Polso di Puma – Non c'e' solo chi cerca lavoro

Il giovane attuale secondo me è un po’ traviato ormai.

Ma non riesce più ad ammetterlo, questo è il vero problema.

È come chiedere a qualcuno se ha votato l’attuale presidente del consiglio… Nessuno lo ammette!

Sono quelle cose strane ma che accadono e sono incontrollabili. Vi sto parlando del fatto che ormai questo neolaureato, questo diplomato, questo scuola-dell’obbligato, non puo’ più guadagnare mille euro al mese! Non può fare l’inserviente o l’operatore ecologico, non può usare le mani per lavorare!

Tra un aperitivo, una serata in discoteca, uno status su facebook da casa e uno dall’iphone è ormai sfuggito il senso del lavoro (“che non c’è“, voi direte), ma più di tutto il senso delle proprie possibilità. Ok è una banalità il fatto che tutti vivano al di sopra delle proprie possibilità; che la competizione, l’apparire appiattisce i bisogni – che diventano uguali per tutti i ceti – e che non tutti possono affrontare certe spese ma lo fanno lo stesso. Ma secondo me le banalità non vanno lasciate stare lì, a zonzo.

Allora ricapitoliamo: la gente si lascia condizionare e vuole tutto quello di cui non ha bisogno per un continuo apparire simile al vicino, al capo, a quello della tv.

Bene.

BENE?

Male! Ma le cose peggiori sono quando a essere travolti da questo tipo di crisi sono i famosi ragazzi “con la testa a posto”. Che si sentono fuori dal gregge. Si sentono così fuori che non possono fare quello che fanno gli altri. Si sentono superiori, si sentono limitati, sentono che la propria terra non offre niente, sentono che devono fuggire, sentono che devono avere posti di responsabilità, pensano che la responsabilità del matrimonio o di un figlio è pesante senza aver fatto ancora carriera, pensano, come insegna mediobanca, che il mondo giri intorno a loro.
Questo di sicuro non era un atteggiamento dei nostri genitori. Questa arroganza, questo protagonismo… Mi puzza!

Nel film “il padrino” c’è la frase mitica: “il potere logora chi non ce l’ha“. E ok, può essere.

Ma quanti esempi conosciamo di gente che invece di potere ne ha e ne viene logorata?

Ci sono persone capaci, persone fortunate e persone che impiegano la loro vita nel raggiungimento dei loro obiettivi. Onore a loro.
La mia potrebbe essere una questione stupida, ingenua.

Ma mi chiedo: se fossimo tutti più consapevoli di essere normali, se iniziassimo a pensare tutti di dover fare una vita da onesto lavoratore per 40 anni, vivremmo meglio?

Oppure i sogni aiutano a vivere?

Il punto è che questo nostro mondo nel quale dobbiamo essere tutti straordinari, tutti dobbiamo ostentare la nostra unicità, inevitabilmente ci rende tutti uguali. E allora tutte le ragazze si descrivono pazzerelle,  tutti i ragazzi pensano di essere bulletti o imprenditori in erba, mentre dietro di loro c’e’ tanta tanta insicurezza.

Il molosso
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Polsodipuma – Il ballo dei pezzenti

Rispondete alla domanda: chi sta rubando la vostra fetta di gioia quotidiana? Non subito però, contate almeno fino a dieci e pensateci un po’, prima… Nonostante i dieci secondi e l’acuta riflessione, molti di voi si focalizzeranno, in maniera quasi immediata, su persone a loro prossime. Vicine, non però quanto ci si aspetterebbe: pochi in realtà hanno veri nemici, o persone che detestano in modo sincero e appassionato. In questa società dai sentimenti edulcorati non ci sono odii epici, l’oggetto di sfogo quotidiano è il vicino, quello poco conosciuto, magari solo intravisto, ma che ci ruba il posto in fila, la borsa di studio all’università, l’opportunità di un buon lavoro sottopagato.

Non è un caso che ciò accada: è bensì il risultato, cercato con insistenza e infine ottenuto, da chi ci governa e controlla i grandi mezzi di comunicazione. Le elite politiche e imprenditoriali hanno compreso da un bel po’ che non c’è niente di meglio che stornare l’odio politico e di classe da sé e convogliarlo verso i più poveri, gli ultimi, gli immigrati, quelli che hanno deciso di sedersi al banchetto della società italiana senza avere i requisiti per farlo. In alternativa, il secondo obiettivo siamo noi stessi, italiani di classe (più o meno) media che a vario titolo ci consideriamo invitati a un pranzo in cui non ci vengono servite le portate migliori, in un perfido gioco che ha meno piatti che posti a tavola. Basta lanciare di continuo l’esca, far credere che ogni giorno ci siano case popolari, farmaci gratuiti, posti negli asili nido, opportunità di lavoro sottratte da altri, qualcuno abboccherà.

Risultato: nonostante numerose inchieste giornalistiche e giudiziarie quantifichino ogni giorno la quantità di denaro enorme sottratta alle case dello Stato da politici e imprenditori collusi, una larga parte dell’opinione pubblica identifica nelle persone della sua stessa classe sociale e non nelle elite economiche o nei politici i responsabili del declino economico e culturale della società italiana.

È il ballo dei pezzenti, la caccia allo straniero, con poveri che si accusano a vicenda di sottrarsi risorse, lo sgretolamento dell’idea stessa di comunità, la nascita di pulsioni autonomiste ridicole, come se separarsi e frammentarsi, in una corsa spasmodica verso l’infinitamente (politicamente) piccolo potesse bastare a salvare denaro, piuttosto che dissiparne ancora di più nella moltiplicazione delle poltrone e delle indennità.

È scomparsa la lotta di classe; lo spettro di inizio millennio sono i nemici della porta accanto, quelli che stanno peggio di noi, ma che possono vedere, nell’immaginario collettivo, le loro sorti risollevarsi grazie ad aiuti immeritati di uno Stato considerato iniquo. Nell’aumento dell’insicurezza e dell’odio sociale intraclassista, le elite che comandano in Italia sfruttano ogni giorno di più un salvacondotto che gli permette di continuare a curare i loro interessi privati nel disinteresse generale. L’opinione pubblica, distratta, è affannata a decifrare quale fetta dei loro magri stipendi sia rubata dai migranti, che infrangono quasi ogni giorno le chiglie dei loro barconi sugli scogli di Lampedusa.

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Spegnete la TV

Se in tv si pubblicizza una nuova trasmissione dal nome TAMARREIDE: un viaggio intorno al mondo del tamarro… Beh allora questa tv mi fa pensare che non abbiamo proprio più niente da dire.

Ho sognato che un giorno la tv trasmettesse un messaggio su tutti i canali, nello stesso momento:

 

“Spegnete la tv.

Informiamo gli utenti che ci siamo resi conto di essere incapaci di trasmettere messaggi che abbiano valore nelle vostre vite. Ci scusiamo per l’enorme disagio arrecatovi e per la distrazione da voi stessi. Ci scusiamo perché spesso abbiamo provato a farvi comprare dai messaggi pubblicitari perché ne traevamo beneficio economico noi per primi. Ci scusiamo per tutto il tempo in cui vi abbiamo dirottato verso etichette che nell’attuale società non trovano riscontro e, poiché non ci riteniamo più in grado di tener testa alla bellezza dell’essere umano, consigliamo a tutti un nuovo approccio alla vita. Sappiamo bene che l’invito non basterà a farvi spegnere questo mezzo che ha saputo incantarvi per anni, che vi ha dato la possibilità di distrarvi dall’accettazione di ciò che non avreste voluto vedere e accettare, che vi ha fatto divertire, sognare ed emulare in ogni contesto.

Ci vediamo quindi costretti a interrompere le trasmissioni.

Forse un giorno la tv tornerà, ma non come l’avete lasciata. Meritate di più.

Siamo certi che sarete gradualmente capaci di riapprezzare le fasi del Sole e della Luna, di pranzare e cenare guardandovi negli occhi, di non far scandire i vostri tempi da quelli televisivi.

Ci auguriamo inoltre che possa diminuire il numero dei casi di anoressia e disturbi dovuti all’alimentazione spesso incitati dalle immagini che troppe volte vi abbiamo fatto credere essere gli standard di bellezza, e che quindi anche la vostra vita sessuale possa trarne un nuovo beneficio, senza troppi inutili canoni di omologazione plastica a cui vi abbiamo sottoposto. L’importanza della diversità sarà sempre la forza dell’essere umano.”

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tratto da ANNUSIAMO I NOSTRI BRIVIDI NEGLI ANGOLI – CLAUDIA LICCARDO

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Allergia portami via!

Pollini, graminacee, acari, allergeni, frutti di stagione, polveri… Quanti nemici ha l’allergico?

Troppi! Ma perché?

Io mi domando e dico, prima mica esisteva l’allergia? Era una rarità!

Io personalmente ho sempre sguazzato nei giardini, nei fanghi, nei terreni, nelle polveri, ho sempre respirato arie salubri e insalubri, secche, umide, impollinate o rarefatte e stavo bene! Sempre bene!

E poi, all’improvviso…

Sei allergico alla polvere, pulisci la stanza!

Sei allergico ai pollini chiuditi dentro ad aprile!

Sei allergico alla frutta! Non mangiare più fichi, ciliegie, pesche e quant’altro!

Ma perché?! Perché la gente moderna diventa allergica da adulta?!

Un noto otorino da cui andai mi disse: caro molosso, visto che ti è venuta all’improvviso, può anche andarsene all’improvviso; per cui, ogni anno, prova tutto quello che non puoi mangiare, può essere l’anno giusto.

E io ogni estate, bentelan alla mano, provo tutti i frutti del peccato, rimanendo deluso ogni volta, sempre di più.

Su wikipedia addirittura si legge: “si può dire quindi che siano più colpiti da allergie coloro che appartengono a ceti alti, sono figli unici, vivono in aree urbane e mantengono alti standard igienici.”

Era quello che ho sempre sospettato! Si spiega perché fin quando mi trascinavo nel fango e andavo a recuperare super santos ovali sotto le fiat 127 ero una persona sana!

Poi con lo studio, l’affermazione dell’io, il computer, il telefonino, il comfort, le auto di lusso, l’attico a Manhattan, tutto è cambiato! Come sempre, quando si perdono di vista le cose semplici ma basilari, come la natura, ne si pagano le conseguenze!

“Ma che palle, possibile che gira e rigira arrivi sempre allo stesso punto?!”, potrebbe obiettare un interlocutore; qualcuno potrebbe addirittura dire che si tratta di complottismo, altri di disfattismo, altri di mera polemica, altri ancora di inutile pensiero su cose ineluttabili.

Resta il fatto che l’allergia è una cosa brutta e fastidiosa e piano piano tutti, anche tu che ti vanti di non soffrire mai il cambio di stagione, ne faranno parte.

Resta il fatto che prima non era così diffusa e che quando c’erano le mezze stagioni era piu’ facile prevedere quando iniziare la terapia di zirtec, eventualmente!

Ovviamente a pensare male non ci si sbaglia mai, diceva forse Andreotti… E quindi pensate a finosoft… Pensate a finochic… Pensate a chi produce zirtec, bentelan, XYZAL, fans, chips, chops e strogedi.

Niente è da escludere dove gli stallieri dei presidenti del consiglio sono dei mafiosi.

 

Il molosso

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La cultura del sopruso

Parafrasando un termine degno del miglior Mario Merola, per sintetizzare al massimo la situazione dell’individuo nella società odierna, ci conviene usare la FISOLOFIA.

L’attuale momento storico ci inserisce in un panorama vastissimo di correnti di pensiero, di mode, di fazioni, di razzismi, di proselitismi e di tanti ismi che tendono a scomporsi sempre di più. Scomponendo scomponendo arriviamo a lui, la causa di tutto, l’individuo. Il singolo individuo per la precisione. Questa visione (sulla quale il buon Bauman ha scritto più e più “libri liquidi“) rende subito chiaro che questo individuo individuocentrico ha perso di vista il contatto con la realtà associativa, troppo preso dal suo io e dai suoi problemi.

La società ha perso la sua funzione di culla e di obiettivo per l’uomo che, invece, per soddisfare bisogni secondari, diventa ostile e si chiude in sé stesso.

Forse alcuni non diventano ostili, ma piuttosto distaccati, e sperano, come urla Peter Finch di Quinto Potere di essere lasciati in pace nei loro salotti, con i loro tostapane e le loro tv.

Tostapane a parte questi uomini, ostili o impauriti che siano, tendono all’isolamento e al tentativo perenne di affermare la propria persona e personalità a tutti costi e in tutti i campi.

Questo si tramuta in comportamento antisociale. Si tramuta in arrivismo, si tramuta in prepotenza, si tramuta in arroganza, si tramuta in sopruso.

Mi si potrà dire che il mondo è sempre andato così, che ovunque è così, ma non sono d’accordo.

Si può partire dall’esempio banale e addirittura fenomenologizzato: l’automobile.

L’uomo nell’automobile si trasforma, diventa improvvisamente re della strada e improvvisamente non può sopportare che qualcuno gli passi davanti. Anzi è lui che cerca di passare davanti agli altri con manovre brusche e pericolose, è lui che in autostrada si mette a due centimetri di distanza dall’auto davanti lampeggiando continuamente sulla corsia di sorpasso “perché questo fesso deve lasciare passare quelli più veloci” e così via.

Ma l’individuo ormai non ha bisogno della macchina per ostentare la sua superpotenza. Egli si getta nelle strade noncurante delle strisce o dei semafori perché comanda lui.

Non voglio fare l’elenco di cose che vedo vivendo giorno dopo giorno.

Voglio capire come mai siamo arrivati a questo punto. Come mai tutti hanno deciso di vivere al di sopra delle proprie possibilità economiche e mentali.

Perché l’affermazione della propria persona è diventata sinonimo di prevaricazione.

Gli individui che hanno ancora un barlume di luce dentro di loro, che sanno che la società, la condivisione di sentimenti positivi, di rapporti leali privi di invidie, competizione e gelosie, questi individui che (come direbbe Russell B.) sono pronti a conquistare la felicità guardando all’esterno e non solo dentro loro stessi, come fanno? Chi guardano? Quale materiale hanno a disposizione per far funzionare la loro splendida macchina chiamata cervello?

Essi sono costretti e limitati dalla società nella quale sono nati e cresciuti e che accettano spesso come un qualcosa impossibile da cambiare.

L’unico strumento per salvarsi dall’egocrazia imperante è creare piccoli microcosmi, in cui gruppi di persone sviluppino il proprio pensiero e attraverso l’arte della dialettica instaurino relazioni sincere e legami profondi.

Ma il senso della parola società? Si è dunque perso?

Il molosso e Palumbo

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Un post senza Gelmini

Facciamo un piccolo salto indietro nel tempo. Non molto indietro. Immaginiamo di ritornare al luglio del 2008. Ritorniamo cioè a prima che venisse messa in atto la strategia della distruzione dell’Università pubblica e di ogni modello di sviluppo delle politiche educative. Ritorniamo a prima che i fondi del finanziamento ordinario venissero ridotti del 20% fino al 2013; a prima che aumentassero le tasse di iscrizione per i fuoricorso; a prima che il turn-over fosse ridotto del 50% fino al 2011, cancellando di fatto ogni speranza di ingresso per i giovani; a prima che i poteri di rettori e Consiglio di Amministrazione fossero intensificati, diminuendo la democrazia all’interno degli atenei; a prima che diventasse possibile per le Università pubbliche diventare fondazioni private. Cerchiamo di ritornare a quel momento in cui il lavoro precario non era ancora l’unica forma di lavoro universitario e, almeno sulla carta, esistevano ancora prospettive di carriera accademica. Ecco, facciamo questo piccolo sforzo di memoria che ci riporta a quando tutti questi e altri eventi non si erano ancora verificati e chiediamoci:

Come funziona l’Università nel Luglio del 2008?

I ranking internazionali non la classificano mai o quasi mai nelle prime 100-200 del mondo, a differenza di molte Università europee. Nonostante il livello di diffusione dei fenomeni non sia chiaro, nepotismo, scandali e corruzione sono all’ordine del giorno, coinvolgendo spesso figure di spicco degli atenei. I meccanismi di reclutamento (i famigerati concorsi) di dottorandi, ricercatori e professori sono il più delle volte (per non dire sempre) falsati. Troppo spesso non premiano i migliori e, dato il clima di sfiducia, non riescono ad attrarre nemmeno i concorrenti più qualificati (la partecipazione di concorrenti stranieri è un miraggio). La famosa fuga dei cervelli (che sarebbe opportuno definire espulsione dei cervelli) è solo la più eclatante delle conseguenze di questo meccanismo: i nostri giovani sono così bravi da poter lavorare nelle Università più prestigiose del mondo ma, per assurdo, non in quelle italiane.

La mentalità diffusa di chi lavora nei nostri atenei è molto spesso provinciale, rassegnata, vecchia e statica. I nuovi assunti accettano le regole del sistema con un servilismo a volte stupefacente, nulla è concesso al  cambiamento, al miglioramento e all’innovazione. Le stabilizzazioni di massa, basate solo su criteri di anzianità, permettono l’ingresso di personaggi che trascorreranno il resto della loro carriera in attesa della pensione, senza alcuna voglia di crescere e migliorarsi.

Il decentramento del potere decisionale dal Ministero verso i singoli atenei (cominciato nel 1989 con la riforma Ruberti) non ha fatto altro che creare un sistema fortemente autoreferenziale, in cui i docenti sono collettivamente responsabili di decisioni che riguardano essi stessi. La mobilità interna tra vari atenei del paese è ridotta quasi a zero e l’incapacità di attrarre studenti, ricercatori e docenti dall’estero è un caso unico nell’Occidente sviluppato. Ci si laurea, ci si dottora, si diventa ricercatori e professori nello stesso Dipartimento, apprendendo sin dall’inizio quali sono le regole del gioco e vendendo per tre soldi la propria dignità morale e professionale.

La produzione scientifica è troppo bassa se rapportata al numero di ricercatori accademici; spesso la lentezza e la superficialità con cui si lavora riescono a cancellare gli entusiasmi di chi ha appena iniziato e ha voglia di fare.

Molti docenti sono poco disponibili nei confronti degli studenti, assumendo comportamenti poco corretti e poco professionali in occasione delle sedute d’esame. Il fatto che il 41% del corpo docente abbia più di 60 anni e solo il 4% meno di 40 non lascia alcuna speranza di cambiamento al riguardo. Il numero di laureati resta basso (anche dopo la riforma del 3+2) rispetto agli altri paesi sviluppati dell’OCSE, con tempi di laurea lunghi e prospettive occupazionali inesistenti. Da parte loro i vari governi tagliano sempre più i finanziamenti, (arrivando a investire l’0.9% del PIL in università e ricerca, contro l’1.5 % della media OCSE) e non mostrano alcuna intenzione di voler varare una riforma radicale del sistema.

Il quadro che emerge è agghiacciante, con un’Università pubblica vecchia, provinciale e chiusa in sé stessa; senza alcuna prospettiva di miglioramento, diventa una terra di nessuno in cui tutti sono innocenti e l’unico responsabile è il ministro di turno. Nessuno spazio per riflessioni sul proprio ruolo sociale, sulle proprie responsabilità e doveri, su quanto si potrebbe fare, e fare molto bene. I casi di eccellenza (sparsi a macchia di leopardo nelle penisola) non bastano a giustificare una mentalità, nel suo complesso, distorta e malata. Chi ha voglia di emergere, di crescere o semplicemente chi è consapevole dei propri doveri nei confronti dello stato viene schiacciato in una morsa micidiale che annulla ogni entusiasmo. I più bravi vanno via, spaventati dalle frustrazioni di chi prova tutti i giorni a cambiare il sistema; gli sciacalli che comandano fanno di tutto per succhiare all’università pubblica tutto il suo sangue, senza preoccuparsi minimamente delle  terribili conseguenze per il paese. Sembra che l’Università sia un condannato a morte in attesa dell’esecuzione.

Stop! Fermiamoci e ritorniamo ad Aprile 2011. Un boia stupido e inconsapevole, l’On. Maria Stella Gelmini, ha compiuto l’esecuzione. L’Università pubblica è morta. Ma quanti ne hanno decretato la sua condanna?

 

L’uomo in più: questo sconosciuto

L’uomo in più.

Un film che è un capolavoro assoluto.

Un film che chi lo ha visto lo ha amato.

Un film che è troppo sconosciuto.

Non si può non rendere onore a Sorrentino per questo film.

Questa non è una recensione, è un osanna a questo lungometraggio.

Due personaggi, stesso nome, caratteristiche e caratteri opposti.

Due modi diversi di affrontare il successo e il declino, due persone fondamentalmente deboli, insicure, come la maggior parte di noi, che affrontano la vita come meglio sanno fare. La vita ci pone davanti a delle scelte e delle situazioni che affrontiamo quotidianamente e cerchiamo di farlo alla nostra maniera, pensando che sia quella migliore.

Con i nostri stessi occhi è difficile guardare i nostri errori e ancora di più ammetterli.

Con i nostri stessi occhi è difficile capire chi è la persona di cui ci possiamo fidare, e ancora più difficile comportarsi sempre in modo che lei si possa fidare di noi.

Ma quando poi ci rendiamo conto di alcune cose, la reazione può essere inaspettata.

Nel film i due personaggi sono interpretati benissimo da Toni Servillo e Andrea Renzi; gesti, abitudini, movimenti ma soprattutto parole e modo di parlare ci fanno entrare in una realtà parallela, dove abbiamo a che fare con uomini veri e non con attori. Tutti i personaggi che girano intorno ai protagonisti sono vicini a noi: li incontriamo nei bar, per strada, in ufficio. Ci sono personaggi viscidi, mediocri e personaggi semplici, forse pure un po’ all’antica, che forse sono la parte più sana della società descritta. La critica spietata al mondo del calcio e dello spettacolo si fonde, senza dover trovare colpi di scena eclatanti, nella descrizione dei momenti di vita quotidiana dei protagonisti, che si ritrovano spesso in completa solitudine. La timidezza e la sobrietà di Antonio Pisapia viene congelata in due parole, quando in televisione riceve i complimenti per un goal in rovesciata lui ribadisce: “mezza rovesciata”. La strafottenza e la spavalderia di Tony Pisapia viene espressa magistralmente nel lungo monologo finale, ma bastano anche qui tre parole, che vengono ripetute varie volte nel corso del film: “mi sono svegliato tardi”, quando motiva alla figlia la sua assenza al funerale del padre.

Il film è un cult per i fan di Sorrentino, ma in generale per i cacciatori di citazioni… Non c’è frase che rimanga dimenticata, non c’è espressione che non diventi icona; l’ambientazione napoletana, inoltre, facilita l’immaginazione (per chi è della zona) nella costruzione della connessione fra i due, punto che fino alla fine lascia in bilico lo spettatore.

Insomma, iniziamo con la meritocrazia: questo è un filmone!

Il molosso

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Polso di Puma – Complotto, doppio complotto e controcomplotto

Dura la vita del complottista.

In quest’epoca malata diffidare dalla verità ufficiale diventa una virtù. Nel millennio dell’informazione non ci si può più attenere alle notizie dei quotidiani, dei telegiornali, delle radio, del web, del televideo. È tutto uno sporco gioco di interessi. Sfogli il Giornale e la Repubblica e trovi le stesse identiche notizie, seppur poste in ottica completamente opposta.

Ma qual è la verità?

Possibile che la realtà oggettiva possa scindersi in più realtà soggettive creando infiniti universi paralleli? Più leggo e più sono assalito dai dubbi. Le Torri Gemelle? Ma chi le ha fatte crollare? Bin Laden esiste davvero, o è un ologramma? Perché quegli ebrei non sono andati a lavoro l’11 settembre? Ti sembra plausibile che gli americani si bombardino da soli? Hanno dimostrato fisicamente che un aereo non può far crollare un grattacielo, eppure… Beppe Grillo? È buono o cattivo? E Casaleggio? E Travaglio? Perché questi personaggi tacciono su banche e signoraggio? De Magistris? L’ex magistrato si è dato alla politica e ha litigato furiosamente con Grillo. Allora uno dei due mente. Per forza. Obama? Il primo presidente negro come ha racimolato i soldi per una campagna elettorale di un anno e mezzo? È vero che prima faceva rap? Era nella Scull & Bones? E il Bilderberg? E Di Pietro? Da eroe di tangentopoli a federalista convinto? E i rettiliani di David Icke? E Zeitgeist?

Io credo solo al primo e fino al minuto 4.15 della sesta puntata del secondo, poi basta. Il terzo non l’ho nemmeno visto. È tutta una manovra della Siemens. All’inizio tutti sembrano aver ragione e poi sembrano trasformarsi in grandi truffatori. A volte penso che quando questi personaggi diventano troppo famosi vengono comprati per confondere le idee ai loro seguaci. Altre volte penso che sono proprio un coglione a leggere tutte queste sciocchezze. Vado in edicola pieno di pensieri, resto imbambolato davanti la vetrinetta, indeciso se prendere la Repubblica o il Giornale. A chi darò il mio euro? Chi dirà il vero? È una scelta difficile, ho bisogno di tempo. Il giornalaio mi sorride beffardo dall’alto della sua pedana… Lui sa. Nei suoi occhi brilla uno sguardo di sfida, lui mi valuta. Lui è il giudice severo della mia coscienza. Non posso deluderlo. Giornale-Repubblica, Repubblica-Giornale. Basta, ho deciso. Con un gesto risoluto, quasi teatrale, compro Topolino.

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Polso di Puma – The University Deception

Anni spesi a inseguire un obiettivo, giornate trascorse a immagazzinare con rigore metodico date, nomi e formule, pomeriggi in cui un raggio di sole che batte sul bianco della scrivania e sui caratteri della pagina invita a una diserzione che non è altro che inseguire la vita.

Tanti di noi hanno dedicato agli studi universitari una parte importante della loro giovinezza, compressi da un sistema che ci ha rubato tempo e spazio, impedendoci spesso di guadagnare in libertà e apertura di pensiero. Quante lezioni nozionistiche e ripetitive abbiamo dovuto seguire per ottenere le parole che cercavamo, quelle che contavano, dalla bocca di un professore illuminato, però quanto ci hanno regalato quelle parole!

L’Università resta (perfino l’Università italiana) una formidabile palestra, ci fa crescere come cittadini, forma il carattere, oltre che le competenze professionali, accresce la consapevolezza di sé.

In un Paese in cui la disoccupazione giovanile ha raggiunto il 30% (dati ISTAT 2011), l’età media dei laureati specialistici è di 28 anni (dati Almalaurea 2011), circa 2-3 anni in più della media degli altri paesi europei. Quegli anni in più, quel tempo sprecato, è il tempo del nozionismo, dei pomeriggi passati a ripetere ciò che dopo non servirà più, ciò che non migliora la nostra formazione (e forse neanche la nostra memoria a breve termine).

Quei 2-3 anni in più ci rendono più stanchi e più lenti dei nostri colleghi europei, ci rendono meno pronti a cogliere le (rare) opportunità che si presentano.

In un mondo del lavoro paralizzato, e schiavo di clientele e raccomandazioni, i 2 anni persi sono il primo dazio pagato… Ne seguiranno altri: la lentezza a inserirsi, il salario più basso rispetto alla media europea, la minore possibilità di cambiare impiego.

Anni fa si cercò di ovviare a questo gap tutto italiano introducendo il sistema del “3+2”, con una laurea di primo livello e una laurea di secondo, in grado – almeno in teoria – di creare i presupposti per abbreviare il percorso formativo e inserire più velocemente i giovani nel sistema produttivo del Paese.

Cosa resta oggi di quel progetto?

Giovani che terminano il primo ciclo universitario a 23-24 anni, con lauree dai nomi spesso fantasiosi e dalla spendibilità lavorativa il più delle volte nulla. La parcellizzazione degli insegnamenti ha alimentato l’ego ipertrofico di rettori e professori, frantumando di fatto la struttura dei corsi universitari. Non ci è stata risparmiata una sola briciola di nozionismo (semplicemente suddiviso tra i due livelli), non è stato stimolato il pensiero logico, non è stata incentivata realmente la formazione sul campo, è solo cresciuto in modo irrazionale il numero degli esami da affrontare.

In una situazione così complessa si inseriscono le risposte della Politica: un ministro del Welfare che alcuni mesi fa dichiara che i giovani devono essere più umili e accettare qualsiasi tipo di lavoro per far fronte alla crisi. Parole pleonastiche, dato che da anni molti giovani si sobbarcano fatiche che non hanno niente in comune con ciò che hanno studiato per anni.

Chi è pronto, in politica, ad assumersi la responsabilità di una riforma (quella del 3+2) che ha compromesso il destino lavorativo di molti studenti?

Chi è pronto, nei vertici del mondo universitario, ad assumersi le responsabilità di aver spacciato agli studenti prospettive di lavoro fasulle ben nascoste dietro corsi di laurea dai nomi altisonanti?

Chi è pronto, tra ricercatori e professori, a diventare consapevole del grandissimo potenziale umano e sociale del proprio ruolo, rimettendo al centro lo studente e la sua formazione?

E noi… Noi saremo pronti, quando verrà il nostro turno di operare nelle stanze dei bottoni, a non dimenticare ciò a cui pensavamo nei lunghi pomeriggi da reclusi, illuminati dal sole primaverile, e ciò per cui ci battevamo quando affollavamo le aule della nostra amata/odiata Università?

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The University Deception

Anni spesi a inseguire un obiettivo, giornate trascorse a immagazzinare con rigore metodico date, nomi e formule, pomeriggi in cui un raggio di sole che batte sul bianco della scrivania e sui caratteri della pagina invita a una diserzione che non è altro che inseguire la vita.

Tanti di noi hanno dedicato agli studi universitari una parte importante della loro giovinezza, compressi da un sistema che ci ha rubato tempo e spazio, impedendoci spesso di guadagnare in libertà e apertura di pensiero. Quante lezioni nozionistiche e ripetitive abbiamo dovuto seguire per ottenere le parole che cercavamo, quelle che contavano, dalla bocca di un professore illuminato, però quanto ci hanno regalato quelle parole!

L’Università resta (perfino l’Università italiana) una formidabile palestra, ci fa crescere come cittadini, forma il carattere, oltre che le competenze professionali, accresce la consapevolezza di sé.

In un Paese in cui la disoccupazione giovanile ha raggiunto il 30% (dati ISTAT 2011), l’età media dei laureati specialistici è di 28 anni (dati Almalaurea 2011), circa 2-3 anni in più della media degli altri paesi europei. Quegli anni in più, quel tempo sprecato, è il tempo del nozionismo, dei pomeriggi passati a ripetere ciò che dopo non servirà più, ciò che non migliora la nostra formazione (e forse neanche la nostra memoria a breve termine).

Quei 2-3 anni in più ci rendono più stanchi e più lenti dei nostri colleghi europei, ci rendono meno pronti a cogliere le (rare) opportunità che si presentano.

In un mondo del lavoro paralizzato, e schiavo di clientele e raccomandazioni, i 2 anni persi sono il primo dazio pagato… dopo ne seguiranno altri, la lentezza a inserirsi, il salario più basso rispetto alla media europea, la minore possibilità di cambiare impiego.

Anni fa si cercò di ovviare a questo gap tutto italiano introducendo il sistema del “3+2”, con una laurea di primo livello e una laurea di secondo, in grado, almeno in teoria, di creare i presupposti per abbreviare il percorso formativo e inserire più velocemente i giovani nel sistema produttivo del Paese.

Cosa resta oggi di quel progetto?

Giovani che terminano il primo ciclo universitario a 23-24 anni, con lauree dai nomi spesso fantasiosi e dalla spendibilità lavorativa il più delle volte nulla. La parcellizzazione degli insegnamenti ha alimentato l’ego ipertrofico di rettori e professori, frantumando di fatto la struttura dei corsi universitari. Non ci è stata risparmiata una sola briciola di nozionismo (semplicemente suddiviso tra i due livelli), non è stato stimolato il pensiero logico, non è stata incentivata realmente la formazione sul campo, è solo cresciuto in modo irrazionale il numero degli esami da affrontare.

In una situazione così complessa si inseriscono le risposte della Politica: un ministro del Welfare che alcuni mesi fa dichiara che i giovani devono essere più umili e accettare qualsiasi tipo di lavoro per far fronte alla crisi. Parole pleonastiche, dato che da anni molti giovani si sobbarcano fatiche che non hanno niente in comune con ciò che hanno studiato per anni.

Chi è pronto, in Politica, ad assumersi la responsabilità di una riforma (quella del 3+2) che ha compromesso il destino lavorativo di molti studenti?

Chi è pronto, nei vertici del mondo universitario, ad assumersi le responsabilità di aver spacciato agli studenti prospettive di lavoro fasulle ben nascoste dietro corsi di laurea dai nomi altisonanti?

Chi è pronto, tra ricercatori e professori, a diventare consapevole del grandissimo potenziale umano e sociale del proprio ruolo, rimettendo al centro lo studente e la sua formazione?

E noi… noi saremo pronti, quando verrà il nostro turno di operare nelle stanze dei bottoni, a non dimenticare ciò a cui pensavamo nei lunghi pomeriggi da reclusi, illuminati dal sole primaverile, e ciò per cui ci battevamo quando affollavamo le aule della nostra amata-odiata Università?