Ripercorrendo i cieli di Rino: Mio fratello è figlio unico.

Il secondo album di Rino, datato 1976, ebbe un successo assai superiore al primo, “Ingresso Libero” a sottolineare come con questo lavoro il cantautore iniziò a raccogliere i frutti della sua strepitosa capacità artistica e creativa.

La prima canzone del grande successo è anche quella che dà il titolo al secondo album del cantautore: ”Mio fratello è figlio unico”. Sembrerebbe, e l’ascolto sembra confermarcelo, una canzone nata da una riflessione sul concetto hobbesiano “Homo homini lupus“, a voler ribadire con forza l’egoismo spasmodico dilagante nella società che conduce all’isolamento e all’emarginazione dei più deboli, o semplicemente dei più normali. In questa canzone, paradossale sin dal titolo, Rino vuole scolpire, attraverso la sua usuale illogicità dei versi usati, una realtà incomprensibile che può essere colta e interpretata solo attraverso l’assurdità dei versi stessi. I suoi ossimori penetrano in un mondo insostenibile di individui anonimi e sfruttati, liberamente esclusi da una società scandita e gratificata dai riconoscimenti dei premi aziendali, di persone che non credono nei dogmi della religione (“perché è convinto che nell’amaro benedettino non sta il segreto della felicità”), del calcio (già sport nazionale e veicolo di distrazione della massa), e dell’economia.
Un capolavoro affilato e contraddittorio che affonda la sua lama nella disgregazione sociale, che i padroni, del pensiero, del denaro e della religione ,riescono a nascondere attraverso forme convenzionali e non virtuose.Continua a leggere…

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Ripercorrendo i cieli di Rino: Ingresso libero

[stextbox id=”custom” big=”true”]Dopo il grandissimo successo dellarticolo recentemente pubblicato in ricordo di Rino Gaetano, iniziamo oggi una rubrica di approfondimento sul cantautore calabrese e romano di adozione. Ripercorreremo tutte le tappe più importanti della sua carriera, tragicamente stroncata da un incidente stradale nel giugno del 1981, analizzando i sei album pubblicati dal genio artistico di un personaggio che ha lasciato un vuoto incolmabile.[/stextbox]

L’esordio artistico di Rino Gaetano è datato 1973, quando Rino si fa conoscere sul palcoscenico italiano con le canzoni: “I love you Maryanna” e “Jaqueline“. Basta davvero poco per accorgersi che dai suoi testi emerge un’ ironia unica e un sarcasmo incommensurabile. La musica cambia, però, quando intraprende la strada del 33 giri. Il suo esordio – Ingresso libero – viene inciso utilizzando lo pseudonimo “Kammamuri’s” nel 1974. Il titolo è promettente, le canzoni che lo contraddistinguono si fanno ascoltare, velocemente, una dopo l’altra. È l’unico dei suoi album a non prendere il nome dalla prima traccia, né da nessun’altra. Mentre lo ascolto mi viene quasi voglia di passare da una canzone all’altra, per capire se ci sia un filo conduttore. Ascolto l’album e lo riascolto ancora, e alla fine capisco che ogni pezzo ha la sua storia; sintetica, decisa, invadente. La sua voce è prorompente, a tratti bassa e rauca, le parole parlate più che cantate, a tratti è spumeggiante, acuta si infila nei timpani e ti lascia l’eco di un urlo che è l’incontro di gioia e disperazione.

“Tu, forse non essenzialmente tu” è la prima traccia dell’album, ma è anche il titolo del singolo che precedette l’uscita di “Ingresso libero”. Definirla semplicemente una canzone d’amore sarebbe un dispetto, tenendo conto che la stragrande maggioranza delle sue canzoni passa da un argomento all’altro, trattando i temi più disparati. C’è un po’ di tutto in questa ballata, sullo sfondo di una dedica a una donna c’è tutta la genialità di Rino, capace come forse nessun altro di fare mille discorsi in una stessa frase, di mischiare brillantemente le carte, di prendere tanti pezzi e creare un puzzle dal significato sempre vario e mai scontato. Lungi dall’essere il cantante del “non senso”, come ahimé da molti è stato definito, credo che in questa, come in tante altre, performance Rino dimostri di sapersela cavare non soltanto come cantautore ma anche e soprattutto come poeta, filosofo, interprete e narratore. Strepitosa la strofa: “e sono ormai convinto da molte lune dell’inutilità irreversibile del tempo / mi sveglio alle nove e sei decisamente tu / e non si ha il tempo di vedere la mamma / e si è gia nati e i minuti rincorrersi senza convivenza / mi sveglio e sei decisamente tu, forse non essenzialmente tu / e la notta confidenzialmente blu“.

“Supponiamo un amore” mescola romanticismo e drammaticità, una storia d’amore raccontata senza essere vissuta, soltanto sperata, auspicata, agognata, ma non per questo incapace di emozionare e commuovere. “Supponiamo noi due un amore nulla più / supponiamo un amore che non voglio che vuoi tu“, cosa altro aggiungere a questa frase? Qui c’è davvero tutta la voglia di amare di Rino, la sua semplicità, la sua idea del sentimento tra due persone, il suo desiderio di gridare a un mondo sempre più vuoto l’importanza dell’amore, quello sincero, smaliziato, vero, quello con la A maiuscola. E come sempre lui lo fa a modo suo raccontando un amore, come si evince dal titolo, soltanto supposto, immaginato, un amore meravigliosamente perfetto se non fosse per il “supponiamo”. La voce in questa canzone è davvero graffiante, più che mai toccante, quasi immersa in un profondo, malinconico e laconico pianto. Il suo grido “Amore, amore…” accarezza il cuore e dimostra ancora una volta quanto Rino desse importanza ai sentimenti. Emozionante.

httpv://www.youtube.com/watch?v=PtbQFgOcYwY

“Ad esempio a me piace il sud” è forse la più nostalgica traccia dell’album. Mentre ascolto questa canzone mi passano davanti agli occhi una serie di immagini evocate dalle parole di Rino. Il Sud raccontato da un ragazzo emigrato in una grande città, la minuziosità dei particolari paesaggistici, delle emozioni umane, la conoscenza del territorio, delle usanze e della vita di tutti i giorni sono i connotati principali di una ballata che riesce a rendere l’idea del Sud anche a chi non ha vi ha mai messo piede, in quella terra “dove l’acqua è più del pane”. Rino qui riesce, soltanto grazie alle sue parole, a farci vedere i colori, i profumi e le sfumature di un Sud semplice, umile e povero. Le parole strillate e quasi disperate di un ragazzo che elogia, fa conoscere, ricorda e piange la propria terra nativa è riassunto nel grido: “ma come fare non so / si devo dirlo ma a chi? / se mai qualcuno capirà / sarà senz’altro un altro come me“. Rino non ha mai rinnegato le sue origini, anzi ne è stato un accesissimo difensore, le ha sempre cantate e portate nel cuore, e anche per questo merita una profonda stima.

“Agapito Malteni il ferroviere” e “L’operaio della Fiat la 1100”, sono due canzoni ispirate al racconto della realtà operaia che, insieme a quella contadina, è uno dei principali fili conduttori della carriera artistica di Rino. Il ferroviere richiama “La locomotiva” di Guccini (1972); non a caso la trama è praticamente la medesima, cioè quella di un uomo che vuole dirottare un treno per protesta. La descrizione del protagonista della canzone (Agapito Malteni) è precisa, dettagliata, quasi ossessiva. Non sfugge niente a Rino: quando decide di raccontare un personaggio lo fa da capo a piedi, soprattutto perché quel personaggio, in realtà, è soltanto il pretesto per parlare di qualcuno (o di qualcosa) di cui non parla mai nessuno. Quel personaggio, che oggi Rino chiamerebbe “avatar”, nasconde sempre un’idea, una vita umana, una categoria di persone, spesso le più deboli, ancora più spesso le più sofferenti.
L’operaio della Fiat racconta la cronaca del periodo dell’autunno caldo e della contestazione operaia. È la storia di un operaio dell’azienda torinese che, facendosi in quattro, lavora alla catena di montaggio tutta la settimana, e tornato “dalla sua donna” distrutto dall’ennesina identica giornata lavorativa, è pronto a partire per un fine settimana con gli amici. Uscendo di casa, si accorge che la sua macchina è stata bruciata da ignoti. Sarcastica e ficcante, pragmatica al punto giusto, verosimile racconto della dura realtà dell’operaio, se non fosse per i diversi modelli delle automobili fabbricate, nessuno si stupirebbe se questa canzone fosse stata scritta oggi.

httpv://www.youtube.com/watch?v=oH9obEgDyT0

“La vecchia salta con l’asta” e “AD 4000 d.c.” sono due canzoni sui generis, poetiche e politiche. Iniziamo dalla prima. Ascoltandola con superficialità sembrerebbe una canzone per bambini. Solo a seguito di un’accurata analisi si capisce che i contenuti e lo scopo della canzone sono ben altri. La musica e le strofe, ma soprattutto le rime forti e dure, sono preparate attentamente per un progetto molto più abizioso, cioè nascondere dietro un’allegorica storiella un significato politico. I critici negli anni non sono riusciti a spiegare cosa volesse significare questa ballata, e neanche io sono in grado di spiegarla, ma mi rifiuto di credere che sia un ammasso di parole messe in fila per impressionare. Non ci credo perché, come ho detto prima, Rino è tutt’altro che un artista non sense. La seconda, a parer mio, completa un esordio artistico da applausi. Altra canzone politicamente scorretta e dal significato enigmatico. Vi consiglio di ascoltarla soltanto se avete voglia di decodificare il “Rino pensiero”. Anche questa canzone necessita di una sopraffina analisi letterale, come d’altronde è sempre necessario nelle canzoni di critica politica. Qui c’è di più. Emerge una critica forte alla Chiesa e al sistema criptico di potere che ha in mano il mondo. Rino denuncia indirettamente, ma neanche troppo velatamente, il sistema simil-massonico che avvolgerebbe la società. A voi il giudizio sull’attualità del tema alla base di questa traccia.

“I tuoi occhi sono pieni di sale” è la canzone dalla quale Rino prese spunto quando prima di un concerto nel 1979 affermò: “C’è qualcuno che vuole mettermi il bavaglio! Io non li temo! Non ci riusciranno! Sento che, in futuro, le mie canzoni saranno cantate dalle prossime generazioni! Che, grazie alla comunicazione di massa, capiranno cosa voglio dire questa sera! Capiranno e apriranno gli occhi, anziché averli pieni di sale! E si chiederanno cosa succedeva sulla spiaggia di Capocotta”. Queste parole valgono più di ogni altra spiegazione.

“A Khatmandu” è un pezzo che va ascoltato, più che raccontato. Brillante miscela di sarcasmo, ironia e  paradosso, geniale il passaggio in cui Rino canta “A Khatmandu c’è anche il gurù / ci porta in paranoia / predicando a testa in giù“. In un certo momento della canzone “A Khatmandu quando ero giù / tra i fori e la stazione / c’era via Cavour” sembra davvero di camminare per le vie di Roma, passare velocemente di notte da una strada all’altra. È un brano che io consiglio sempre di ascoltare, ottimi i cambi di ritmo e la poliedricità canora di Rino.

httpv://www.youtube.com/watch?v=m2zDKSpe13E

Buon ascolto e buon Rino a tutti!