Aucan – Black Rainbow

La sperimentazione contraddistingue questo trio bresciano, apprezzato molto all’estero e nella scena underground italiana.
La benedetta ottusità nostrana spesso allontana la creatività a tal punto di disprezzarla in nome del conformismo. Un paese in cui si preferisce esportare talenti lontano piuttosto di importarli. Il “sofisticato” metro di giudizio made in Italy di sopravalutare musicisti privi di originalità, rappresenta il disinteresse nello stimare artisti all’avanguardia. Per fortuna esistono dei paesi, dove musicisti di questa portata sono accolti con entusiasmo.

Continua a leggere…

Pubblicità

Anna Karenina: si alza il sipario…

Quando venni a sapere dell’uscita di un nuovo film tratto dal romanzo di Lev Tolstoj “Anna Karenina”, uno dei miei libri preferiti, ne fui molto felice. D’altronde, dopo averne visto, da brava maniaca, diverse versioni (statunitense, russa, italiana) non potevo certo perdermi questo nuovo tentativo di portare sullo schermo uno dei romanzi più famosi della letteratura mondiale.

La storia narra di Anna Karenina, donna di spicco dell’alta società pietroburghese, sposata e con figlio, la cui vita viene stravolta dall’amore per un ufficiale, il conte Vronskij. Altre storie, poi, si intrecceranno attorno a questo filo conduttore narrativo.

Il regista Joe Wright apre il film in modo insolito: ci troviamo infatti sul palcoscenico di un teatro; vi sono fondali dipinti, cambi di scena che avvengono durante la recitazione degli attori, macchine da presa che ruotano in modo vorticoso. L’atmosfera è vivace, quasi da musical. Una vera festa per gli occhi in fatto di colori, costumi e luci (e infatti sono questi gli aspetti che hanno conquistato gli Oscar).

Ebbene, non sono contraria alle interpretazioni personali, tutt’altro, ma mi piace che siano motivate. Non capisco il perché di questo taglio teatrale, di questa finzione ostentata. Una scelta che non aggiunge nulla e che oltretutto non viene neanche portata fino in fondo: il film, infatti, perde pian piano il suo aspetto teatrale e diventa sempre più “realistico”, con visione di esterni e ambienti reali. Insomma, sembra quasi un esercizio di stile fine a sé stesso, un gioco che avrei visto più adatto all’ironia di un Oscar Wilde che a un Tolstoj.

A questo punto non resta che una seconda scialuppa di salvataggio: gli interpreti. Ma anche qui andiamo a fondo.Continua a leggere…

Sound City, regia di Dave Grohl

Dave Grohl è la Musica incarnata.
Non vi posso stare a spiegare perché, ci vorrebbe troppo tempo: o siete d’accordo o non lo siete. Su Camminando Scalzi abbiamo comunque una nutrita documentazione con cui potrete passare diverso tempo, se non capite perché apro una recensione di un film con questa frase a effetto.

In questi anni bui e tetri siamo infestati di una musica disgustosa. Inutilmente rumorosa, vuota, cretina, inconcludente, raffazzonata, e potrei continuare. Il mezzo si è svenduto completamente attraverso la massificazione, per cui è ormai possibile per qualsiasi stronzo che non ha la più pallida idea di cosa sia una scala musicale realizzare una canzone in digitale e metterla in vendita su iTunes, dove altra gente ignorante come e più di lui ne comprerà un sacco di copie rendendolo ricco e famoso.
Viviamo nei tempi della “guerra del rumore“, una cosa che dovrebbe far rabbrividire ogni amante della buona musica degno di questo nome. In breve: dove una volta si cercava sempre più la purezza del suono, la sua vera anima, oggigiorno nel disco prodotto già a cazzo di cane in partenza con i metodi di cui sopra, si aggiunge ulteriormente del “rumore” di fondo per aumentare il volume, con lo scopo di far “suonare più forte” il disco in modo che risalti sugli altri “dischi concorrenti” e potenzialmente farlo vendere di più. Se questo non è un segno evidente dell’involuzione in cui l’umanità si sta affossando, non so cosa possa esserlo.

Continua a leggere…

Ripercorrendo i cieli di Rino: Mio fratello è figlio unico.

Il secondo album di Rino, datato 1976, ebbe un successo assai superiore al primo, “Ingresso Libero” a sottolineare come con questo lavoro il cantautore iniziò a raccogliere i frutti della sua strepitosa capacità artistica e creativa.

La prima canzone del grande successo è anche quella che dà il titolo al secondo album del cantautore: ”Mio fratello è figlio unico”. Sembrerebbe, e l’ascolto sembra confermarcelo, una canzone nata da una riflessione sul concetto hobbesiano “Homo homini lupus“, a voler ribadire con forza l’egoismo spasmodico dilagante nella società che conduce all’isolamento e all’emarginazione dei più deboli, o semplicemente dei più normali. In questa canzone, paradossale sin dal titolo, Rino vuole scolpire, attraverso la sua usuale illogicità dei versi usati, una realtà incomprensibile che può essere colta e interpretata solo attraverso l’assurdità dei versi stessi. I suoi ossimori penetrano in un mondo insostenibile di individui anonimi e sfruttati, liberamente esclusi da una società scandita e gratificata dai riconoscimenti dei premi aziendali, di persone che non credono nei dogmi della religione (“perché è convinto che nell’amaro benedettino non sta il segreto della felicità”), del calcio (già sport nazionale e veicolo di distrazione della massa), e dell’economia.
Un capolavoro affilato e contraddittorio che affonda la sua lama nella disgregazione sociale, che i padroni, del pensiero, del denaro e della religione ,riescono a nascondere attraverso forme convenzionali e non virtuose.Continua a leggere…

Bat for lashes

È probabile che conosciate una sola canzone di questa sottovalutatissima e poco conosciuta artista; questa:

httpv://youtu.be/00ZHah-c0hQ

Natasha KhanDietro lo strano nome Bat for lashes (scelto per la sua musicalità, dato che non significa niente di sensato) si nasconde una sola, squisita persona: Natasha Khan.
Classe ’79, di padre pakistano (che abbandona la famiglia quando Natasha è piccola) e madre inglese, la Khan vive la sua giovinezza nel disadattamento a causa di vari episodi razzisti avvenuti a scuola, e impara a suonare il piano da autodidatta a undici anni per catalizzare i suoi malesseri. La madre se ne fotte di questa sua vena creativa e cerca di indirizzarla verso la carriera di insegnante. Natasha se ne fotte a sua volta e spende i suoi risparmi, accumulati con vari lavoretti, per farsi un road-trip di tre mesi in America e Messico.
Quando torna si laurea in musica e arti visive all’università di Brighton, e tuttavia accontenta pure la mamma lavorando come maestra in una scuola materna. In questo periodo scrive i pezzi per il suo disco di esordio, Fur and gold, che esce nel 2006 per l’etichetta Echo. L’anno successivo la Parlophone compra tutti i diritti e ristampa il disco. Vende 60.000 copie e la Khan si ritrova ad aprire diversi concerti dei Radiohead.Continua a leggere…

Listening 04: The Wall

Si riparte con Listening, la rubrica-guida all’ascolto che ci guida nella scoperta (o ri-scoperta) di artisti e band!

Questa volta parleremo però di un album, uno di quei dischi che hanno cambiato la storia della musica rock e hanno impresso le loro note marchiate a fuoco nelle menti e nelle orecchie di cinquant’anni di ascoltatori e fan.

Mettete su The Wall, volume a palla, e buona lettura!

Tutto nacque da uno sputo.

urlNel 1977 i Pink Floyd erano in tour per promuovere il loro album Animals, uscito proprio quell’anno. Durante una delle date in Canada, allo stadio Olimpico di Montreal, accadde l’episodio che probabilmente diede la spinta creativa a quello che poi sarebbe diventato l’ultimo disco (ci ritorneremo dopo) della band. Roger Waters aveva cominciato già da tempo a mal sopportare il rapporto con i propri fan, soprattutto durante i concerti, quando iniziò a rendersi conto della separazione che si stava creando tra la band e il suo pubblico. Orde di ragazzi impazziti che urlavano, ballavano, si dimenavano, quasi non ascoltavano più i brani. La band stava diventando una “merce”, un parco dei divertimenti. In quella esibizione, un gruppo particolarmente facinoroso di fan (Nick Mason – batterista – nella sua biografia Inside Out li descrive come “un gruppetto relativamente piccolo ma sovraeccitato di fan, probabilmente imbottiti di sostanze chimiche e sicuramente poco inclini a seguire con attenzione lo spettacolo”) stava in qualche modo influenzando l’esibizione dei Pink Floyd. In una delle pause uno dei ragazzi urlò a Roger “suona Careful with that Axe Eugene !”, e Waters, stizzito, gli sputò. Era una cosa mai accaduta prima, sintomo di una situazione che stava cominciando a diventare insopportabile. I Floyd si trovavano a fare i conti con l’estremo successo e la totale sregolatezza del proprio pubblico (come tutte le grandi band), e questo avvenimento aveva generato quello strappo che mise in moto la creatività di Waters, che rimase molto colpito (in negativo) dall’episodio che l’aveva visto protagonista.Continua a leggere…

Alla scoperta della "Brunori Sas"

Conosciuti durante un mini-tour fra Francia e Belgio per le prime due date europee della loro carriera musicale, ancora non ho smesso di ascoltarli… Sono il cantautore-chitarrista Dario Brunori e la sua compagna di vita, corista e tamburellista Simona Marrazzo, che un paio di settimane fa hanno trasformato il Marcovaldo di Parigi e la Piola Libri di Bruxelles in un covo di Calabresi e Italiani sgomitanti e pretenziosi di dediche e canzoni.

Un progetto che prende il nome dall’impresa di famiglia, Brunori Sas, “in cui ho lavorato per un paio di anni dopo la scomparsa di mio padre”, spiega Dario in una chiacchierata dopo concerto. “Un’azienda di materiali edili che adesso gestiscono i miei fratelli, sicuramente più capaci di me”, prosegue il giovane cantautore, sorridendo sotto i noti baffi.

La musica è sempre stata la sua prima passione. Dalle prime schitarrate con gli amici a un’esperienza nell’indie-pop-elettronico dei Blume fino alla svolta verso la musica d’autore con l’album “Brunori Sas – Vol.1”, immediatamente vincitore del Premio Ciampi come “Miglior debutto discografico dell’anno”, nel 2009. Poi nel 2011 il secondo album: “Vol.2 – Poveri Cristi”, e il successo continua, anche con la realizzazione della colonna sonora del film “È nata una star” (2012), di Lucio Pellegrini.
“È praticamente da tre anni che siamo in tour, per sfruttare il momento propizio”, afferma Dario, “e le città più grosse le abbiamo fatte praticamente tutte”, precisa Simona.

Un progetto a sei quello della Brunori Sas, che solitamente vede la giovane coppia accompagnata da quattro amici musicisti con al seguito tastiere, batteria, sassofono e violoncello. Una squadra convertita a duetto per il viaggio oltre i confini nazionali, dove la band si propone con quella che Dario definisce una “versione unplugged”, che comunque non manca di impeto ed energia.

Trentacinque anni, una laurea in Economia e Commercio a Siena, un periodo da parcheggiatore post-laurea e poi il ritorno nella sua amata Calabria, la terra della sua infanzia e della sua adolescenza, meravigliosamente riassunte dai versi di una “Guardia ’82” capace di catapultarti nei tuoi quindici anni, tra falò sulla spiaggia e ritornelli urlati a squarciagola.

Perché le canzoni di Dario Brunori sono questo: esperienze di vita vissuta come “le giornate passate a giocare in un mondo inventato, le ginocchia sbucciate, il pallone bucato da un vicino incazzato” come canta sulle note di “Nanà”. Troviamo “Il pugile”, “L’imprenditore” e “Il giovane Mario” giocatore d’azzardo incapace di smettere, anche di vivere. C’è l’emigrato calabrese che parte alla volta di Milano per fare fortuna e metter sù famiglia con l’amata “Rosa”, che nel frattempo opta per un decisivo cambio di programma…

L’ironica malinconia di vite comuni in cui, a sprazzi, ciascuno di noi riesce a riconoscersi. Storie vere o forse inventate, ma sicuramente vicine. Storie da tutti i giorni, senza troppe pretese, senza ambizioni ultraterrene. Uno stile che fa tornare alla mente il genio di Rino Gaetano e le sue trame leggere ma dense di significati. Un umorismo pungente capace di farti sorridere di fronte alle inquietudini della quotidianità e di esaltare quelle piccolezze che a volte riescono a renderla così meravigliosa.

La "biophilia" di Bjork fra tecnologia e natura

“Biophilia” è il titolo del più recente album di Bjӧrk, uscito qualche mese fa. Ha avuto dunque il tempo di decantare nella mente di chi scrive questa recensione. Cosa si può dire ora di questo album che, come un fulmine a ciel sereno, ha portato una ventata di futuro nell’industria discografica?

Perché Biophilia è più di un album: è un progetto musicale, scientifico, didattico e tecnologico. Può essere acquistato infatti sotto forma di cd o di “app album”, ossia un pacchetto di dieci applicazioni per ipad, una per ogni brano, tenute insieme da un’”applicazione madre”. Un lavoro davvero pioneristico che non mancherà di influenzare la storia della musica pop del domani.

Biophilia  è un tentativo di dimostrare come la tecnologia e la natura si stiano avvicinando sempre di più, e come in futuro esse possano divenire finalmente compatibili. Tale unione viene celebrata nel linguaggio universale per eccellenza: la musica.

Su youtube si trovano diverse presentazioni delle applicazioni. In queste si può vedere come ogni canzone richiami un elemento naturale, con la possibilità per l’utente di modificare la struttura ritmica o melodica di ogni brano ed esplorare al tempo stesso diversi aspetti della musicologia e della scienza.

Parliamo ora delle tracce.

Dal silenzio siderale e dal buio sorge la prima canzone, “Moon”. Un suono arpeggiato segue un ritmo circolare di 17/8, atto a imitare i diversi tempi di una fase lunare. Il testo sembra parlare di rinascita, come la luna che decresce e poi cresce nuovamente. Un brano che introduce al mondo sonoro straniante ma al tempo stesso pieno di fascino di Biophilia. Con il tempo si riesce ad abbracciare il ritmo circolare e ci si può rilassare in questa atmosfera. Ci attendono brani lontani dalla struttura regolare che siamo soliti ascoltare. La loro costruzione è organica, asimmetrica, simile a quella delle piante.

Una bobina di Tesla

Con il secondo brano entriamo nel regno di “Thunderbolt”, che ritengo uno dei brani migliori dell’album.  Ha un che di epico, sia nel testo che nella melodia. La forza naturale dell’elettricità è qui la fonte dell’ispirazione. Straordinaria l’idea di utilizzare come strumento una bobina di Tesla, ovvero un dispositivo creato dall’omonimo inventore, capace di creare fulmini del tutto simili a quelli atmosferici. I suoi impulsi elettrici creano un arpeggio che si ferma giusto per il tempo che solitamente intercorre fra il fulmine e il tuono. La potente voce di Bjӧrk si leva su di esso, domandandosi se sia possibile desiderare un miracolo, un fulmine che venga a sconvolgere e al tempo stesso purificare ogni cosa.

Si passa a “Cristalline”. Lo strumento che ci introduce al brano, con i suoi tocchi acuti in 17/8, è il gameleste, un incrocio fra un gamelan e una celesta creato per l’occasione e suonato a distanza grazie a un tablet. Non mi fa impazzire la scelta di utilizzare, ancora una volta dai tempi di Vespertine, suoni acuti e martellanti, i quali alla lunga possono stancare. Ciò che amo di Cristalline è il testo: un inno gioioso che esplode in un finale in stile breakcore che davvero vale tutto il brano e che ha l’unico difetto di durare troppo poco.

Scivoliamo nella maestosa “Cosmogony”, l’“applicazione madre” da dove tutto si diparte. I solenni fiati ci riportano ai suoni caldi dell’album Volta. Ha un’aria teatrale questa canzone. Il testo racconta diversi miti cosmogonici ed esprime meraviglia di fronte ai corpi celesti. È un pausa melodica che ci riporta a casa e che si apprezza con il tempo.

Uno screenshot dell'applicazione per "Virus".

Con “Dark Matter” Bjӧrk si esprime nelle dissonanze.  Chiamerei Dark Matter una traccia da “cuffia”, ossia un brano che andrebbe ascoltato in completa solitudine, con le cuffie, cercando di entrare nel mondo che la musica descrive. All’apparenza cacofonica e senza senso (è glossolalia, il linguaggio che si ascolta), nasconde una sua architettura. È musica del futuro, o forse una melodia di migliaia di anni fa. Sfuggente, incoerente e misteriosa come solo la materia oscura sa essere.

Su questa scia continuiamo con “Hollow” e finiamo dritti dentro un lungo filamento di DNA, visto come una collana fatta di antenati di cui noi siamo una perla. Atmosfera inquietante e un po’ gotica. Da cuffia.

Passiamo a “Virus”. Canzone d’amore per voce e gameleste dalla melodia armoniosa e di ampio respiro. Nonostante l’indiscussa  godibilità, percepisco un che di troppo studiato, sia nel testo che nella metafora virus-amante. Non mi entusiasma.

Sacrifice” è l’ottava traccia, una toccante composizione accompagnata da un harpsichord, (un cilindro di metallo che girando fa vibrare alcuni tasti, una specie di enorme carillon). L’effetto è ancestrale e il testo vibra di sincero sentimento.

Eccoci a “Mutual Core”. Il lugubre organo descrive la relazione fra due persone come quella fra due zolle tettoniche adiacenti che si contrastano ma al tempo stesso cercano di adattare sé stesse ai movimenti tellurici. Improvvisamente, con una ritmica aggressiva, esplode il sisma, ponendo fine all’immobilità. Bellissima.

Con “Solstice” arriviamo all’ultima traccia, in 7/4 scanditi da pendoli a undici corde, i cui movimenti oscillatori prendono ispirazione dai movimenti dei pianeti e dalla rotazione terrestre. Semplice, dall’atmosfera vagamente nipponica e dal testo colmo di gratitudine, il brano chiude il viaggio con una nota di bellezza e meraviglia.

Insomma, un progetto interessante sia dal punto di vista musicale che tecnologico. Al di là del livello di gradimento dell’album, non si può non riconoscere a Bjӧrk il titolo di grande musicista, dotata di rara sincerità e amore per il proprio lavoro.

E infine: sarebbe bello se il mondo descritto da Biophilia fosse quello del futuro?

Sonata Organi

Da anni il maestro Christian Tarabbia è al vertice di un’associazione che vuole valorizzare la musica sacra ed in particolare quella “solenne” dedicata all’organo. I risultati sono al momento molto soddisfacenti e “Sonata Organi” si dimostra un importante festival a livello mondiale nella cornice di Arona, sulle sponde del Lago Maggiore. Diamo subito la parola al protagonista di questa intervista.
Siamo in compagnia del maestro Christian Tarabbia. Vuoi farci una tua breve biografia
artistica e parlarci della tua presidenza di “Sonata Organi”?    Mi chiamo Christian Tarabbia, ho 30 anni e praticamente da quando ero un bambino convivo con la mia passione per la musica. Mi sono diplomato in organo e composizione organistica presso il conservatorio di Novara e poi mi sono specializzato in musica antica a Milano. Da circa 10 anni sono l’organista titolare della collegiata di Santa Maria di Arona, dove è ospitato un bellissimo strumento costruito sui modelli degli organi barocchi tedeschi e dalla sua fondazione avvenuta nel 2005 sono presidente e direttore artistico dell’associazione culturale senza scopo di lucro Sonata Organi. Come musicista ho tenuto concerti in molti festival e rassegne in Italia e all’estero e molte volte ho collaborato con orchestre e cori sia come accompagnatore che come solista.

Christian Tarabbia

Vuoi parlarci di questa associazione?    La nostra associazione è nata grazie alla volontà di un gruppo di giovani appassionati di provare a riprendere l’organizzazione dopo qualche anno di interruzione del festival organistico internazionale di Arona. Quest’anno saremo già alla settima edizione, ma se mi guardo indietro sembra ieri quando ci ritrovavamo le prime volte completamente inesperti e a digiuno di ogni nozione su come ci si deve muovere per organizzare un evento internazionale. Il nostro entusiasmo e la nostra voglia di fare ci hanno permesso però grazie anche a un po’ di fortuna di riuscire nel nostro intento e anzi ci auguriamo di averlo migliorato e ingrandito sempre più nel corso degli anni. La nostra associazione pian piano è stata sempre conosciuta anche fuori dai confini aronesi e proprio grazie a questo da qualche anno abbiamo creato un altro festival con molti appuntamenti che si sposta su gran parte della provincia di Novara con l’intento di far conoscere e valorizzare gli organi storici che sono ospitati nelle nostre chiese. La nostra area è davvero molto ricca di strumenti belli e preziosi, tra i quali sicuramente un posto particolare è occupato dall’organo della parrocchiale di Sillavengo, che risale alla metà del ‘600 e che è l’organo completamente originale più antico di tutto il Piemonte. Anche dal punto di vista dei collaboratori stretti la nostra associazione si è allargata e questo è una fortuna considerando i sempre maggiori impegni e sforzi che organizzare la nostra proposta annuale richiede: mi fa piacere che comunque alla base di tutto proprio come ai tempi in cui muovevamo i primi passi sia rimasta l’amicizia che ci lega e la voglia di fare del nostro meglio per il bene della musica e della cultura.

Il festival “Sonata organi” è arrivato alla settima edizione. Noi ci conosciamo dalla prima,
da quando tu ed altri appassionati avete raccolto l’eredità della manifestazione “In tempore
organi”. Quante soddisfazioni e quanti sforzi sono tra i più vivi in te?    Le varie edizioni del festival di Arona che finora abbiamo presentato racchiudono ognuna in sé particolari che le rendono uniche: dall’emozione e incertezza su come il pubblico ci avrebbe accolto della prima edizione ai primi concertisti internazionali che abbiamo ospitato, alle varie collaborazioni che ci hanno permesso di ospitare non solo organisti ma anche gruppi orchestrali e corali dall’Italia e dall’estero, al progetto in quattro anni di eseguire l’integrale dei concerti per organo e orchestra di Haendel. Forse però la soddisfazione più grande finora almeno per me è quella di essere riuscito ad allestire il Magnifficat di Bach nell’edizione del 2010. Questo brano, già di per sé bellissimo e monumentale, per me costituiva un sogno ed essere riuscito a presentarlo ad Arona mi ha riempito di gioia e anche un po’di orgoglio, mi ricordo che quella sera piangevo talmente ero felice.. Di sforzi anche questi l’elenco sarebbe molto lungo. Forse una persona che assiste ai nostri concerti non immagina quanto lavoro ci sia dietro per allestirli. Ormai diciamo che lavoriamo quasi con un anno di anticipo per trovare gli artisti, i finanziamenti e per cercare di offrire un festival sempre più curato e che gratifichi il nostro pubblico. Nel corso di questi anni ho incontrato molte persone e in alcuni casi ho ricevuto parole molto belle di elogio per quello che stiamo facendo. Non vorrei sembrare immodesto ma forse è proprio in questo la differenza tra noi e altre realtà. Noi vogliamo non solo presentare un concerto, ma vogliamo creare un dialogo con il nostro pubblico e farlo sentire “a casa” quando assiste ai nostri appuntamenti, cercando anche di guidarlo con la massima cura ad ascoltare i nostri programmi e puntando non solo sugli appassionati che già si recherebbero a un concerto, ma cercando di coinvolgere la gente comune che magari per la prima volta scopre che l’organo ha una bellissima letteratura concertistica e non è solo uno strumento liturgico.

foto di Emanuele Sandon

Vuoi parlarci della “location” e dell’organo della collegiata?    Quale sarà il programma di questa settima edizione e cosa ci consigli vivamente di seguire? Il settimo festival di Arona come nelle ultime edizioni sarà composto di quattro appuntamenti: venerdì 22 giugno il concerto di apertura sarà nella chiesa di San Graziano e come spesso è successo negli ultimi anni sarà un concerto speciale, che quest’anno vedrà coinvolti un gruppo di strumentisti barocchi e due cantanti già molto affermati sulla scena internazionale, il soprano Gemma Bertagnoli e il basso Federico Sacchi. Proporremo un viaggio nei capolavori vocali e strumentali nella Germania del Nord di fine ‘600 con autori quali Buxtehude, Bruhns e Tunder e poi ci sarà l’esecuzione di un Gloria di Haendel che è stato scoperto solo pochi anni fa e che quindi costituisce un ulteriore fiore all’occhiello per questa prima serata.
Il programma del festival proseguirà poi il 30 giugno con un concerto di Matteo Imbruno, organista titolare della Oude Kerk di Amsterdam. Questo concerto sarà particolare in quanto nel 2012 ricorre il 450° anniversario dalla nascita di Jan Pieterszoon Sweelinck, un autore importantissimo che ha dato il via a una vera e propria scuola organistica del nord: Sweelinck fu organista proprio nella Oude Kerk ad Amsterdam e avere l’attuale titolare dello stesso organo che fu di Sweelinck mi sembra un bel modo per festeggiare questo anniversario. Il festival proseguirà sabato 7 luglio con un concerto dell’organista olandese Peter Westerbrinck e si chiuderà il 14 luglio con l’organista Manuel Tomadin, un giovane italiano che lo scorso anno ha vinto un concorso internazionale che lo ha insignito di “Giovane organista europeo dell’anno”. Manuel oltre che essere un musicista eccezionale è un amico e sono veramente felice di essere riuscito ad invitarlo.
La vera novità per questa edizione del festival di Arona è che per la prima volta organizzeremo un corso di alta formazione dal 28 al 30 giugno rivolto ad organisti professionisti, amatoriali o semplici appassionati. Avremo ospiti numerosi studenti che per tre giorni suoneranno e studieranno ad Arona sull’organo della collegiata. L’organizzazione di questo corso rappresenta per noi un notevole sforzo in termini economici e di tempo, però siamo veramente felici di poter allargare la nostra attività non solo in senso concertistico ma anche didattico e speriamo che la nostra proposta venga accolta e di avere un buon numero di iscritti.

Accanto al festival di Arona la vostra associazione è coinvolta anche nella rassegna sulla provincia di Novara. Quale sarà il programma di quest’anno?    Ormai le due rassegne, quella itinerante sul territorio della Provincia di Novara e il festival internazionale di Arona, pur restando indipendenti tra loro sono divenute complementari e dal punto di vista del calendario si incastrano e vanno a formare un unico percorso da maggio a ottobre. Quest’anno i concerti hanno preso il via sabato 12 maggio con un concerto che ho tenuto personalmente per l’inaugurazione di un organo ottocentesco dopo gli interventi di restauro che lo hanno riportato nelle sue condizioni originali al santuario della madonna di Loreto (frazione di Oleggio). Ci sono stati poi appuntamenti il 19 maggio a Montrigiasco (concerto con organo e flauto di Pan) , il 1 giugno a Sillavengo e il 10 giugno a Invorio Superiore. La rassegna sul territorio comprenderà poi numerosi altri appuntamenti: il calendario completo così come tutte le informazioni sull’attività da noi promossa è visibile sul nostro sito www.sonataorgani.it

Non mi resta che ringraziare il Maestro Tarabbia, e porgere l’invito a visitare Arona e assaporare questa bellissima musica.

[stextbox id=”info” caption=”Vuoi collaborare con Camminando Scalzi.it ?” bcolor=”4682b4″ bgcolor=”9fdaf8″ cbgcolor=”2f587a”]Vuoi scrivere anche tu per Camminando Scalzi? Vuoi gestire una rubrica sulla tua tematica preferita?
Collaborare con la blogzine è facile. Inviateci i vostri articoli seguendo le istruzioni che trovate qui. Siamo interessati alle vostre idee, alle vostre opinioni, alla vostra visione del mondo. Sentitevi liberi di scrivere di qualsiasi tematica vogliate: attualità, cronaca, sport, articoli ironici, spettacolo, musica… Vi aspettiamo numerosi![/stextbox]

"Non siamo il vostro genere di persone" – il nuovo dei Garbage

GarbageLa consapevolezza della vecchiaia comincia a farsi sentire se per parlare dei Garbage mi tocca usare il passato remoto e delle formule come “vi ricordate di quel gruppo rock/pop elettronico a metà degli anni ’90?”
Saltiamo quindi i convenevoli: ve lo ricordate? Ma sì, il gruppo messo insieme da Butch Vig, famosissimo produttore di “Nevermind” dei Nirvana (e di “qualche altro” disco di successo). Ma sì, il gruppo di “Vow”, “Only happy when it rains”, “Stupid Girl”, “Push it”, “I think I’m paranoid” e la colonna sonora di uno dei James Bond, “The world is not enough”… Ancora niente? Ok… Il gruppo di Shirley Manson, quella sensualissima gnocca dai capelli baciati dal fuoco. Ah, ecco, improvvisamente ricordate, eh?

Che fine avevano fatto i Garbage? Dopo quattro album e un best of, uscito nel 2007, sono spariti nel nulla. Gruppo sempre umile e ben conscio dello star system, i Garbage non hanno mai fatto grandi dichiarazioni megalomani anzi, sono sempre rimasti con i piedi per terra, concentrati sul loro lavoro. Non si sa bene cosa arrestò la carriera di Vig, Manson, Steve Marker e Duke Erikson… Oggi, alla vigilia del loro nuovo disco, parlano di un malcontento e un’intolleranza verso le case discografiche, che raramente sono interessate a supportare i propri artisti se non arrivano al numero uno della classifica vendite. Fu quindi forse la frustrazione e il calo creativo che solitamente si porta dietro a far chiudere i battenti a uno dei più innovativi gruppi alternative dell’epoca moderna.

In questi cinque anni Butch Vig ha continuato il suo lavoro di produttore (sfornando tra gli altri il bellissimo ultimo disco dei Foo Fighters, “Wasting Light”, che abbiamo recensito). Shirley Manson ha invece provato la carriera di attrice facendo la terminator in Sarah Connor’s Chronicle, ha mantenuto il rapporto con i fan attraverso il suo account twitter e la sua pagina facebook e ha sbattuto invano la testa sul suo album solista, che è definitivamente naufragato quando, a febbraio di due anni fa, ha annunciato di essere tornata in studio con il resto dei Garbage.

“Not your kind of people” è uscito il 14 maggio confermando la stroncatura con le major, dato che è autoprodotto dai Garbage con la loro nuova etichetta, “Stunvolume”.
Il primo ascolto probabilmente non convincerà molto i fan dei vecchi successi dei Garbage, così come il primo singolo, “Blood for poppies”, un po’ anonimo; tuttavia è il classico disco che “cresce dentro” per poi tiranneggiare sugli ascolti della giornata. Vediamo insieme tutte le tracce.

Automatic Systematic Habit apre il disco con un’orgia di elettroniche e ritmiche dance che fanno letteralmente impallidire l’ascoltatore rock e forse incuriosire quello pop. Personalmente, appena fatta partire la traccia, mi son detto “peccato. Un disco da buttare.” Per fortuna prima di strapparmi le vesti ho proseguito con l’ascolto. A parte queste sonorità particolari, la canzone ha un ritornello accattivante e alla fin fine non risulterà così fastidiosa. Parla della meccanicità con cui la gente fa e promette le cose senza pensare e senza ovviamente mantenere la parola data.

Big Bright World rinfresca la memoria sulle classiche sonorità Garbage, ma non è ancora la canzone di volta. Il testo contiene alcuni versi di una poesia di Dylan Thomas.

È poi la volta di Blood for poppies, primo singolo del disco. Troppo allegro e nonsense per dare il giusto omaggio a ciò che i Garbage sono stati.

Ma finalmente arriva Control, la prima vera bella canzone del disco. Armonie melanconiche e la sensuale voce di Shirley lasciano subito spazio a chitarre pompate e a un assolo di armonica semplice ma imponente. Finalmente si capisce che i Garbage sono tornati. Davvero.

Not your kind of people, title track, si sollazza un po’ con un arpeggio effettato identico alla hit “The world is not enough”, ma fa presto capire che è ben più di una smanceria. Questa canzone è un inno: l’inno per i disadattati di tutto il mondo. La calda voce suadente di Shirley ondeggia su questa bellissima ballata. “Noi non siamo il vostro genere di persone, tutto è una bugia”, “Correre in giro cercando di adattarsi, voler essere amati… Non serve molto alla gente per buttarti giù”. E il disco decolla.

Infatti Felt propone un ritmo incalzante semplicemente irresistibile, con un testo che gioca molto sull’assonanza sfruttando la costruzione sintattica dei versi.

Shirley ha voluto far passare I hate love un po’ come la canzone simbolo del disco, con frase stampata su magliette eccetera. Dice di esserci molto affezionata per via del suo sarcasmo, ma personalmente la ritengo forse la più mediocre dell’album. Sarà per l’innesto di elettroniche che trovo rovini gli arpeggi di chitarra, che invece erano molto garbage. Sarà per il testo, sinceramente un po’ banalotto e adolescenziale. Non so, non mi ha convinto.

Con Sugar possiamo finalmente dolcificare il “Milk” del primo album. Queste due ballate sono infatti molto simili, con arpeggi dolci e riverberati, un giro di basso avvolgente e la voce bassa di Shirley ad ammantare il tutto. Ipnotizzante.

Battle in me è probabilmente il pezzo migliore del disco (e sarà il secondo singolo). Un giro di basso esaltante che pompa energia nelle vene, una batteria incalzante, Shirley incazzata e un riff semplice di chitarra che tiene insieme il tutto. La variazione di ritmo nel ritornello e l’uso di tacet rendono la canzone ascoltabile all’infinito.

Man on a wire non lascia evaporare l’adrenalina fatta secernere da Battle in me, anzi aumenta ancora di più il ritmo con un riff aggressivissimo e Butch Vig dietro la batteria che ha l’unica intenzione di spaccare tutto. Parla con vigore delle proprie debolezze e paure e della volontà necessaria per affrontarle.

Beloved freak è una ballatona dolcissima (che Shirley ha eletto come sua preferita dell’album) che serve da chillout per le due tracce precedenti. Come “Not your kind of people” si torna al tema del disadattamento di nerd e geek. “Niente che sia buono è mai stato gratis. A volte ci sentiamo così stanchi e deboli che perdiamo il cielo da sotto i nostri piedi. Le persone mentono e rubano, male interpretano come ti senti. Così dubitiamo e ci nascondiamo. Non sei da solo.”

The one è la prima delle quattro tracce bonus dell’edizione deluxe, che costa qualche euro in più. Torniamo ai ritmi aggressivi di “Battle in me” e “Man on a wire” per smaltire un po’ dello zucchero accumulato con “Beloved freak”.

What girls are made of è un pezzo un po’ deboluccio, in cui l’unica cosa che lo rende memorabile è la dissonanza testo/musica. Sembra quasi che le parole vadano per fatti loro, creando una vaga sensazione di disagio, che scompare con l’apertura ritmica del ritornello.

Bright tonight, perfetta canzone di “chiusura”, in senso lato, nonostante non sia l’ultima traccia dell’edizione deluxe. La chitarrina acustica cosparge un velo di stelle su cui poi la chitarra solista effettata e la voce bassa di Shirley compongono quella che sembra quasi una delicata ninna nanna.

È invece Show me a chiudere il disco, un pezzo davvero molto interessante. Il vibrato allungato della chitarra e la batteria bassa che sembra quasi un tamburo danno una sensazione come di vecchio west. Sembra quasi di vedere Shirley cantare in una vecchia locanda dalle porte di legno cigolanti. Sensazione che dura il tempo dell’intro, perché poi entra la chitarra elettrica e la batteria torna a battere i buoni vecchi 4/4. “Non è facile come sembra. Il mondo è grande, il mare è profondo. Non c’è spazio, non c’è tempo, ci siamo solo noi e ciò che ci lasciamo dietro. Mostrami chi sei, mostramelo adesso”.

GarbageI Garbage ci mostrano chi sono: una gran bella band. Intelligente, professionale, piena di curiosità e voglia di innovarsi. Tutte cose che mal si sposano con la moderna ottica delle major di fare più soldi possibile nel minor tempo possibile a scapito di tutto il resto.
“Not your kind of people” è un classico disco Garbage. Non un capolavoro che fa urlare di esaltazione, ma un bel disco solido, piacevole e riascoltabile, con delle ottime sonorità e delle buone idee, a metà strada tra “Version 2.0” e “Bleed like me”. Farà contenti i vecchi fan dei Garbage e sono sicuro che attirerà anche i giovani che non si fermano alla superficialità della musica che viene loro scodellata quotidianamente da case discografiche corrotte e impomatati marketing manager sorridenti.
Consiglio assolutamente l’acquisto della versione deluxe, che ha la copertina rossa.

I Garbage saranno i Italia l’11 luglio a Vigevano per il “10 giorni suonati Festival” e il 12 luglio a Roma per il “Fiesta Capannelle Roma Rock”.
Vi rimando al loro sito ufficiale e alla pagina facebook. Inoltre sul loro canale Youtube è possibile ascoltare alcuni brani di “Not your kind of people” e vedere i “mini-film” cioè brevi documentari con interviste e commenti sui pezzi del nuovo disco.