La repubblica del Medioevo

Nel Paese in cui si vuol fare un’interrogazione parlamentare dopo una partita di calcio, dove il governo continua a fare i propri comodi per rilanciare l’Italia, dilaniando ulteriormente il mondo del lavoro, assistiamo all’ennesimo spiacevole salto nel passato.

Le cosiddette “sentinelle in piedi”, un gruppo di ultracattolici anti-gay, manifesta in silenzio – tra l’altro in un modo molto più funzionale e diretto di tante altre manifestazioni, perlomeno dal punto di vista mediatico – per protestare contro il cosiddetto “ddl Scalfarotto” che aggiunge a una legge già presente (http://it.wikipedia.org/wiki/Legge_Mancino) un inasprimento delle pene anche per i reati di omofobia, oltre che razziali, religiosi ecc. Sembra Medioevo, e invece è accaduto oggi, nel 2014. Mentre ogni anno si fanno infinite battaglie per i diritti degli omosessuali, per la famiglia di fatto e per cercare di riportare in qualche modo alla normalità una condizione che si è trasformata in “anormale” per questioni di bigottismo e conservatorismo spinto, un gruppo di persone si riunisce per protestare contro qualcuno che vuole che i colpevoli di reati omofobi siano puniti.

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Nessuno è perfetto

Finite le elezioni e consegnato all’Italia l’ennesimo risultato inconcludente (grazie Porcellum), è iniziato l’insostenibile balletto delle alleanze, delle strategie, delle tattiche per riuscire a creare un esecutivo che abbia una qualche parvenza di solidità.

Rispetto al solito, però, come ormai tutti sappiamo, è arrivato il terzo incomodo, il “Movimento 5 Stelle”, che ha preso il suo bel carico di voti (un quarto degli elettori), e si siederà finalmente in Parlamento. Glissando per un attimo sulle varie polemiche sollevate in questi giorni riguardo il vago programma – dove si dicono tante cose belle, ma non il “come” – e al tira e molla con il PD per decidere se appoggiare, in un modo o nell’altro, una coalizione “allargata”, lanciamoci a bomba sull’atteggiamento del M5S post-voto.

Dopo aver ottenuto un risultato assolutamente straordinario per un partito nato solo qualche anno fa, il M5S attraverso il suo “portavoce” Beppe Grillo (non è un leader, mi raccomando, è il PORTAVOCE) fa sapere all’Italia che non ci sarà nessuna alleanza, nessun “inciucio”, niente di niente. O si fa quello che dice lui -pardon il Movimento – oppure niet, non c’è modo di trovare un accordo. Sebbene lo sgangherato PD si sia quantomeno mosso nella direzione degli stellati, introducendo gli ormai famigerati otto punti, e invitando i ragazzi giovani/preparati/faccenuove/chipiùnehapiùnemetta a realizzare qualcosa che sia presente nel loro programma, il muro eretto dai Grillini pare assolutamente invalicabile.Continua a leggere…

Il ritorno del Cavaliere (?)

Pensavamo di essercene liberati, pensavamo che sarebbe finita lì, quel giorno di poco più di un anno fa. Bottiglie di champagne stappate a Roma, gente che applaudiva felice l’uscita di scena del più criticato e longevo Presidente del Consiglio della terza Repubblica, scene di giubilo che manco l’Italia ai mondiali ’82. Ma in fondo, diciamocelo chiaramente, ognuno dentro di sé sapeva che sarebbe tornato, che non avrebbe messo un punto lì ), in quel momento storico (da qualche parte leggevo “un tempo si andava ad Hammamet nella vergogna”). Un anno di “governo dei tecnocrati”, un anno in cui le forze politiche si sono trovate disorientate, delegittimate e hanno visto la fiducia del popolo elettore nei loro confronti scendere sempre più in basso, con la crescita dei vari “grillini” (dedicheremo un approfondimento a proposito sulla situazione attuale M5S) e compagnia; un anno di tentativi per tenere su un governo che doveva salvarci dalla crisi mettendo le pezze dove ce n’era bisogno. Continua a leggere…

Il paese dei dinosauri

L’ultimo rapporto Almalaurea sulla condizione occupazionale dei laureati è stato presentato a marzo. Sebbene l’anno accademico sia ormai agli sgoccioli, è bene tenere a mente qualche risultato dell’indagine, riguardante principalmente il profilo dei laureati del 2010 e la loro occupazione nel 2011.

Con la crisi, i laureati occupati nelle professioni più qualificate sono diminuiti, contrariamente non solo a quanto avvenuto negli altri paesi occidentali ma soprattutto alla logica. In parole povere: meno posti di lavoro sono disponibili e – paradossalmente – meno contano il titolo di studio e il merito. Di fronte a certi dati il buon senso e la razionalità cedono il passo. Pura miopia da parte di chi dovrebbe assumere o precisa scelta imprenditoriale dettata da una contrazione della spesa a scapito della qualità e dell’efficienza della produzione? Verrebbe da rispondere “entrambe” ma, riflettendo, la seconda è una diretta espressione della prima.

Una seconda conclusione rilevante del rapporto riguarda il numero di laureati, nettamente inferiore rispetto agli altri paesi OCSE (20 laureati su 100 di età compresa tra 25 e 34, contro una media di 37). Questo dato delude ma non stupisce: d’altronde, se la laurea non conta più, perché fare sacrifici per anni, sempre a patto di poterseli permettere?

Cosa fa il nostro paese per valorizzare la laurea e l’istruzione? Sceglie di non finanziare università, cultura, ricerca e sviluppo. Siamo agli ultimi posti nelle graduatorie europee per percentuale di PIL investita in questi settori. Si parla di paese, non di Stato, perché solamente poco più della metà di questi finanziamenti proviene dalle imprese. Questo è un ulteriore indice della miopia con cui il settore privato guarda al futuro e alla sua stessa sopravvivenza.

Aumenta la percentuale di laureati disoccupati a un anno dal conseguimento del titolo, fra gli specialistici ancora più che fra i triennali. Al contempo diminuisce la retribuzione media dei laureati, pari a 1105 euro per i triennali e 1080 euro per gli specialistici. Ennesimo paradosso: chi ha studiato di più ha meno possibilità di trovare un lavoro e per di più guadagna di meno!

La meritocrazia? Un miraggio. Quello che dovrebbe essere il faro di ogni paese, soprattutto di quelli che si autodefiniscono avanzati, si è ridotto a un lumicino di tanto in tanto esibito per attirare le farfalle. Come si fa a parlare di meritocrazia quando, ultimo in ordine di tempo fra i troppi esempi adducibili, si è riusciti a scongiurare un taglio di 200 milioni di euro di finanziamenti all’università, ma non un altro, di 210, a numerosi enti di ricerca? E questi ultimi dovrebbero anche ringraziare, visto che inizialmente si era serenamente pensato di sopprimerli.

Il quadro si completa e si comprende meglio pensando all’età media della classe dirigente italiana, la quale non comprende solo politici (espressione di una società più che “causa dei mali”) ma professori universitari, manager, imprenditori, magistrati e via discorrendo. Famosa è la scena dell’esame universitario ne “La meglio gioventù”: le parole del professore non sono un invito né un auspicio, ovviamente, ma si delineano ogni giorno più chiaramente nella sfera di cristallo dell’Italia.

Questa non è una barzelletta

Non si sa se ridere o piangere. La candidatura di Silvio Berlusconi alle prossime elezioni politiche come leader del PdL è una notizia che non dovrebbe fare felici neppure i suoi più strenui sostenitori. Sia che lo si veda come un grande statista che come un cancro dell’Italia, la sua figura occupa la vita politica e sociale del paese da vent’anni. In qualunque democrazia che aspiri a definirsi degna di questo titolo, un tale prolungato predominio non è mai sintomo di buona salute. Non è “solo” il ricambio generazionale che manca, ma anche il naturale evolversi di idee e metodi. Il fossilizzarsi di una figura di potere per tanto tempo comporta un parallelo incancrenirsi del progresso di una nazione. Se poi la figura in questione, volendo essere clementi, non ha brillato per efficacia, lungimiranza e capacità politica se non quando occupato a risolvere questioni attinenti alla sua smisurata sfera di interessi privati (cioè la quasi totalità del tempo), la prospettiva di vedere prolungarsi la durata del suo governo assume i caratteri di un incubo.

Soffermandosi sulle dichiarazioni rilasciate a corollario dell’annuncio, per una volta non si può che essere d’accordo con Berlusconi. Il motivo ufficiale della decisione è “salvare il PdL”, che altrimenti “sprofonda”. Ora, se questa non è un ammissione di ciò che i suoi oppositori sostengono da tempo, poco ci manca. Semplicemente, il PdL non è un partito ma un insieme di gente a cui il leader è allo stesso tempo creditore e debitore. La successiva frase è un boomerang affilato: “Se alle prossime dovessimo scendere per assurdo all’8%, che senso avrebbero avuto diciotto anni di impegno politico?”. Già. Se l’assenza di Berlusconi comporta un tale sgretolamento del consenso, in cosa consiste quanto fatto dal 1994 a ieri se non, come detto, curare i propri interessi e la propria incolumità giudiziaria? Al contempo, queste poche parole costituiscono una pietra tombale sulla stessa dignità politica dei numerosi soggetti che come cortigiani hanno popolato la corte del sultano e, malauguratamente, anche le istituzioni, primo fra tutti il delfino Alfano, a dire il vero mai credibile (e creduto) nel ruolo. Infatti, uno dei paladini di Berlusconi anche in tempi recenti, Giorgio Stracquadanio ha annunciato il suo abbandono del PdL perché “il partito non esiste” e “Berlusconi è al tramonto”.

Un sondaggio Ipr per Repubblica.it ha mostrato come la candidatura di Berlusconi, a dire il vero, non offra vantaggi rispetto a quella, ormai decaduta, di Alfano. Che significa? Che anche gli stessi elettori ancora legati al centrodestra da lui “creato” non sono più sensibili come un tempo al fascino del loro idolo, a dire il vero profondamente minato dagli scandali sessuali e dalle oggettivamente terribili condizioni in cui i suoi numerosi mandati hanno lasciato l’Italia.

Soprassedendo alla mancanza di pudore (tradotto, con che faccia si candida?), possiamo permetterci altri anni di conflitto di interessi, barzellette, Tremonti, “sono stato frainteso”, legittimo impedimento, “rivoluzione liberale”, presidenti operai, olgettine, “un milione di posti di lavoro”, controllo dell’informazione, pericoli rossi, delegittimazione della magistratura, etc?

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Nella piccola politica (a volte) c’è il vino buono

La cronaca giudiziaria delle ultime settimane è costellata di scandali e inchieste i cui protagonisti diretti sono proprio i politici, la cosiddetta classe dirigente italiana. Diventa veramente difficile ignorare il sentiero del qualunquismo, della retorica del “sono tutti uguali” e “meglio non votare” quando a distanza di pochi mesi ben due tesorieri sono stati accusati di gestione criminosa dei fondi destinati ai rispettivi partiti.

Che siano cene a base di pesce, soggiorni in hotel lussuosi o qualifiche in diplomifici privati di area inglese il problema rimane. La politica, forse, non è mai stata così torbida. Come se non bastasse ciò a sminuire le istituzioni italiane, diversi programmi televisivi continuano a esaminare deputati e senatori, interrogandoli su temi di strettissima attualità o cultura generale. Il quadro che emerge è allucinante. Dalle inchieste della “iena” Sabrina Nobile, per esempio, si evince che non solo alcuni politici non riescono a menzionare almeno un’opera di Shakespeare (es.: Romeo e Giulietta), ma utilizzano spesso termini del lessico politico ed economico di cui ignorano completamente il significato, come rating, spread, deficit e inflazione. Persino la TAV, di cui tanto si è dibattuto, diventa un elemento alieno.

Qual è allora la soluzione a questo distacco tra ceto di governo e società civile? Di sicuro, a dispetto di quanto molti prescrivono, non questo governo tecnico che si segnala più per le scelte inique in nome del divino Spread, che per la compostezza e sobrietà dei suoi rappresentanti. Il partito-non partito di Beppe Grillo, allora? Lo scopriremo solo nel 2013. È certo, però, che se esiste una grande politica con tutte le sue delusioni, vi sono anche piccole realtà locali, teatri di storie in cui è la buona politica a trionfare.

Sì, perché se a candidarsi a sindaco ultimamente sono anche pornostar e scrittori di romanzi per adolescenti, c’è ancora chi sceglie il percorso dell’amministrazione pubblica per senso di civiltà e voglia di cambiare.

È il caso di Maria Carmela Lanzetta, sindaco di Monstarace, eletta in una coalizione di centrosinistra in un paese in provincia di Reggio Calabria. Un racconto già sentito il suo: quello di centinaia di amministratori che si ritrovano a fronteggiare la minaccia incombente della criminalità organizzata. La donna aveva rinunciato alla propria carica in seguito allo stillicidio di intimidazioni ricevute. Nel giugno del 2011 la sua farmacia era stata incendiata e la famiglia era riuscita a salvarsi appena in tempo dalle fiamme. Ma il colpo di grazia era stato inferto il 29 marzo, quando la donna aveva trovato la propria macchina crivellata di colpi di pistola. Era stato troppo, persino per lei. Aveva rassegnato le dimissioni: ”mollo perché non sono nelle condizioni di svolgere la mia funzione di primo cittadino”, aveva dichiarato, ”non solo e non tanto per le minacce e le intimidazioni, ma perché non ho gli strumenti per realizzare ciò che avevo in mente”.
A nulla era valsa la fiaccolata dei concittadini, affamati di legalità almeno quanto lei.

Come provare a combattere il senso di impotenza che attanaglia chi si trova ad affrontare un simile cancro della società a mani nude? Dovrebbe essere la grande politica a soccorrere la piccola, fornendole gli strumenti per districarsi nella melma della corruzione e delinquenza italiana. La soluzione non è “non votare” come molti sostengono ma “votare consapevolmente”. Informarsi, documentarsi, conoscere i programmi e valorizzare la possibilità di decidere. Abbiamo perso tanti diritti ma non quello di scegliere i nostri rappresentanti. È importante arrivare alle elezioni del 2013 con la consapevolezza che la democrazia non si scambia, non si vende. Che un governo tecnico, imposto dai mercati, può costituire solo una fase provvisoria e che un organismo sovranazionale non può arrogarsi il diritto di anteporre le proprie necessità a quelle dei diversi stati. La politica pulita esiste. Forse la crisi ci renderà poveri ma non disumani.

Pochi giorni fa la Lanzetta ha ritirato le proprie dimissioni, con riserva. Ed è bello. È bello sapere che per ogni dura e pura Rosi Mauro, (ex) Lega Nord, c’è una Maria Carmela Lanzetta. A Monstarace in provincia di Reggio Calabria.

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Il panorama politico italiano: una cartolina poco allegra

La politica italiana sta vivendo un periodo inconsueto e parecchio intenso. Il governo Monti non sta semplicemente supplendo alla temporanea mancanza di un accordo di governo tra la forze politiche, ma dà l’impressione di colmare l’assenza di capacità rappresentativa e gestionale della sovranità popolare. In questo senso, Berlusconi assume il ruolo della chiave di volta che per quasi vent’anni ha sostenuto l’arco politico italiano. Caduta la sua ingombrante (e per molti imbarazzante) figura, sia l’ex maggioranza che l’ex opposizione sembrano aver smarrito i propri riferimenti. Se da un lato ciò è comprensibile per il PdL, non essendo altro che il luogo di aggregazione di un esercito di persone che a vario titolo hanno banchettato per anni con le briciole che cadevano dalla mensa del padrone, molto più enigmatica appare la posizione del PD. Quello che era nato come il futuro del centrosinistra italiano, sostenuto da un’importante bacino potenziale di elettori, è attraversato da pericolose frizioni fra le varie anime. Dispiace dover riconoscere la veridicità di affermazioni molte volte ripetute come un mantra da esponenti politici del calibro di Gasparri o La Russa, ma se le cose proseguiranno nella direzione attuale è indubbio che l’antiberlusconismo sia stato il principale, se non unico, collante di una corazzata al suo interno forse troppo eterogenea.

La seconda Repubblica è stata caratterizzata dal berlusconismo in tutte le sue forme, non ultima l’esasperata personalizzazione del confronto politico a scapito delle idee. Per anni si è prestata molta più attenzione alla scelta del leader che alla costruzione di un progetto politico. L’entrata in scena di Monti ha sparigliato il gioco. L’uomo forte è arrivato da fuori, oscurando i pretendenti al trono delle varie parti. Sia Alfano che Bersani faticano a imporre la propria figura sulla scena. Probabilmente ciò non fa altro che accelerare l’evoluzione della politica italiana verso un inevitabile, auspicabile futuro, in cui le idee e i programmi torneranno al centro del confronto. Ma la strada è ancora lunga, a giudicare dallo spettacolo offerto da coloro che tra un anno dovrebbero prendere le redini del paese.
Scorriamo la scena da un capo all’altro. Cominciamo dalla sinistra extraparlamentare. Sia i comunisti che SEL sono da qualche mese in quieta attesa. Dal punto di vista elettorale non è forse una scelta sbagliata. Visto l’esecrando caos che regna sul terreno di gioco, defilarsi momentaneamente rischia di bastare per impressionare positivamente nel confronto con gli avversari.
Il PD è in preda al terzo principio della dinamica: a ogni affermazione di un papavero del partito corrisponde una dichiarazione uguale e contraria da parte di un altro, tale che il messaggio politico trasmesso sia nullo. È la realizzazione perfetta della famosa massima “poche idee ma confuse”. Dilaniato dal prolungarsi del conflitto fra i sostenitori dell’alleanza con IdV e SEL e i sempiterni inciucioni che spingono verso il matrimonio con il Terzo Polo, il PD precipita nell’immobilismo. Per di più, il pur necessario sostegno incondizionato al governo Monti non è esattamente un ottimo spot elettorale (vedasi la sofferenza di essere “costretti” a votare sì alla riforma del lavoro pur volendo venire incontro alla CGIL). Le due anime del partito dovranno trovare una sintesi prima delle elezioni politiche, a meno di salutarsi definitivamente. Tuttavia, non si capisce l’appeal di un ipotetico partito di centrosinistra appiattito su posizioni centriste. Né si può continuare a definirsi progressisti senza esprimere una posizione coerente su temi cruciali quali la laicità dello Stato, le questioni etiche (prima fra tutte, quella delle coppie omosessuali) e il futuro dell’economia di mercato.

L’IdV non può nascondersi come fa SEL, sedendo in Parlamento, per cui non sostiene a prescindere il governo Monti ma non fa neanche un’opposizione a priori come la Lega. In realtà attende di conoscere le intenzioni del PD sulle alleanze prima di impostare la sua futura campagna elettorale. Il tempo, tuttavia, stringe.

Il Terzo Polo col governo Monti va a nozze. Talmente a nozze che gli interrogativi sulle prossime mosse della coalizione non sono tanto sui programmi quanto su come Fini, Casini e Rutelli gestiranno la facile transizione tra Monti e il loro candidato premier. È scontato che la loro campagna elettorale verterà sull’intenzione di sfruttare la scia del governo uscente. Indubbiamente, i centristi sono quelli che meno faticano a premere il tasto verde nelle votazioni.

Non è esattamente il caso del PdL. La situazione del pilastro centrale della vecchia maggioranza berlusconiana è speculare a quella del PD, con la differenza che qui la confusione è causata da un’assoluta mancanza di progettualità politica, eccezion fatta per li tentativo di mantenere le posizioni di comodo conquistate. Non è un caso se le uniche dichiarazioni di rilievo sono quelle di veto nei confronti del governo su materie come giustizia, RAI, etc… Per di più, Berlusconi risulta ancora una figura ingombrante nel partito, pur rimanendo in posizione defilata. La sua ombra lunga oscura in parte Alfano, che peraltro non riesce a scrollarsi di dosso l’etichetta di delfino designato dall’alto e a imporre la propria individualità. Come per il Partito Democratico, assumere una connotazione puramente centrista non avrebbe senso, ma affinché il PdL diventi una matura forza di centrodestra occorrerebbe rinnegare i punti chiave dell’operato del fondatore, a cominciare con la delegittimazione e la destrutturazione del sistema giudiziario. Una passo, questo, impossibile da compiere, per mancanza sia di volontà che di capacità, per la maggioranza del partito. Una così radicale svolta politica in tempi così ristretti determinerebbe la fine del PdL. La fortuna del partito degli ex (?) peones di Berlusconi risiede nella storica immaturità politica del suo elettorato, tuttavia l’onda di sfiducia popolare nella politica rischia di disaffezionare anche i più irriducibili paladini di Silvio, soprattutto se quest’ultimo, come sembra probabile e come si spera, resterà fuori dalla contesa.

Arriviamo alla Lega. Liberatasi dall’ormai soffocante alleanza con il PdL, la Lega è tornata a tempo pieno al ruolo di partito di opposizione senza quartiere. Tuttavia, Bossi sembra aver perso il suo ascendente sulla base e i suoi sproloqui, seppur con estremo ritardo, cominciano a stancare gli osservatori. Difficilmente la Lega cambierà registro rispetto alle abituali proposte indecenti e gli estremisti xenofobi, nella speranza, come al solito, di raccogliere consenso accarezzando gli istinti peggiori. Di certo il simulacro dell’onestà e della purezza, anche per chi ci credeva, sta per cadere definitivamente, travolto dagli scandali in Lombardia, il cuore pulsante della Lega.
Ufficialmente fuori dagli schemi, ma con tutte le intenzioni di entrarvi, il M5S di Grillo non attraversa il suo momento migliore. Anzi, le dimostrazioni di insofferenza di alcuni membri verso le linee guida decise dal suo fondatore mettono a nudo la sua principale debolezza, la poca libertà di autonomia da Grillo, il quale è, peraltro, l’unica figura attualmente in grado di garantire un minimo di visibilità al movimento. L’exploit alle ultime regionali, tuttavia, è ancora presente nella memoria di tutti e non è detto che i grillini non possano ripetersi, magari pescando nel mare di indecisi e/o schifati dalle forze politiche più convenzionali.
Eppure due fattori rischiano di incidere sul famigerato teatrino della politica più di qualunque intenzione di voto: la prossima tornata di elezioni amministrative e il malcontento nei confronti di una classe dirigente che per troppo tempo ha trascurato il bene del paese (quando non ha intenzionalmente giocato contro) e il suo proprio tornaconto, sopravvalutando la capacità di sopportazione della gente. I continui scandali che esplodono a cadenza quasi settimanale e che richiamano alla mente la triste epoca di Tangentopoli (sempre che non ci si trovi di fronte a qualcosa di peggiore) non aiutano, eufemisticamente, il riavvicinamento dell’opinione pubblica alla classe politica. Al momento è difficile prevedere quale sarà lo scenario da qui a un anno, specialmente se quei due fattori dovessero combinarsi, come appare assai probabile. Se, infatti, alle amministrative trionfasse il partito dell’astensione e gli altri dovessero accontentarsi di briciole distribuite in maniera diversa da quella a cui siamo abituati, la campagna elettorale per le politiche sarebbe inevitabilmente stravolta. A meno che quelli che si candidano a rappresentarci non abbiano optato per l’harakiri o, peggio, non si accorgano della slavina che potrebbe travolgere loro e l’intero paese e decidano di continuare nella direzione attuale.

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Intervista a Vittorio Agnoletto: tra il G8 di Genova e l'eclisse della democrazia… – Parte 2

[stextbox id=”custom” big=”true”]Pubblichiamo la seconda parte dell’intervista con Vittorio Agnoletto (la prima parte è consultabile a questo link). Il G8 di Genova ha rappresentato l’episodio forse più tristemente noto della storia del movimento no-global. Dopo esserci concentrati sugli eventi di Genova, prendendo spunto dal suo libro, allarghiamo l’orizzonte occupandoci del passato e del futuro del movimento, delle cause della crisi economica globale e della situazione politica italiana.
Per ragioni di lunghezza, abbiamo deciso di pubblicare una versione leggermente ridotta della conversazione con Agnoletto. L’intervista integrale è scaricabile a questo link. Buona lettura![/stextbox]

 

All’interno del video di presentazione del libro pubblicata sul suo blog , lei afferma che il G8 di Genova aveva l’obiettivo preciso e premeditato di distruggere il movimento no-global che in quel periodo cominciava a diffondersi e concretizzarsi in Europa. Può spiegarci cosa intende dire con questa sua pesante denuncia?

Non è che io sostengo che il G8 sia stato concepito con lo scopo di distruggere il movimento. Dico che il movimento alter-mondista in meno di due anni si è diffuso con una velocità incredibile in tutto il mondo, tra la rivolta di Seattle del novembre ’99 e il G8 di Genova. Un movimento che, improvvisamente, da ignorato e sconosciuto, è riuscito a occupare una posizione predominante, sia nei media che nell’immaginario collettivo a livello globale. Che nel gennaio 2001 è riuscito a creare il primo forum sociale a Porto Alegre con delegazioni del movimento da ogni parte del mondo. Era l’unica realtà alternativa al sistema liberista. Non dimentichiamo che mentre il movimento individuava nell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO), nel Fondo monetario internazionale e nella Banca mondiale le istituzioni non democratiche, perché elette da nessuno, maggiormente responsabili della situazione globale, dall’altra parte c’era l’Internazionale Socialista, una delle grandi famiglie politiche mondiali della sinistra, che aveva tra gli obiettivi quello di collocare un proprio uomo alla direzione della WTO. Il movimento cresceva fuori dalle grandi famiglie politiche che avevano costruito l’800 e il 900. La grande stampa descriveva un movimento con migliaia di giovani in piazza con quaderni e computer che prendevano appunti, organizzando lezioni all’aperto. C’era un’enorme adesione dei movimenti cattolici al Genoa Social Forum. Prima di Genova il movimento aveva una grande presa, in Italia e nel mondo.

È a quel punto che, prima di Genova, scatta la decisione di reprimere questo movimento con una tenaglia: la repressione in piazza da una parte e l’attacco mediatico dall’altra, teso a definire il movimento unicamente come dei violenti. In Italia dopo Genova il movimento comincia ad essere sempre associato ai black block, mentre fuori dall’Italia questa repressione scatta anche un po’ prima, con Praga e Goteborg. Quindi è stata una decisione internazionale, quella di cercare di bloccare la crescita di un movimento che aveva raccolto attorno a sé un consenso e una credibilità che non aveva precedenti, proprio perché aveva rotto tutti i confini politici e non rientrava unicamente nei confini della “Sinistra”, altrimenti non avremmo avuto 1.600 associazioni che aderivano al Genoa Social Forum. Un fatto, questo, che mette paura e fa scattare quella logica repressiva a livello globale. Una logica che è gestita nel quotidiano con la repressione poliziesca e le veline mediatiche, che inizialmente oscurano totalmente il movimento. Noi ci mettiamo parecchio tempo prima di riuscire a ribaltare e a ribaltare l’immagine del movimento almeno in una parte della popolazione, attraverso i numerosi documenti fotografici, attraverso le migliaia di riprese fatte dai cellulari, attraverso i filmati recuperati dalle varie televisioni locali. Così come ci mettono nove anni i magistrati per arrivare alle sentenze di questi processi e ricostruire le responsabilità.

 

Già alla fine degli anni ’90 il movimento no-global denunciava il risvolto negativo del modo in cui si stava impostando la globalizzazione e la degenerazione dell’economia, completamente nelle mani dei mercati. Secondo lei esiste un legame con la crisi attuale?

Assolutamente sì. Infatti noi abbiamo chiamato la mostra organizzata a Genova per il decennale “Cassandra”, questa tragica, mitica figura dell’antichità che era in grado di prevedere il futuro ma non veniva ascoltata e che alla fine non riusciva a cambiare il corso della storia. Questo è quello che è accaduto, almeno in Europa, al movimento. Abbiamo recuperato i discorsi svolti nella sessione di apertura di Genova, in cui Walden Bello, economista delle Filippine, leader dell’osservatorio Focus on the Global South, diceva che se fosse andato avanti quel modello di sviluppo si sarebbe arrivati a una incompatibilità fra quello e gli equilibri climatici della biosfera, che è poi quello che è accaduto nelle diverse catastrofi climatiche che si sono succedute in seguito. Susan George sosteneva che se fosse proseguita la finanziarizzazione dell’economia, saremmo andati incontro a una delle più drammatiche crisi economiche e sociali che il nostro continente abbia mai vissuto, così come Zanotelli scriveva che in un mondo dove l’80% delle ricchezze è controllato dal 20% della popolazione, si sarebbe verificato un ricorso continuo alla guerra da parte di questo 20% per controllare le risorse energetiche. La finanziarizzazione dell’economia è proseguita a un livello impensabile. Ogni giorno vengono scambiati quattro trilioni di dollari a livello finanziario, il 90% dei quali attraverso speculazioni che stanno massacrando l’economia reale, con la crisi e la disoccupazione che abbiamo di fronte. Sulle guerre è anche inutile dilungarsi: Iraq, Libia e Afghanistan sono tutte guerre per il controllo delle risorse energetiche. Dunque noi allora avevamo ragione, e infatti oggi i governi europei discutono di Tobin Tax (tassa sulle transazioni finanziarie, ndA) dopo che allora, quando avevamo raccolto 150.000 firme in sostegno di una legge d’iniziativa popolare che la istituisse, tutti ci avevano preso per matti. Quello che avevamo previsto si è purtroppo realizzato e oggi, 10 anni dopo, siamo ancora qui a ripetere che i rischi sono anche maggiori, perché di strada verso il baratro se n’è fatta già moltissima.

 

Quando ci si rese conto che questa crisi sarebbe stata “storica”, molti osservatori suggerirono di approfittarne per rivoluzionare l’intero sistema di gestione dell’economia e della finanza. A qualche anno di distanza dallo scoppio della bolla iniziale, quanto giudica i provvedimenti presi fino a questo punto per superare il momento di difficoltà come un’occasione persa?

Senza dubbio è stata un’occasione persa. Di fronte a una crisi di queste dimensioni, una crisi strutturale, l’idea sarebbe dovuta essere quella di cambiare strada. Una scelta che non è stata realizzata, mentre si è scelto di ripercorrere la stessa strada facendo solo alcune piccole correzioni. E oggi ci sono dei governi europei totalmente in mano alla finanza internazionale. Pensiamo a Grecia, Portogallo e Italia. Pensiamo ai ministri del governo Monti e a quanti consigli d’amministrazione di banche o enti finanziari hanno preso parte. In pratica si è deciso di intervenire con capitali pubblici e soldi di tutti in favore di quelle stesse banche ed enti finanziari che hanno prodotto la crisi. Un’occasione persa dunque, con un tentativo di rilancio nella stessa direzione che ha provocato il disastro, da parte di chi detiene il potere vero. Con uno svuotamento nei fatti del concetto di democrazia così come è stata intesa dal 1789, con la Rivoluzione Francese: l’idea dello stato-nazione, la divisione dei poteri, il principio di “una testa, un voto”, l’autonomia dei mezzi d’informazione. Siamo di fronte al dominio delle grandi centrali finanziarie. Basti pensare alla Goldman Sachs e a quanti soggetti è riuscita a inserire all’interno dei governi non solo europei.

 

Lei ha già in parte anticipato la domanda: qual è il suo giudizio sul governo Monti e, più in generale, sullo stato di salute della politica italiana?

Io capisco le tante persone che hanno brindato alla caduta di Berlusconi (e hanno fatto decisamente bene), però c’è una continuità tra le politiche economica e finanziaria del vecchio e del nuovo governo. Al di là dei comportamenti privati del premier, che diventando pubblici oscuravano la credibilità del Paese sul piano internazionale, oggi questi signori in giacca e cravatta, che si presentano come “i professori”, altro non sono che i tecnocrati della grande finanza. Sono coloro che hanno gestito una parte della finanza nazionale e internazionale con delle modalità che hanno portato a questa crisi e che oggi cercano delle risposte senza andare a colpire questi grandi centri di potere. Il governo Monti è semplicemente la faccia presentabile del mondo dell’alta finanza. Trovo assurdo che si tocchino prima le pensioni a quelli che prendono novecento euro invece che mettere in discussione chi ne prende più d’una contemporaneamente, magari con pensioni da diverse migliaia di euro, senza andare a ridurre la forbice sociale.

 

E sulla situazione politica italiana?

La situazione della politica italiana è davvero drammatica. Credo ci sia una grande responsabilità da parte del Partito Democratico nel sostenere questo governo e, aldilà delle dichiarazioni, nel sostenere anche quelle decisioni che colpiscono i ceti più deboli, in assenza di qualunque politica che rilanci l’occupazione, che intervenga per ridurre il precariato, che peraltro assume forme sempre più disperate. Questo produce una rottura molto profonda tra politica e cittadini, soprattutto nel centro-sinistra, che credo sia molto difficile da riparare. Ma d’altronde la stessa Internazionale Socialista è perfettamente inserita all’interno del credo liberista, certamente gestito in modo più soft, magari con qualche pennellata di umanità, ma con ben poche differenze rispetto ai governi gestiti dal centro-destra. Basti pensare alla Spagna di Zapatero, tanto aperta sui diritti civili, ma indistinguibile dagli altri governi europei sulle questioni economiche e finanziarie. E il PD è l’esatta rappresentazione della collocazione di questi gruppi riformisti in Europa. Questo è un problema molto grande per il nostro paese. È necessario cercare di costruire un’opposizione al governo Monti nel modo più laico, concreto e meno ideologico possibile.

 

Pensa di avere un ruolo alle prossime elezioni politiche nazionali italiane?

Non ho ancora deciso. Sarei più disponibile se riuscissimo prima a costruire un solo polo a sinistra del PD.

 

Alternativo al PD o in alleanza?

Vittorio Agnoletto

Pensiamo prima a costruire questo polo. Se cominciamo a parlare di alleanze ci si divide in cento pezzi. Costruiamo un polo di sinistra, che abbia un suo profilo unitario sul piano politico e organizzativo. Io credo che riusciremmo a superare abbondantemente il 10%. A quel punto anche col PD nascerebbe un diverso rapporto di forza, ma prima di parlare di alleanze parlerei di ricostruire un’unità a sinistra. In questo senso l’esperienza della Linke in Germania è estremamente istruttiva. Vedo il PD lanciato alla rincorsa del centro, più che della sinistra, ma ognuno parli per sé… Prima che una sconfitta politica, la sinistra ha subìto una sconfitta culturale, che va recuperata se si vuole che un cambio di governo abbia dei risultati. Per questo, partendo dal libro e attualizzandone il contenuto fino ai giorni nostri, sto scrivendo i testi per uno spettacolo di lettura e musica (con il gruppo musicale Marco Fusi Ensemble) con il quale proverò a girare le tante città d’Italia. Credo proprio che ci sia bisogno di creare cultura ed io provo a dare il mio contributo.

 

Pensa ci sia lo spazio per un rilancio del movimento, anche approfittando della crisi?

Penso di sì, anche se ovviamente avrà un profilo diverso da quello di dieci anni fa, poiché quel movimento non era figlio di una crisi. Avrà forme organizzative diverse, per creare un filo conduttore unico tra le diverse anime, e sarà anche più difficile da orientare verso obiettivi condivisi ed efficaci. Però credo ci sia la possibilità. Ci sono segnali interessanti, come Occupy Wall Street e gli Indignados in Spagna. Il distacco dalle forze politiche è molto ampio e diffuso nella popolazione. Sta a noi trasformare questo distacco, più che in apatia, rassegnazione o antipolitica generica, in una crescita di consapevolezza e quindi in un movimento che sappia guardare al futuro.

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a cura di Erika Farris e Salvo Mangiafico

Intervista a Vittorio Agnoletto: tra il G8 di Genova e l'eclisse della democrazia… – Parte 1

[stextbox id=”custom” big=”true”]Dopo 10 anni dai tragici fatti del G8 di Genova del 2001, lo scorso anno è stato pubblicato il libro “L’eclisse della democrazia” (Feltrinelli Editore), dove l’allora portavoce del “Genoa social forum” Vittorio Agnoletto e il giornalista Lorenzo Guadagnucci, pestato e arrestato durante il sanguinoso blitz alla scuola Diaz, raccontano una delle pagine più vergognose e controverse della storia italiana, mettendo in evidenza gli innumerevoli tentativi di bloccare le inchieste, condizionare i testimoni, screditare gli inquirenti e indirizzare i processi. Un libro-documentario scritto servendosi del contributo di “voci” interne agli apparati dello Stato e della preziosissima testimonianza di Enrico Zucca, pm al processo sui fatti della Diaz, che per la prima volta svela i retroscena dell’inchiesta.[/stextbox]

 

Di libri sul G8, purtroppo, ne sono stati scritti tanti e tante parole sono state dette. Quali sono gli elementi nuovi che la vostra riflessione apporta all’argomento, soprattutto riguardo a quanto successo alla scuola Diaz e alla morte di Carlo Giuliani?

La caratteristica del nostro libro è che noi non ci limitiamo a raccontare e descrivere quello che è accaduto nelle giornate di Genova, ma cerchiamo innanzitutto di individuare le responsabilità e i responsabili, con nomi e cognomi. Ricostruiamo anche le vicende processuali dei nove anni che vanno dal 2001 alle sentenze di appello dei grandi processi sulla Diaz e su Bolzaneto e raccontiamo con l’aiuto di Enrico Zucca, pubblico ministero nel processo della Diaz, tutti i tentativi, ovviamente illegali e illeciti, che sono stati fatti per cercare di bloccare le inchieste della magistratura e impedire che queste arrivassero a conclusione e alle sentenze. È quindi un libro estremamente documentato, che infatti non ha finora ottenuto né una denuncia né una smentita, perché quello che noi raccontiamo è frutto di una ricerca su migliaia e migliaia di pagine di archivi processuali, di interrogatori e di intercettazioni. Vi sono anche tante dichiarazioni che noi siamo andati a raccogliere dai protagonisti diretti. La verità che noi ricostruiamo è assolutamente incontrovertibile. Delle vicende dei processi, cioè di tutto quello che sta dietro i processi e dei tentativi di bloccarli, non aveva assolutamente mai parlato nessuno.

 

Quando dice che questo libro non ha ricevuto denunce né smentite, sembra quasi dispiaciuto, come se le avesse aspettate…

No, assolutamente non dispiaciuto. Nessuno può smentire quello che noi raccontiamo perché corrisponde alla verità, è tutto assolutamente documentato. Non potendolo smentire, hanno agito in un altro modo, praticando un’assoluta e totale censura. Il giorno in cui il nostro libro è uscito in libreria, ad esempio, i due principali quotidiani italiani, che avevano ricevuto il libro dalla casa editrice Feltrinelli con la richiesta di recensione, sono usciti entrambi facendo un’amplissima recensione di un altro libro che parlava di Genova. È un messaggio molto chiaro all’editore: di Genova (di cui ricorreva il decennale l’anno scorso) se ne può e se ne deve parlare, ma non di quel libro. Lo stesso è accaduto quando abbiamo presentato il libro alla Feltrinelli di Genova con una conferenza stampa di cui erano stati avvisati oltre cento giornalisti, mentre si è presentato solo quello della Radio Svizzera Italiana. Questo dà la dimensione del tentativo di oscurare completamente questo libro. Nessuna trasmissione televisiva delle reti nazionali ci ha invitato, nemmeno quelle dove gli autori dei libri che produce Feltrinelli sono regolarmente presenti. Ripeto, credo che non ci sia un altro libro così documentato su quello che è avvenuto nel 2001 e dal 2001 ai giorni nostri. Per fortuna c’è il web, per fortuna c’è il passaparola e quindi il libro ha esaurito ormai la prima edizione e siamo sulle diecimila copie vendute.

 

So che può sembrare banale, ma a cosa è dovuto lo scarso interesse dei media – quello che lei ha definito censura – nei confronti del vostro libro? Sono pressioni dall’alto o cosa?

Non è scarso interesse. Lei riesce a trovare un altro libro che documenta con precisione le responsabilità del capo dei servizi segreti italiani, allora capo della polizia? Che racconta cosa accadde durante il rito abbreviato per il processo a De Gennaro, uno degli uomini più potenti attualmente in Italia, coordinatore unico dei servizi segreti? Riesce a trovare un altro libro che in modo molto preciso individua anche le responsabilità, le dichiarazioni intercettate dell’attuale capo della polizia? O che fa la lista – nomi e cognomi – dei vertici della polizia che sono stati condannati e che anziché essere rimossi sono rimasti tutti al loro posto? Non stiamo parlando di questioni secondarie. Credo che coloro che hanno quei ruoli siano in grado di esercitare una qualche influenza. Come io racconto nelle prime pagine del libro, in cui riporto un dialogo avvenuto il 10 settembre del 2010 con un personaggio molto in alto degli apparati dello Stato. Mi sono trovato di fronte una persona spaventatissima, che aveva ricevuto pressioni esplicite e molto forti quando si era saputo del suo incontro con me, e che mi ha detto esplicitamente “io al suo posto non lo scriverei questo libro, stia molto, molto attento”. Un messaggio preciso. Così come precise sono state le minacce, gli avvertimenti che ho subìto negli anni, tutte le volte che in televisione o in radio dichiaravo che era necessario risalire alle responsabilità dei mandanti. Sono entrati due volte negli uffici dove stavano i miei collaboratori, sono stati rubati i computer e lasciati sul tavolo carta di credito e soldi, per far capire che non era un furto come altri. È stata mandata una lettera minatoria a chi abitava al piano sopra al mio dicendo che se non la smettevo tutto lo stabile sarebbe stato fatto saltare in aria. Tutte cose documentate e denunciate dall’avvocato Pisapia – che attualmente è sindaco di Milano ma che all’epoca era il mio legale – alla magistratura, tutte inchieste che non sono andate avanti. L’unica cosa che hanno fatto è stata quella di propormi una scorta. Ora, per minacce di questo tipo prendere una scorta della polizia fa quasi sorridere… Insieme a Lorenzo Guadagnucci, una delle vittime della Diaz e coautore del libro, abbiamo per anni continuato a sostenere che non ci si poteva fermare solo ai fatti, ma che era necessario individuare le responsabilità apicali, perché è molto difficile poter credere che più di cento poliziotti, di colpo, all’interno della scuola Diaz, decidano tutti di non rispettare le regole, di non rispettare le leggi e commettano dei reati. È molto difficile pensare che decine tra poliziotti, carabinieri, finanzieri, operatori penitenziari, a Bolzaneto, comincino a torturare e a commettere violenze così, come d’incanto. È evidente che se questo avviene per così tanti rappresentanti delle forze dell’ordine contemporaneamente e in luoghi diversi, o qualcuno l’ha ordinato, o perlomeno qualcuno ha lanciato il messaggio che rimarranno completamente impuniti.

 

Lei ha accennato al ruolo di De Gennaro, che è stato assolto. La Corte di Cassazione ha inoltre confermato la sentenza a quattro anni di reclusione per i poliziotti che erano accusati di aver materialmente arrestato gli studenti spagnoli. Qual è il suo commento su queste due sentenze, tenendo anche conto di tutti i nomi ai vertici delle forze di sicurezza che sono stati accusati ma che si sono sempre rifiutati di dimettersi, anche dopo condanne di secondo grado?

Vittorio Agnoletto

Sulla sentenza della Cassazione su De Gennaro io mi limito a dire che c’è un aspetto abbastanza incredibile. La sentenza della Cassazione cancella la sentenza d’appello ma non ordina un nuovo processo. Si rifà alla sentenza di primo grado, con cui era stato assolto. In genere la Cassazione interviene su questioni di metodo e non di merito. Se annulli una sentenza occorre che si rifaccia un processo. Così non è. Lorenzo e io abbiamo subito detto che gli equilibri costituzionali erano stati manomessi. Immagini di essere uno dei giudici della Cassazione che si trova a giudicare quello che era il capo della polizia, messo sotto inchiesta, condannato in appello e che nel frattempo veniva continuamente promosso e protetto da tutto il mondo politico in modo bipartisan. Allora c’è un’interferenza del potere politico rispetto al percorso giudiziario. Mi limito a questo: credo che la situazione in cui si sono trovati i giudici di Cassazione non sia stata semplice. Detto questo, sono assolutamente convinto che una sentenza non può riscrivere la storia. I fatti sono accertati. Che poi una corte dia un’interpretazione diversa rispetto al reato non modifica comunque i fatti. I fatti ci sono e nessuno è stato in grado di contraddirli. Altre sentenze, che però coinvolgevano persone meno in alto nella scala gerarchica, sono arrivate a essere definitive; c’è già un pronunciamento della Cassazione. Altre ancora molto importanti, come quelle relative ai fatti della Diaz e di Bolzaneto, rischiano di arrivare in prescrizione. C’è un allarme, lanciato anche da Magistratura Democratica, secondo cui rischia di andare in prescrizione tutto il processo sulla Diaz. Rimarrà in piedi la parte civilistica, cioè la questione relativa ai risarcimenti, ma la parte penale rischia di concludersi assolutamente nel nulla. Questa non è giustizia, credo che su questo si possa essere tutti d’accordo. Per quanto riguarda il fatto che tutti i vertici della polizia presenti a Genova e condannati, anziché essere sospesi o rimossi, sono stati tutti promossi, questo è uno scandalo italiano enorme. Non soltanto i condannati non hanno sentito la dignità di doversi dimettere, ma la politica non ha sentito il dovere di farli dimettere e li ha, anzi, promossi. Qui nasce una domanda che noi poniamo nel libro, una domanda che, se vogliamo, è molto angosciante: di che cosa ha paura la politica? Come mai la politica non ha preso dei provvedimenti e, quindi, ha rinunciato al suo ruolo? Io mi limito a dire che in un paese dove è previsto che l’incarico del Capo dello Stato duri sette anni, non è una cosa sana lasciare per diciannove anni, forse di più, le stesse persone ai vertici di diverse importanti istituzioni, come l’antimafia, la polizia e i servizi segreti.

 

Lei dice che la politica non ha adempiuto al suo ruolo. Allora qual è stato il ruolo della politica prima, durante e dopo il G8?

Il G8 è stato preparato dai governi di centrosinistra che hanno preceduto il governo Berlusconi, quindi dal governo D’Alema e dal governo Amato. Berlusconi vince le elezioni nel maggio del 2001 e il suo governo si insedia appena un mese prima dell’inizio del G8. La quasi totalità dei preparativi dipende dai governi precedenti, di centrosinistra. Addirittura la scelta di Genova dipende dal governo precedente, così come gli istruttori fatti venire da Los Angeles per preparare i reparti di polizia che devono essere schierati. Il settimo nucleo del primo reparto di Roma, che poi sarà il nucleo che entra per primo alla Diaz e quindi maggiormente responsabile delle violenze che si sono consumate in quella scuola, viene costituito proprio per l’occasione di Genova dal governo di centrosinistra. Fra le scelte operate dal centrosinistra, c’è addirittura l’uso dei micidiali tonfa. Quando inizia il G8 c’è il governo di centrodestra, presieduto da Berlusconi, Scajola è il ministro degli interni, Fini è vicepremier. Non c’è ombra di dubbio che la gestione del G8, di quelle giornate, porti la responsabilità politica del governo in carica. Quando i magistrati cominciano l’inchiesta e individuano le responsabilità della truppa di polizia che ha praticato violenze inaudite e illegali all’interno della scuola Diaz, è la destra che si scatena in difesa dei poliziotti e dei carabinieri coinvolti nelle vicende dell’assalto alla scuola e nelle torture a Bolzaneto, a prescindere da quello che hanno compiuto. Basta vedere le dichiarazioni di Gianfranco Fini già dalla sera del 20 luglio. Quando questi incominciano a risalire ai vertici della polizia, cioè indagano anche i ruoli apicali, la situazione si complica. Il centrosinistra, che prima chiedeva una commissione d’inchiesta, si spacca e la stragrande maggioranza, tranne Rifondazione Comunista, non la vuole più. Il motivo è molto semplice. I vertici della polizia messi sotto accusa dai magistrati non sono persone che hanno una storia o una cultura di estrema destra. È molto triste quello che dico, ma nessuno può pensare che in tutti questi ultimi vent’anni le frequentazioni di De Gennaro siano state con Fini. Chi si muove in favore di De Gennaro sui media si chiama Luciano Violante, Giuliano Amato. Quindi, semplificando, per difendere da una parte le truppe della polizia e dei carabinieri, dall’altro i vertici della polizia, c’è un’operazione bipartisan per bloccare la commissione d’inchiesta. Qualunque richiesta di verità e giustizia non troverà nessuna sponda all’interno del Parlamento. Questo spiega anche, in parte, il perché del disinteresse dei media, anche di centrosinistra, verso il nostro libro.

– fine prima parte –
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a cura di Erika Farris e Salvo Mangiafico

 

Cas(t)a Pound

“È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”

                                                                                                                             (Costituzione Italiana, disposizioni finali XII)

Parlare di Casa Pound non è proprio un compito semplice. Associazione fortemente dibattuta, Casa Pound è stata protagonista delle cronache recenti in seguito all’omicidio di Samb Modou e Diop Mor da parte del simpatizzante Gianluca Casseri, e per la gambizzazione di Francesco Bianco, ex militante dei Nar.

Parlare di Casa Pound non è un compito semplice in quanto ci esprimiamo su un’associazione che sta acquistando un forte potere in Italia, soprattutto negli ultimi anni (3.500 iscritti al 2011, si legge dal sito), e soprattutto perché parliamo di una associazione di chiara ispirazione fascista, il che imbarazza a prescindere, visto i trascorsi del nostro Paese.

Ma cos’è Casa Pound e a cosa deve il suo successo? Dal sito ufficiale leggiamo che Casa Pound è un’associazione regolarmente costituita e riconosciuta, e la burocrazia finisce lì, per lasciare il posto all’azione e al volontariato.

Casa Pound nasce a Roma nel dicembre del 2003 con l’occupazione di uno stabile nel quartiere romano Esquilino da parte di alcuni giovani provenienti dall’esperienza precedente di Casa Montag. Il nome prende ispirazione da Ezra Pound, poeta statunitense aderente alla Repubblica Sociale Italiana, cosa che ha portato la figlia del suddetto a sporgere una bella denuncia a Casa Pound definendola “associazione compromessa”, quindi non degna di portare il nome del padre, che proprio uno stinco di santo non era.

Per Casa Pound il compito maggiore, a mio dire, è stato quello di restituire un’immagine del fascismo presentabile, a cui poter aderire alla luce del sole, storia che la destra attuale ha cercato di nascondere come la cenere sotto al tappeto, e che ha indispettito molti simpatizzanti e nostalgici del tempo che fu.

In effetti Casa Pound propone moltissime attività, che spaziano dai momenti culturali, con incontri di dibattito tra i diversi partiti, passando per musica con la creazione degli Zetazeroalfa – gruppo cult per l’associazione – attività teatrali, web tv, riviste, fino ad arrivare al punto forte, ovvero le attività nel sociale. Tra di esse ricordiamo la proposta del Mutuo Sociale, progetto politico che si interroga sull’emergenza abitativa in Italia; “Tempo di essere madri”, proposta per affrontare il tema delle madri lavoratrici, e non meno importante “Blocco studentesco”, movimento di organizzazione e mobilitazione studentesca.

Uno dei punti forti di questa associazione è rappresentato dalle numerose conferenze e iniziative che coinvolgono le nostre città, e che vengono promossi il più delle volte senza rispettare le disposizioni sulle affissioni pubbliche, il cosiddetto “attacchinaggio”. Casa Pound, un giorno sì e l’altro pure, organizza dibattiti sugli argomenti dell’attualità, come l’acqua pubblica e il nucleare, per essere “sempre sul pezzo”.

Ma la vera frontiera avanguardista riguarda gli incontri sulle personalità di spicco della nostra storia, da Craxi (e qui ci possiamo pure arrivare concettualmente) alle denunce sociali nascoste (nemmeno troppo) nei temi di Rino Gaetano, che però si è sempre dichiarato apartitico; a Peppino Impastato, fino ad arrivare alla ciliegina sulla torta: la conferenza su Ernesto “Che” Guevara al grido di “aprendimos a quererte”, ovvero “abbiamo imparato ad amarti”.

Ora, a parte non sapere, causa mancanza dell’interessato, se anche Che Guevara ha imparato ad amare loro, devo dire che Casa Pound assume in sé la capacità davvero invidiabile di richiamare, affascinare e coinvolgere tantissimi giovani a una passione e una concretezza politica che non riescono di certo a trovare nel “siamo mica qui a drizzare banane col martello” di Bersani, o nel (non?) più compianto “mi consenta” del Cavaliere.

Ma cos’è davvero Casa Pound? È l’associazione de “La Salamandra”, primo nucleo di protezione civile a favore dei più deboli, o il gruppo che si muove al grido di “nel dubbio mena” degli Zerozetaalfa? È l’associazione che promuove la legalità nel ricordo di Falcone e Borsellino o il gruppo il quale fondatore e presidente, Gianluca Iannone, è stato condannato a 4 anni per aggressione a un carabiniere per una rissa del 2004 (come riportato ne “Il resto del Carlino”)? È l’associazione di Gr.i.me.s – l’equipe di medici e infermieri nata per difendere i cittadini dalle falde del sistema sanitario – oppure quella contro cui si stanno scagliando Idv e Pd per toglierle la possibilità di ricevere finanziamenti dal 5×1000?

Domande a cui ciascuno di noi è libero di rispondere, ma che sicuramente non prevedono mezze misure, linee di confine, accoglienza e mediazione, come in molti cercano di fare per dare un bel colpo al cerchio e uno alla botte. Casa Pound o si odia o si ama, a noi la scelta.

Parlare di Casa Pound non è un compito semplice perché se parliamo di “fasc…” e non stiamo nominando un fascio di fiori, evidentemente c’è qualcosa che non va; perché stiamo parlando di una realtà la cui fonte di ispirazione in Italia è considerata (speriamo ancora per molto) un reato, e se lo è un motivo ci sarà; ma soprattutto è un compito non solo difficile, ma anche imbarazzante, pensare che possa esistere (dentro e fuori Casa Pound) qualcuno che identifica ancora il fascismo con onore e fedeltà.