(pre)Cari Amici #5 – La Società da costruire

[stextbox id=”custom” big=”true”]Torniamo a parlare di precariato e lo facciamo presentandovi Daniele Mariani, autore del libro “L’elogio dell’indignazione“. La redazione di Camminando Scalzi ha proposto a Daniele di riadattare per la blogzine l’ultimo capitolo del libro; il post va così ad arricchire la rubrica (pre)Cari Amici, che raccoglie le storie di precariato inviateci da voi lettori.

A questo link trovate le altre storie pubblicate negli scorsi mesi su Camminando Scalzi.[/stextbox]

Cosa faccio, diciamo, non è una novità rispetto al panorama giovanile attuale. Chi sono, posso rispondere con un più semplice “cosa pensavo che sarei potuto essere”: ho quasi trent’anni e ho sempre immaginato questo capitolo della mia vita come un momento dove chiudevo serenamente il mio periodo giovanile, o per meglio dire il tempo delle “cazzate” e mi incamminavo verso l’era delle scelte (tutto questo ovviamente se paragonato alla vita dei miei genitori), e invece paradossalmente sembra che le uniche scelte di senso fatte fino a oggi, anche se inconsapevoli, le abbia vissute nel periodo compreso tra l’infanzia e la fine dell’università, dove appunto c’era qualcun altro a scegliere per me. Non perché ora non sappia scegliere, né perché non abbia preso decisioni, ma semplicemente perché qualsivoglia scelta sia stata intrapresa non era, per usare lessico da risorse umane,  “corrispondente al profilo richiesto”.  Molte domande hanno affollato la mia testa sul come andare avanti, su cosa inventarmi, se valeva la pena perseguire la stessa strada o cambiare completamente per ricominciare da capo… per quanto però mi impegnavo a cercare una risposta, una soluzione, sentivo che il problema non era prevalentemente rispetto a ciò che avrei potuto avere, trovare o cercare, bensì rispetto a chi sono; perché sentivo che il lavoro non era la soluzione. Allora ho smesso di guardare in avanti (un po’ per non alimentare false speranze, un po’ per imparare a godermi il presente, un po’ per non rinunciare al piacere delle sorprese) e ho cominciato a guardarmi intorno: vedevo tanti “me”, non nell’accezione di un ego smisurato, bensì nella comunione di intenti, esperienze e sensazioni. Così, come un viaggio a ritroso, ho iniziato a guardarmi dentro, e allora ho trovato le cause di questo mio peregrinare senza meta tra me e il mondo: “Siamo definiti una generazione fortunata perché non abbiamo vissuto la guerra, perché non soffriamo la fame e conduciamo vite agiate; la guerra però l’abbiamo avuta dentro le nostre famiglie, ci sono giovani che soffrono di bulimia o anoressia, mentre il comfort ci ha reso schiavi della noia. Siamo stati educati dalla televisione, cresciuti a “pane e lieto fine”; i sogni però non sono stati rifugio sufficiente dalla problematicità e la realtà non ha offerto un’alternativa concreta alla fantasia. Ci hanno insegnato il rispetto, facendoci innamorare della bellezza del Creato e delle genti; però sottostiamo tutti a regole economiche che non solo hanno inquinato il mondo, ma i cuori, seminando odio da oriente a occidente. Ci hanno fatto credere che la società si divide in vincenti e perdenti, che si può essere di successo anche senza saper fare niente, e di essere alternativi sempre e comunque; nessuno però ci ha detto che i veri eroi non sono perfetti come nei media, ma sono quelli che faticano quotidianamente, cadono e si rialzano… e magari muoiono lavorando.

Pensavo che modernità significasse anche tutela degli indifesi; qui anziani e bambini sono lasciati a loro stessi; da altre parti ci sono bambini che “giocano” a fare il soldato in sporche guerre, altrove sono diventati essi stessi giocattoli per adulti. Pensavo che pari opportunità significasse una società con ruoli che prescindessero dal genere; alcune donne invece hanno dovuto rinnegare la propria femminilità per stare al passo del “branco”, mentre altre hanno dovuto sbattere in vetrina solamente la propria femminilità; al resto non è stata data altrettanta visibilità.

Ci hanno detto «Studia», così noi giovani abbiamo collezionato tanti “pezzi di carta”; poi ci hanno “parcheggiati” in tirocini sottopagati, regredendo a fare manovalanza da ufficio; infine ci richiedono esperienze lavorative qualificanti ma non ci hanno dato la possibilità di qualificarci. Volevo essere giornalista ma non basta per sopravvivere; credere nell’amore ma oggi tutto dura quanto un’emozione; vivere secondo valori ma sembra che ora i valori siano mossi solo dall’interesse. Il vero precariato è stata la condizione esistenziale di contraddittorietà che abbiamo vissuto e con cui siamo cresciuti, non la misera ricerca del lavoro. Non domandateci più che tipo di lavoro sogniamo, non ricordateci il lavoro che cerchiamo e non troviamo, non fateci lavorare ancora di fantasia per inventarci un lavoro. Chiedeteci solo che società vorremmo costruire”.

Daniele Mariani

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(pre)Cari Amici #4 – Ricercatori alla corte di sua Maestà

 

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Alessandro Fregoso, che sta sostenendo un dottorato di ricerca in fisica, ha intervistato due nostri conterranei che stanno facendo i ricercatori in Inghilterra. Un interessante spaccato della vita dei cosiddetti “cervelli in fuga” è il protagonista di questa quarta puntata di (pre)Cari Amici. Raccontateci la vostra storia, e noi la pubblicheremo. Farlo è semplicissimo, basta cliccare su “Contattaci” o sul banner qua di lato.

La Redazione di Camminando Scalzi.

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Un tavolino, un caffè, magari un muffin (che in Gran Bretagna ‘o sanno fa) ed è pronta un’ottima scusa per chiaccherare un po’, specialmente se si tratta di prendersi una pausa dai fogli, dallo schermo, dai conti, dai grafici, insomma dall’odi et amo quotidiano. Essendo quindi ben consapevole che non avrebbero potuto resistere a una proposta così allettante, sono riuscito a incontrarmi con la dott.ssa Stefania Maccalli e il dott. ing. Ruggero Poletto, due dottorandi presso la University of Manchester, in Inghilterra, e a porre loro qualche domanda sulla loro esperienza nel variopinto calderone della ricerca scientifica.

Chiariamoci subito: voi non siete veri dottori, giusto?

Facce basite, mezzi sorrisi, un silenzio imbarazzato che grida, letteralmente, “ma che sta addì”. Urge precisazione.

Nelle conversazione più normali, “dottore” è quasi sempre sinonimo di “medico” e so, per esperienza personale e non, che può capitare di avere l’impressione che il proprio titolo di studio non venga considerato come ci si aspetterebbe perché non corrisponde a una professione tradizionalmente “rispettabile”. Avete anche voi qualche esperienza a riguardo?

Stefania: Una volta, parlando con una persona appena conosciuta, ci si diceva cosa si fa nella vita, e io raccontai che ero laureata in fisica. Al che mi fu ribattuto “ah sì, avrei proprio un po’ di pancetta da buttar giù, non è che potresti consigliarmi cosa fare in palestra?”. È vero, il nome è simile, ma l’educazione fisica è decisamente un altro ambito della conoscenza…

Ruggero: In realtà il titolo di ingegnere rientrerebbe anche tra quelli “rispettabili”, ma appena m’hanno dato in mano la laurea mi hanno detto: “tu sei dottore in ingegneria ma non sei ancora ingegnere perché ti manca l’esame di stato”, per cui mi sento sempre come qualcuno a cui manca qualcosa per essere qualcos’altro.

Raccontatemi un po’ della vostra formazione.

R.: Ho fatto il liceo scientifico in una piccola scuola di paese dove ci conosciamo tutti, poi sono andato a Padova a fare la laurea triennale e specialistica in ingegneria aerospaziale, dopodiché ho provato a trovare un’occupazione in Italia, non ho trovato niente che mi piacesse in maniera sostanziale, e soprattutto che mi permettesse di mettere in pratica quel che avevo imparato, per non parlare dell’aspetto economico, il più delle volte in uno stato desolante. Allora ho preso armi e bagagli, e ho deciso di approfondire i miei studi con un dottorato, e ho trovato il più adatto a me qui in Inghilterra.

S.: Alle elementari ho avuto la maestra unica, una seconda mamma che è stata capace di insegnarmi a ragionare, a imparare. Poi il periodo buio delle medie, il liceo scientifico con indirizzo informatico, che però non m’ha dato niente di diverso da un normale liceo; Università Cattolica di Brescia per tre anni a studiare fisica, spesso in corsi con più professori che studenti, quindi seguiti molto da vicino, fantastico. Tentativo di laurea specialistica fallito per varie incompatibilità di piano di studi, dopodiché sono venuta a sapere da amici di amici di amici che qua si poteva fare il dottorato anche solo con la laurea triennale e ho fatto subito le valigie.

Albert Einstein sosteneva che ogni scienziato dovrebbe essere in grado di spiegare di cosa si occupa alla propria nonna. Di cosa vi occupate, cari nipotini?

R.: Per risolvere problemi come ad esempio progettare un’ala o studiare il rumore prodotto da una turbina, spesso si usano simulazioni al computer. Per farle ci sono principalmente due metodi: uno veloce ma molto approssimativo e uno lento ma più accurato. Io sto cercando di creare un sistema ibrido che riesca a mettere insieme i vantaggi degli altri due.

S.: Mi occupo di ottica, cioè di ciò che riguarda la luce (e non di occhiali!). Recentemente sono state scoperte nuove proprietà dei fotoni, che sono le particelle di cui è fatta la luce, ed è possibile sfruttarle per capire di più delle stelle da cui la luce arriva fin qua. Io sto pensando agli strumenti che ci permetteranno di ottenere queste informazioni.

Scegliere di fare ricerca scientifica non vuol dire mai intraprendere una strada comoda, in nessun periodo storico. Come mai avete preso questa direzione?

S.: La botta in testa vocazionale risale al periodo delle elementari, appena ho potuto cominciare a leggere i libri di Asimov di mio papà. Dalla fantascienza è nato poi l’amore per l’astrofisica, che dura tutt’ora.

R.: Ci sono tante ragioni, ma credo che la più importante sia quella che dovrebbe esser valida per ogni scelta, e cioè la passione per quello che si sta facendo. Non sono mai stato attratto dall’idea dell’ingegnere che gestisce l’azienda, che fa il manager; mi interessano molto di più le sfide che si affrontano nella progettazione e nella ricerca.

Il caffè che non è ancora stato bevuto si sta raffreddando, il sole ormai basso fa capolino tra gli alberi immergendo il locale in un tepore che sa già di ritorno a casa per cena. È il momento ideale per una marzullata.

Scienziati si nasce o si diventa?

S.: Direi che si nasce, perlomeno in certi casi eclatanti. Ma se incontri le persone giuste, puoi anche imparare ad apprezzare l’ambiente e ad appassionartene col tempo. Ci sono persone che si innamorano con un colpo di fulmine, e altre che ci mettono di più a rendersene conto.

R.: Probabilmente nasci con la passione, poi sta a te far diventare questa passione una scelta di vita. È come il calcio, nasci con la dote giusta, ma se non ti alleni è inutile, non diventerai mai un calciatore.

Cosa vuol dire per te fare scienza, qui e ora?

S.: Per me innanzitutto è vivere un sogno che non speravo più di riuscire a realizzare. Poi è qualcosa che è soltanto per la conoscenza, la soddisfazione di aggiungerci il proprio pezzettino, anche se non dovesse comportare gratificazioni né sociali né economiche. Il bello è anche potersi confrontare con tante altre persone da tutto il mondo che condividono i tuoi stessi metodi e le tue stesse motivazioni.

R.: A me pare che la storia sia stata fatta e sia fatta tutt’ora da dei piccoli esserini come te e me, che cercano di risolvere i loro problemi, piccoli o grandi che siano. C’era il problema del trasporto, e qualcuno s’è detto “bè, quasi quasi mi invento la ruota”, e questo è fare scienza: cercare di risolvere i nostri piccoli problemi e migliorarci un po’ la vita.

Uno dei padri della fisica moderna, Niels Bohr, asseriva che fare previsioni è molto difficile, specialmente del futuro. Ciononostante, vi chiedo di provare a dare un’occhiata nei prossimi anni: quali sono le vostre speranze e che cosa vi aspettate?

R.: Innanzitutto spero di finire il dottorato in tempo, e dopo mi piacerebbe tornare in Italia ad applicare quello che ho imparato. Il resto lo scopriremo solo vivendo, d’altronde se m’avessi fatto la stessa domanda qualche anno fa, mai t’avrei detto che mi sarei ritrovato a Manchester, men che meno a farmi fare un’intervista!

S.: Come primo obbiettivo, finire il dottorato, mettere la mia bandierina sulla cima della montagna, magari nel frattempo avendo realizzato qualcosa di utile anche per altra ricerca. Se poi potessi continuare a far ricerca, non importa dove, sarebbe il massimo. E anche farsi una famiglia…

Chiudiamo in bellezza: un consiglio per chi sta muovendo i primi passi verso una vita dedicata alla scienza.

R.: Lasciate perdere, ho già abbastanza concorrenza!

S.: Fatevi curare!

 

Che dite, questi scienziati ci stanno già diventando troppo british? Tanti saluti ai continentali!

 

(pre)Cari Amici #3 – 110 e lode: Italia, il paese della meritocrazia

[stextbox id=”custom” big=”true”]Oggi il vostro contributo per (pre)Cari Amici è redatto da Betty Bradshaw, che ci racconta le difficoltà di cui è irto il percorso della carriera medica. Impegno, studio, magari il massimo dei voti, ma la più grossa difficoltà è scontrarsi con la casta e il sistema dell’antimeritocrazia. Raccontateci anche la vostra storia, vi aspettiamo.

La redazione di Camminando Scalzi[/stextbox]

Questa storia delle prodigiose “signorine 110 e lode” non mi va proprio giù.

Resta sul gozzo come un boccone amaro e indigesto. Italo Bocchino, in vari talk show, ripete le cifre da capogiro che questa “sorprendente” igienista dentale andrà ad accumulare nei suoi conti in banca per meriti tutti da verificare, a fronte di giovani militanti che, pur prodigandosi per la causa sin dalla culla, vengono surclassati da persone come la Minetti. Gli si contrappongono Berlusconi (e, in secundis, Formigoni) che sostiene l’avvenente consigliera regionale, la cui strabiliante carriera accademica prova che questa ragazza prodigio merita di stare dov’è.

Ecco, mi voglio soffermare su quel “merita”.

Se c’è un verbo che nel nostro paese decadente non dovrebbe più essere utilizzato è proprio “meritare”. Per rispetto verso chi, sull’inconsistenza del merito, si è logorato anima e corpo. Prendo ad esempio la classe medica, perché, volente o nolente, ne faccio parte. In particolare coloro che hanno avuto la triste idea (in modo del tutto presuntuoso!) di tuffarsi nella piscina (vuota) della ricerca scientifica italiana. Immaginiamo un giovane neo-maturato che passi l’estate a studiare (invece che partire per un’isola della Grecia) per superare il devastante barrage del numero chiuso. Immaginiamo che, solo tre giorni prima della prova, venga a sapere che il 70% delle domande verteranno su “cultura generale”. Immaginiamo dunque le bestemmie che naturalmente avrà proferito mentre gettava benzina sui libri di chimica, fisica, biologia…

Il giovane passa l’esame alla grande: gioia, tripudio… Sino al discorso d’ingresso (attenzione: NON di benvenuto) alle matricole. In un’aula spettrale vengono radunati giovani tremanti di felicità e di paura; dietro un ligneo altare su scranni fastosi… La casta! Figure in penombra dalle fattezze di cariatidi provvedono immediatamente a puntare estintori contro l’entusiasmo. Parlano in percentuale: il 30% dei presenti verrà ELIMINATO al primo semestre, un altro 30% entro il primo anno, del restante 40% qualcuno si laureerà, ma sicuramente non passerà l’esame per entrare in specializzazione… Ma cos’è, un lager? L’isola dei famosi? X-factor?

Ragazzi, stanno investendo sei, ben sei anni delle loro vite! Non sono mica qui a pettinare bambole! Una piccola pacca sulla spalla no?!

I sei anni scorrono lentamente, penosamente, faticosamente, tra professoroni bastardi, medici che non hanno voglia di insegnare in corsia, leccapiedi che cominciano a spiccare sin dal terzo anno nella penombra generale di giovani stanchi e delusi. Arriva la laurea, dopo insulti, offese, tentativi di manomissione psicologica… Evviva! Centodieci e lode! Poi l’abilitazione e quindi… L’esame per la specializzazione. La tomba di tutti i neo-laureati non paraculati. Ma immaginiamo che quel giovane, rimboccandosi le maniche (anche se molti non hanno dovuto rimboccare esattamente quelle), ce la faccia. Evviva!

Cinque anni di specializzazione: i più brutti della sua vita. Baroni, portaborse, malcostume, progetti rubati, telefonini che squillano nel cuore della notte per chiedere dov’è il lavoro X, guardie non assistite e non assicurate, promozioni di carriera del tutto ingiustificate, viaggi all’estero convertiti ad altri con il proprio progetto di ricerca, corse in aeroporto per “accompagnare” il capo a un congresso oltreoceano. All’inizio il giovane cerca di ribellarsi, di trovare una coesione di classe: ma i più tacciono – peggio – osteggiano. Il caldo della sedia che hanno sotto il sedere gli basta. Queste sono le regole, questo è il SISTEMA, è tutto normale. Se c’è qualcosa di anormale, è chi pensa che le cose possano andare diversamente. È cosa buona e giusta stare sotto il tavolo, leccare i piedi, prendere calci e mangiare briciole, puntando a un posto a tavola. Questo è il vero merito.

Finisce la specializzazione, a pieni voti! Evviva… E adesso?

Il giovane vede coetanei consenzienti e mediocri sfrecciare sull’onda del Professor Antani, avere il dottorato di ricerca grazie all’illustre Cavalier Lup-Man, partecipare a concorsi il cui bando, nella gazzetta ufficiale, l’avevano visto solo quelli del team dell’Ingegner Tapioca. Ma il giovane (che ormai è vecchio) continua a viaggiare sull’autostrada dell’Antimeritocrazia, tra progetti di ricerca e contratti a tempo determinatissimo, su una Panda comprata con summa cum laude in contanti e assegni di olio di gomito, vedendo sfrecciare automobili di lusso, SUV grandi come mammut, ferrarini superpotenti.

Onore al merito… Soprattutto a chi non ne ha.

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(pre)Cari Amici #2 – L'artigiano elettricista

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La seconda puntata di (pre)Cari Amici è scritta da Giorgio Masala, elettricista artigiano, che affronta tutti i giorni le difficoltà dell’attività in proprio. Da questo lo spunto su quelle che secondo lui dovrebbero essere le modifiche importanti nel mondo del lavoro, in un sistema capitalistico basato sul debito che sta portando tutti verso il precariato e la povertà.

Non dimenticate di raccontarci anche la vostra storia di precariato; basta cliccare sul banner qui a lato ed inviarci il vostro racconto.

La Redazione di Camminando Scalzi

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Io sono un artigiano elettricista precario e pago le tasse. Ogni giorno devo avere la fortuna di trovare qualcuno che mi chiami a lavorare, perdo ore e ore a fare preventivi e gestire la contabilità, e molte volte vedo dire no ai preventivi, perché il mercato è saturo di precari che non pagano le tasse che fanno lavori al posto mio. Questo non per dire che è colpa solo di chi non paga le tasse se l’economia sta andando male; sarebbe giusto che tutti le pagassero, in un sistema equo, dove il governo che ci comanda economicamente non si appropri del 90 % e sia leale (come quello europeo, anche perché possiamo stracciarla la Costituzione italiana dopo il Trattato di Lisbona e l’incarico di stampare la moneta dato alla banca centrale Bankitalia, che è una banca privata dove la moneta è privata e della BCE).

Ormai da tempo anche guardando vecchi programmi TV trapela la realtà a cui stavamo andando incontro: entrare nella comunità Europea è una truffa. D’accordo con l’amore mondiale tra i popoli, ma non con le economie detenute da pochi. Sei banche centrali nel pianeta gestiscono l’emissione di moneta, e vedrete che saranno ridotte ancora, per incentrare il potere in mano di pochi. Mi fanno ridere le frasi “il lavoro rende liberi” oppure “la costituzione italiana è fondata sul lavoro”… Aumenta sempre di più la mentalità capitalistica della difesa dei diritti del lavoratore non perché uomo, ma perché macchina lavoratrice. Io cambierei questi slogan in “Il lavoro serve a pagare i debiti e rende libero dai debiti, ma devi lavorare di più”.

La gente lotta tanto per avere un lavoro, ma non per quella esigenza che dovrebbe essere la creatività, la passione, la crescita personale, ma perché carico di debiti. In Italia abbiamo un debito pubblico del 120%, che non risaneremo mai. Debito pubblico che quasi non dovrebbe esistere, se lo stato stampasse moneta e la bilanciasse tra deflazione e inflazione. Senza contare che la moneta gira intorno ai prestiti, che ti dicono sono fissi, ma che poi in realtà non lo sono mai, dato che dipendono dal debito statale della banca centrale, dove addirittura quella moneta è già diventata “virtuale”.

Essendo oggi le fabbriche quasi totalmente meccanizzate, non serve più tutta la manodopera che serviva una volta, quindi per risolvere il problema basterebbe far lavorare un po’ tutti, per meno ore, lasciando il resto della giornata per vivere la vita e permettere di fare qualcosa di creativo. Invece le ore di lavoro continuano ad aumentare, e la mamma o il papà  non restano più a casa con i propri i figli. La domanda è: perché dobbiamo lavorare cosi tanto? Badate bene che non si tratta di una frase da parassita. Vedo su youtube filmati che eleggono a Eroe l’operaio che lavora dodice ore al giorno per sfamare i propri figli… Ahimé, non è affatto così. Non è bello lavorare e lavorare e lavorare ancora e neanche così riuscire a pagare l’affitto, la corrente, il cibo, le tasse… Quell’operaio è uno schiavo, e come lui tutti noi, se non riusciamo a trovare le giuste informazioni per fare scelte nella nostra vita. Quell’operaio continua imperterrito a prendersela con il suo datore di lavoro, il quale se la prende con l’operaio, senza capire che entrambi sono sulla stessa barca.

Ma basta osservare gli immigrati cinesi nelle nostre città per capire su cosa si sta spostando l’economia. Ditemi se quello è vivere, rinchiusi in un gretto circolo di lavoro privo di emozione e libertà mentale. Grazie Capitalismo! Il Capitalismo è un sistema meraviglioso! Ok, qualche miliardo di persone non ha niente, però pensate a tutta la gente che ha tanto! Non preoccupatevi se i cinesi lavorano per 50 centesimi al giorno, sono cinesi… Chi se ne frega, sono un miliardo! E intanto nel terzo mondo non mangiano, e ancora si muore per diarrea. Lo so che c’è gente disperata che ha perso il lavoro, e che ha figli e debiti fino al collo, qua in italia, ma a quanti possiamo trovare un lavoro e risolvere questo problema se non cambia radicalmente l’economia, e se non si punta ai piani alti invece che al pettegolezzo televisivo dell’operaio che ripete continuamente le solite frasi. Prendiamocela con la vera causa.

Smettiamo di girare attorno a un circolo vizioso come formiche, e questo vale anche per gli altri paesi… Guardiamo il percorso che ha fatto l’America per esempio. Uno: istituzione della banca privata centrale; Due: aumento del debito pubblico; Tre: privatizzazione di tutti i servizi per ovviare al debito pubblico; Quattro: chi ha soldi vive, chi no si arrangia; e chi vive,vive lavorando, schiavo e disinformato. Era un appunto per dire: lottate per la vita, e non per il lavoro. Non pretendete troppi beni dal vostro lavoro: le cose ti posseggono e poi, più ne hai e più dovrai lavorare per mantenerle. Specializzatevi ma non troppo, siate elastici: i tempi cambiano e i lavori finiscono e potreste essere licenziati e dover cambiare mansione! O cambiamo radicalmente o rincorreremo battaglie e lamentele perse, che sono ricorrenti nella storia, e questa volta se cadiamo sarà difficile rialzarci.

(pre)Cari Amici #1 – La mamma architetto

[stextbox id=”custom” big=”true”] Vi presentiamo oggi la nostra nuova rubrica, (pre)Cari Amici, che si occuperà di tutte le diverse forme di precariato che ci sono nella attuale società italiana. È un nuovo esperimento per Camminando Scalzi che richiede la vostra partecipazione, la vostra voce diretta. Vogliamo dare parola a tutte quelle persone che si trovano in una condizione di precariato (non per forza soltanto lavorativa), che sono costrette a combattere ogni giorno contro l’indistruttibile muro dell’incertezza del proprio futuro e dell’impossibilità di poter fare progetti a lungo termine nella propria vita. Questa rubrica nasce proprio per dare la voce al comune cittadino ogni giorno costretto a combattere per le cose che gli spetterebbero di diritto, un cittadino che vive lontano da una realtà politica arroccata nelle sue cattedrali d’ebano, lontane, lontanissime dalla realtà quotidiana. E noi riteniamo che sia importante farvi raccontare le vostre storie, sfogarvi, denunciare quello che non funziona nella nostra società. La nostra prima storia è quella di Daniela Scarpa, che ci racconta cosa significa essere contemporaneamente madre e aspirare a voler fare il proprio lavoro, quello dell’architetto. Vi auguriamo buona lettura, e vi invitamo a raccontarci la vostra storia, contattandoci cliccando sul riquadro qui a lato.

La redazione di Camminando Scalzi[/stextbox]

Sono un architetto e sono una mamma.

Lotto per poter rendere reale questa affermazione senza trovarmi costretta a precisare la triste e raccapricciante verità: ero un architetto appassionato e brillante e la mia scelta di diventare mamma mi costringe da ormai undici mesi a una pausa professionale. Dico pausa per non dire brusca fermata a tempo indeterminato, parole che meglio descrivono la mia reale situazione, ma che non amo pronunciare perché rimango un’inguaribile ottimista.

Ma cominciamo dal principio della mia storia, un racconto che potrebbe essere quello di ogni giovane donna che, come me, si affaccia armata di buoni propositi, tanti sogni e mille speranze al complicato mondo del lavoro nel nostro Paese. Vorrei poter dire di essere una precaria ma, purtroppo, non mi spetta neanche questo tanto discusso titolo. Si cerca di fare qualcosa per sanare la ferita del precariato in Italia dimenticandosi che c’è chi sta anche peggio.

Sono una libera professionista e scriverlo mi provoca ogni volta un misto di ilarità e disperazione. I giovani architetti italiani, quelli fortunati che come me hanno trovato il modo di impegnarsi in qualcosa il più possibile simile a un lavoro, spesso collaborano con studi professionali avviati, per accumulare esperienza, per seguire lavori interessanti e soprattutto per assicurarsi un fisso mensile che, anche se minimo, è senza dubbio fondamentale in un mondo che offre poche opportunità persino a chi è sul mercato da decenni. Nell’attesa di avviare la tanto bramata libera professione, la maggioranza degli architetti finisce a fare nient’altro che il dipendente per un altro architetto, sopportandone gli umori e le pretese, senza la neppur minima garanzia sociale tipica di tutti i lavori dipendenti, a tempo indeterminato o precari che siano. Quello che si instaura nel nostro campo è una collaborazione tra professionisti in possesso di partita iva; questo tipo di rapporto in genere prevede una fattura mensile di quota fissa che il professionista titolare dello studio rilascia al collaboratore esterno selezionato, in cambio del suo impegno a portare avanti uno o più progetti, senza vincoli di presenza in studio o orari fissi.

Detta così non sembrerebbe neanche poi così male. Ma soffermandosi un attimo salta agli occhi la paradossale situazione di chi, come ho fatto io per circa sette anni, trascorre le sue giornate (e nottate…) chiuso in uno studio non suo senza avere la possibilità di dedicarsi a nient’altro, guadagnando un fisso minimo che dovrebbe essere completato da introiti ottenuti da lavori personali, lavori che nella realtà non possono essere cercati né portati avanti per mancanza di tempo. Siamo di fronte a un tipo di collaborazione flessibile sulla carta, ma che nella realtà si tramuta in una sorta di schiavitù legalizzata perché scelta liberamente dal professionista che offre la sua collaborazione, se di scelta si può parlare. Sì perché l’alternativa all’accettare queste assurde condizioni è non lavorare presso gli studi di architettura, e dunque non lavorare. Neanche a dirlo, in questi rapporti professionali, anche se protratti negli anni,  non esiste alcun tipo contratto o accordo scritto. Niente trattamento di fine rapporto, niente malattia o ferie pagate, nessun tipo di assistenza. Una giungla selvaggia dove chi è più forte riesce a malapena a sopravvivere.

Come potete immaginare la situazione si complica quando una donna, a trent’anni suonati, decide che è giunta l’ora di diventare mamma; una scelta consapevole che fino a vent’anni fa era legittima e quasi scontata, ma che al giorno d’oggi è considerata pura follia. Per una giovane architetto diventare mamma significa, nella maggioranza dei casi, perdere il lavoro. Una mamma non può dedicarsi completamente alla finta collaborazione esterna e flessibile proposta dagli studi di architettura perché, nella realtà, ciò che si richiede è un impegno e una dedizione totale, ovviamente non compatibile con gli impegni di una donna che deve occuparsi dei propri figli. Diventare mamma significa smettere di guadagnare da un giorno all’altro, interrompere ogni attività professionale e ottenere, se si è fortunate, la famosa pacca sulla spalla con tanti auguri per la nuova vita. Diventare mamma significa ignorare a che cosa si va incontro, non sapere se mai qualcuno avrà di nuovo voglia di offrirti un lavoro, vivere senza avere la minima idea di che direzione prenderà la propria vita professionale; significa vivere nell’incertezza totale e accettare di essere mantenuta (scusate la bassezza del termine ma è quello che più si avvicina alla realtà delle cose) per un tempo non definito dal marito o dal compagno di turno, con l’aiuto aggiuntivo dei propri genitori felici e grati del nuovo ruolo di nonni. D’improvviso ci si sente incapaci di badare a sé stesse e al figlio in arrivo, pervase da un senso di impotenza e di delusione. Certo, dimenticavo, voi mi direte che ci sono i premi di maternità degli enti previdenziali. Avete ragione: grazie ai 4000€ lordi ricevuti dalla Cassa degli Architetti e degli Ingegneri, vivrò felice e contenta fino al compimento dei diciotto anni di mio figlio. Con una retta di circa duemila euro all’anno (che ovviamente continuo a pagare) la somma ricevuta è davvero generosa e utile.

Insomma una donna che ha lavorato con impegno e passione per tanti anni, che in molti casi ha acceso un mutuo per l’acquisto di una casa, che altre volte ha un affitto da pagare, che in ogni caso aveva una sua vita portata avanti grazie a un lavoro impegnativo e totalizzante quale è fare l’architetto, d’improvviso si ritrova senza la possibilità di sopravvivere se non accettando generosi aiuti esterni . Con l’umiliazione e la frustrazione annesse. In più la cosa peggiore è la triste scoperta che, nel nostro campo, a quegli studi così bravi a spremerti e a usarti quando sei giovane e senza pensieri, il lavoro di una mamma che ha la sola esigenza di una reale flessibilità e di orari semplicemente umani non interessa più.

Mio figlio ha undici mesi e a oggi, nonostante l’impegno quotidiano nella ricerca di un lavoro che possa sposarsi con l’essere mamma, sono a casa senza far nulla. Nessuna possibilità di collaborazioni part time. Nessuna offerta di collaborazioni interne o esterne che siano. Nessuna proposta e nessun contatto. Niente di niente.

Solo il rimpianto di non essere riuscita prima ad avviare un qualcosa che assomigliasse a una libera professione, di non esserci riuscita per l’impegno dedicato a quelle stesse persone che oggi rifiutano il mio lavoro.

Solo  tanta rabbia. La rabbia di chi ha impiegato la sua vita per cercare di costruire qualcosa di bello ed è costretto a fermarsi, a riporre tutto in un cassetto e a sperare – perché la speranza è l’unica cosa che rimane – di riaprirlo un giorno.

In un Paese che non fa altro che parlare di festini e droga, giovani donne e vecchi malati, mi chiedo se non sia ora di dedicarsi alle cose serie, tipo provare a regalare la serenità alle giovani famiglie che stanno cercando con tutte le loro forze di costruire il proprio futuro.

Daniela Scarpa