dai medici di base (dopo la riforma a loro favore) e ci pensano due volte prima di andare in pronto soccorso. Solo per reale emergenza. I pazienti si fidano e si affidano a noi medici, in una relazione dignitosa, suggellata da reciproco rispetto. Nonostante l’aspettativa di vita della popolazione generale si sia allungata, si è ritrovato, grazie a seminari, incontri e congressi aperti al pubblico, il senso della realtà, il senso della caducità della vita (prima o poi) e si sono ridimensionati approcci aggressivi e irrispettosi verso malati oggettivamente irrecuperabili. Internet è sempre meno usato per cercare malattie, appigli o miracoli: l’informazione avviene tramite figure e canali istituzionali che tutelano il pazienti dagli inganni o le illusioni generati dalle favole delle case farmaceutiche o dalla perversione di sadici internauti che diffondono notizie false destinate a persone disperate in cerca di una luce. Per questa serie di enormi e splendidi cambiamenti anche le cause sono in drastica discesa; la medicina difensiva (che stava per affossare la sanità pubblica, data la quantità immane di costosissimi esami chiesti solo come tutela legale) è solo un lontano, nauseabondo ricordo.

Ho potuto constatare con mano, da paziente, il reale cambiamento in atto e, per la prima volta in vita mia, sono uscita dall’ospedale con un senso di tranquillità.

Beep, beep… il cicalino… mi ero assopita… Ma dove sono le lenzuola profumate? Cos’è questo divano puzzolente? Il cicalino! Sì? Sei pazienti da vedere? Ma sono le quattro di notte! Solo per “tutela”? Arrivo…

Prima di alzarmi e dirigermi verso l’incubo, leggo il messaggio che mio marito mi ha inviato mentre dormivo: “Ciao amore, probabilmente lavori, per cui non ti disturbo. Sono quasi quattro giorni che quasi non ci vediamo per questi maledetti turni. Mi manchi da morire. Io e Billa (che stasera ha conosciuto un nuovo amico, il cane della villetta in fondo alla via) ci sentiamo soli senza di te. Un bacio… Ah, e domani mattina, mi raccomando, vai piano in auto! Lo sai che dopo l’ultimo incidente sono terrorizzato quando torni dalla notte. Ma quando avrai un lavoro decente? Ti amo”.

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Sindrome del burnout ovvero lavoratori “in fiamme”

[stextbox id=”custom” big=”true”]Una nuova autrice su Camminando Scalzi!

Betty Bradshaw è un medico specialista, una ricercatrice che si definisce la “Mafalda” del suo settore: contestataria, ribelle, preoccupata per le sorti del mondo, incallita utopista… nel suo primo articolo ci parla della “sindrome del burnout”…. buona lettura! [/stextbox]

Può sembrare paradossale che in questi tempi devastati da una dilagante disoccupazione si decida di trattare proprio il tema del burnout. Tuttavia, continuando a leggere si comprenderà come, in realtà, questa sindrome ben si collochi nel momento storico e sociale che stiamo vivendo.

Il termine burnout, in inglese, significa “bruciarsi”. La sindrome da burnout (o semplicemente burnout) è definita come “l’esito patologico di un processo stressogeno che colpisce le persone che esercitano professioni d’aiuto, qualora queste non rispondano in maniera adeguata a carichi eccessivi di stress che il proprio lavoro li porta ad assumere”. Per “professioni d’aiuto” s’intendono quei lavori nei quali l’individuo si relaziona con un soggetto che necessita della sua prestazione: ad esempio medici, infermieri, insegnanti, operatori sociali, psicologi, avvocati, ricercatori, forze dell’ordine. Lo stress di cui si caricano questi individui non è solo quello del lavoro in sé, ma anche quello della persona assistita.

Tuttavia, poiché i problemi che ne scaturiscono pervadono l’impegno, le emozioni e il rapporto che la persona ha nei confronti del proprio lavoro, questa sindrome è identificabile in qualsiasi organizzazione professionale.

Quali sono le cause del burnout?

Il sovraccarico di lavoro è uno dei principali elementi scatenanti: il carico di lavoro è tale da non permettere all’individuo di recuperare energia fisica e psichica. Pensiamo agli operai FIAT che hanno appena “subìto” la riduzione delle pause di lavoro, ai medici che fanno turni ininterrotti di 24 ore, ai ricercatori (sottopagati o non pagati…) che non hanno orari o formule di controllo sul tempo trascorso sul posto di lavoro, a chi svolge professioni con turnazioni massacranti, spesso decise insindacabilmente ai vertici: queste persone andranno inevitabilmente incontro a un sovraccarico… E con quali ripercussioni?

Analogamente, se il tipo di lavoro non è adatto alla persona, alle sue competenze e possibilità, il soggetto si sentirà disorientato, frustrato, incapace di svolgere correttamente le proprie mansioni, temendo di commettere errori e, in alcuni casi, compromettendo la propria posizione e mettendo a rischio gli eventuali destinatari. Gli esempi si sprecano: laureati che fanno i postini (con tutto il rispetto per i postini), operai, infermieri e impiegati spostati da un reparto all’altro a prescindere dalle competenze acquisite, persone che accettano mansioni fisicamente onerose, pur non possedendo i requisiti fisici per svolgerle… E potremmo andare avanti all’infinito.

Anche l’eccesso di carico emotivo è fonte di stress e disagio psichico: la morte, la vita, la povertà, la miseria, le tragedie, il degrado cui sono esposte ogni giorno molte categorie professionali (ad esempio i soccorritori, le forze dell’ordine, gli oncologi, gli operatori sociali) non possono essere illimitati. Deve esistere una via di uscita istituzionale (e non la psicoterapia a spese del singolo) ove incanalare le “scorie tossiche” che questi professionisti si portano sulle spalle.

E ancora: quando il lavoratore ritiene che ciò che fa o vuole fare non riesca a influire sull’esito di un determinato evento sviluppa un senso di impotenza. L’esempio balza immediatamente all’occhio: tutti coloro che lavorano in strutture dove codici etici, morali, procedurali, economici predefiniti e immodificabili travalicano qualsiasi principio del singolo individuo. Un esempio per tutti? Pensiamo a un medico obbligato a non praticare o praticare aborti, a rianimare o non rianimare un malato, coscienza personale a prescindere.

E continuiamo con la mancanza di controllo, di riconoscimento, di senso di comunità e di equità che dilaga nella stragrande maggioranza dei posti di lavoro. Quanti di noi hanno dovuto fronteggiare richieste iperboliche senza avere a disposizione le informazioni e le risorse per poterle soddisfare? Quante volte abbiamo atteso speranzosi un “grazie!” che non è mai arrivato? Con quanta tristezza abbiamo costatato che non potevamo fidarci dell’intorno, che dietro le spalle occhieggiavano sciacalli pronti a occupare la nostra sedia e impugnare il progetto cui stavamo dando anima e corpo? Quante persone ci hanno “sorpassato” (se non addirittura scavalcato) senza che esistesse un valido e giusto motivo perché ciò accadesse?

E dunque, viste le cause, quali sono i frutti di questa minuziosa semina? Quali sono le conseguenze per chi è affetto da burnout?

Esaurimento emotivo, disturbi psichiatrici, senso di scarsa realizzazione personale, inutilità e inadeguatezza.

A seguire: rabbia, frustrazione, cinismo, aggressività, assenteismo, comportamenti di fuga e allontanamento dal posto di lavoro, scadimento della qualità di vita e del lavoro.

E infine, morte professionale. Con progressivo abbandono dell’individuo a stili di vita pericolosi per sé e per gli altri (abuso di sostanze, commissione di reati…). In alcuni e non pochi casi sfortunati lo sfilacciamento esistenziale conduce sino al suicidio.

È possibile che molti stiano pensando: in questo momento il lavoro è sacrosanto, fortunato chi ce l’ha (qualunque esso sia) e bando alle ciance medico-psicologiche! Ma è sbagliato pensarla così! In primis, il burnout non riguarda solo i lavoratori che ne sono afflitti: chi affiderebbe suo figlio alle cure di un chirurgo che è diventato cinico, è aggressivo e non dorme da 22 ore? Chi prenderebbe un treno sapendo che il conducente è depresso e ha fatto 4 notti di fila, cercando di dormire di giorno in mezzo al “trambusto” di pensieri angosciosi? Chi si sottoporrebbe a una nuova terapia, “scoperta” dall’incompetente figlio del Barone Rampante, cui il comitato etico e scientifico non possono dire di no?

Il burnout è un problema collettivo e riguarda tutti, in ogni momento! Ancor di più se un tasso di disoccupazione preoccupante spinge inevitabilmente le persone ad accettare sempre e comunque un lavoro, a qualsiasi condizione.

E infine, sforziamoci di guardare oltre la “crosta” fatta di paura, di senso di precarietà, di instabilità, di vuoto: oltre c’è il dovere e il diritto di svolgere un lavoro decoroso, adatto alle proprie competenze, rispettoso delle esigenze fisiche e psicologiche di ognuno,  guidati da una leadership non machiavellica, bensì astuta e lungimirante, capace di intuire che un lavoratore soddisfatto delle proprie mansioni, inserito in un contesto equo e nella condizione di svolgere e non di “subire” un lavoro rende molto di più di un lavoratore “bruciato”.

Il primo articolo della Costituzione recita infatti: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”… non su un falò.

Fonte | wikipedia

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