Quando venni a sapere dell’uscita di un nuovo film tratto dal romanzo di Lev Tolstoj “Anna Karenina”, uno dei miei libri preferiti, ne fui molto felice. D’altronde, dopo averne visto, da brava maniaca, diverse versioni (statunitense, russa, italiana) non potevo certo perdermi questo nuovo tentativo di portare sullo schermo uno dei romanzi più famosi della letteratura mondiale.
La storia narra di Anna Karenina, donna di spicco dell’alta società pietroburghese, sposata e con figlio, la cui vita viene stravolta dall’amore per un ufficiale, il conte Vronskij. Altre storie, poi, si intrecceranno attorno a questo filo conduttore narrativo.
Il regista Joe Wright apre il film in modo insolito: ci troviamo infatti sul palcoscenico di un teatro; vi sono fondali dipinti, cambi di scena che avvengono durante la recitazione degli attori, macchine da presa che ruotano in modo vorticoso. L’atmosfera è vivace, quasi da musical. Una vera festa per gli occhi in fatto di colori, costumi e luci (e infatti sono questi gli aspetti che hanno conquistato gli Oscar).
Ebbene, non sono contraria alle interpretazioni personali, tutt’altro, ma mi piace che siano motivate. Non capisco il perché di questo taglio teatrale, di questa finzione ostentata. Una scelta che non aggiunge nulla e che oltretutto non viene neanche portata fino in fondo: il film, infatti, perde pian piano il suo aspetto teatrale e diventa sempre più “realistico”, con visione di esterni e ambienti reali. Insomma, sembra quasi un esercizio di stile fine a sé stesso, un gioco che avrei visto più adatto all’ironia di un Oscar Wilde che a un Tolstoj.
A questo punto non resta che una seconda scialuppa di salvataggio: gli interpreti. Ma anche qui andiamo a fondo.Continua a leggere…
Dave Grohl è la Musica incarnata.
Non vi posso stare a spiegare perché, ci vorrebbe troppo tempo: o siete d’accordo o non lo siete. Su Camminando Scalzi abbiamo comunque una nutrita documentazione con cui potrete passare diverso tempo, se non capite perché apro una recensione di un film con questa frase a effetto.
In questi anni bui e tetri siamo infestati di una musica disgustosa. Inutilmente rumorosa, vuota, cretina, inconcludente, raffazzonata, e potrei continuare. Il mezzo si è svenduto completamente attraverso la massificazione, per cui è ormai possibile per qualsiasi stronzo che non ha la più pallida idea di cosa sia una scala musicale realizzare una canzone in digitale e metterla in vendita su iTunes, dove altra gente ignorante come e più di lui ne comprerà un sacco di copie rendendolo ricco e famoso.
Viviamo nei tempi della “guerra del rumore“, una cosa che dovrebbe far rabbrividire ogni amante della buona musica degno di questo nome. In breve: dove una volta si cercava sempre più la purezza del suono, la sua vera anima, oggigiorno nel disco prodotto già a cazzo di cane in partenza con i metodi di cui sopra, si aggiunge ulteriormente del “rumore” di fondo per aumentare il volume, con lo scopo di far “suonare più forte” il disco in modo che risalti sugli altri “dischi concorrenti” e potenzialmente farlo vendere di più. Se questo non è un segno evidente dell’involuzione in cui l’umanità si sta affossando, non so cosa possa esserlo.
Piergiorgio Odifreddi è un matematico, logico e saggista italiano. Continuando a copiare da wikipedia, pare che sia “la frusta laica della Chiesa in Italia” e che il suo vizio sia “smontare dogmi”. È tutto vero. Aggiungo di mio che Odifreddi è un genio – nel senso moderno del termine – cioè ha un’intelligenza sopra la media, che ha sfruttato per tutta la vita per costruirsi un intellettualismo fuori parametro e una cultura smodata che spazia in (quasi) ogni angolo dello scibile umano (è l’unico matematico capace di intrigarmi anche quando parla di arte e musica classica) e che mette a disposizione della divulgazione scientifica grazie alla sua dialettica pimpante, energica e divertente, sotto forma di libri, interviste, documentari e quant’altro.
[stextbox id=”custom” big=”true”]Una nuova autrice su Camminando Scalzi.
L’articolo di oggi è scritto da Delia Milioni, italo-belga, romana d’adozione. Si occupa di comunicazione a 360°(ufficio stampa, progettazione, gestione contenuti on-line). Ha lavorato nei più disparati settori: dal pubblico al turismo, dallo sport al cinema. Inoltre ha un’associazione di donne che si occupa di educazione sostenibile per bambini e adulti.[/stextbox]
Ci sono Film che, a volte, si discostano dal classico impegno intellettuale autoreferenziale.
Ci sono film che, a volte, sono capaci di raccontare storie vere, drammatiche, ma non ti lasciano con la sensazione di aver ricevuto un pugno nello stomaco. A volte ci sono film come Il Sole Dentro, l’ultimo film di Paolo Bianchini, che uscirà nelle sale il 15 novembre. Con estrema delicatezza, il film racconta due viaggi che si sfiorano lungo un sentiero che unisce virtualmente l’Europa all’Africa. Il primo è quello compiuto Continua a leggere…
[stextbox id=”custom” big=”true”]Vi presentiamo Cristina: una piccola rivoluzionaria nata in Sardegna 32 anni fa, da sempre convinta che “un altro mondo non solo sia possibile, ma necessario”… Da circa due mesi lavora come attivista per un’organizzazione che si occupa di diritti umani in Colombia, con un’esperienza che oggi ha deciso di condividere anche con noi lettori di Camminando Scalzi[/stextbox]
Bogotà… Grande, dispersiva e molto pericolosa, sicuramente. Ma allo stesso tempo ti strega e ti cattura con i suoi odori, colori.
Non hai subito l’impressione del pericolo, e quando te ne rendi conto capisci che è naturale che sia rischiosa, viste le disuguaglianze sociali così evidenti. In una strada che può essere considerata tranquilla, ti rendi conto che giusto girando l’angolo è tutta un’altra realtà. Si dorme in uno spartitraffico solo con quello che si ha addosso, e c’é un mito da sfatare: a Bogotà c’è freddo!
L’altra sera sono andata a ballare salsa con delle ragazze e ragazzi di una ONG amica in un locale che aveva appena inaugurato. A un certo punto arriva la polizia, con armi e tutto. Giusto per farsi vedere, e per ricordare al proprietario l’orario di chiusura, semmai l’avesse dimenticato. Ma soprattutto per chiedere un “contributo” per la benzina… Inutile dire che il tipo ha sganciato la bellezza di cinquanta mila pesos colombiani (lo stipendio medio di un operaio si aggira intorno ai 125.000 pesos, ndr). Alla faccia del rincaro della benzina…
La sera dopo c’era la quarta festa di “despedida” di una collega e siamo uscite a ballare. Arriviamo al Congo, la Candelaria. Un locale caldissimo, i cui muri sembravano traspirare alcool. Decido di fumare una sigaretta e prendere una boccata d’aria. Mi metto vicino a un carretto di venditori ambulanti. Arriva la polizia, un agente si avvicina e in modo poco gentile chiede una sigaretta. Qui si vendono sfuse… I proprietari fanno a gara per offrirgliene una. Ne prende quattro e ovviamente non pensa di pagare nemmeno per un secondo. Le prende e va.
La cosa che più mi ha scioccata é proprio la presenza di armi e persone armate. Non parlo solo della polizia, presente a ogni angolo della strada, ma anche della sicurezza privata, fissa all’esterno delle case “ricche”, di edifici pubblici o di professionisti. Tutti pagano una guardia armata che sta fuori giorno e notte. È incredibile vedere l’esercito tranquillamente a ogni angolo, e dico ogni angolo, soprattutto al centro. È assurdo trovarsi con armi dovunque, ma in particolare è inconcepibile vedere come la gente conviva e abbia interiorizzato questo stato di polizia. In effetti la Colombia è perennemente sotto “estado de sitio” (stato d’assedio).
È una città difficile, ma vale la pena viverla, almeno per un po’. Qui ci vivono dieci milioni di abitanti su un totale di quarantacinque, quasi un quarto della popolazione. Ci sono zone che avrei voluto visitare, ma che per questioni di sicurezza non ho potuto. E non esagero, visto che non ci vanno nemmeno i Bogotani, se non scortati. Anche questo è normale da vedere: camionette blindate con i vetri oscurati e l’autista. Soprattutto al nord, zona sfacciatamente ricca in opposizione al sud sfacciatamente povero. Anche chi si occupa di diritti umani: sono minacciati e devono vivere una vita da blindati per poter portare avanti la lotta.
Poi arriva l’ora di lasciare la capitale, per andare verso il Caribe. Apartadò, departamento de Antoquia. Zona di FARC (Forze armate rivoluzionarie della Colombia), ma anche la zona dove nascono i paramilitari, zona di stragi, di ingiustizie e di caldo estremo. Appena arrivata a Medellin si sente la differenza con Bogotà. Vado a cambiarmi all’aeroporto e mi vesto da agosto, ma il caldo è insopportabile anche sotto l’aria condizionata. Medellin, la città dell’eterna primavera e del cartello di Escobar. Città ricca, si vede. Città in cui sembra che un gruppo di paracos (paramilitari, ndr) stia cercando di metterci le mani. Ma questa è un’altra storia, magari ve la racconto la prossima volta…
[stextbox id=”info” caption=”Vuoi collaborare con Camminando Scalzi.it ?” bcolor=”4682b4″ bgcolor=”9fdaf8″ cbgcolor=”2f587a”]Vuoi scrivere anche tu per Camminando Scalzi? Vuoi gestire una rubrica sulla tua tematica preferita?
Collaborare con la blogzine è facile. Inviateci i vostri articoli seguendo le istruzioni che trovate qui. Siamo interessati alle vostre idee, alle vostre opinioni, alla vostra visione del mondo. Sentitevi liberi di scrivere di qualsiasi tematica vogliate: attualità, cronaca, sport, articoli ironici, spettacolo, musica… Vi aspettiamo numerosi![/stextbox]
Germania, gennaio 1933: la Storia – l’ascesa al potere di Adolf Hitler – e le vite di quattro giovani, Ruth, Dora, Ernst, Hans, si intrecciano nel romanzo di Anna Funder, una giornalista australiana. Il romanzo è stato pubblicato in inglese nel 2011 e tradotto in italiano nel 2012.
I personaggi sono realmente esistiti: si tratta di quattro giovani attivisti politici che tentarono di mettere in guardia il loro Paese e l’Europa intera sui pericoli derivanti dall’ascesa al potere del dittatore di Braunau. Le loro vicende sono state studiate e attentamente ricostruite dalla Funder sulla base di documenti e testimonianze, prima fra tutte quella dell’amica Ruth Blatt, fotografa e attivista che, dopo la fuga dalla Germania, si stabilì in Australia; gli elementi romanzeschi fungono da collante delle varie vicende, conferendo al testo una certa fluidità e godibilità.
I quattro vivono in Germania negli anni della Repubblica di Weimar: la disoccupazione alle stelle, l’inflazione, lo scontento e l’orgoglio ferito per la sconfitta subita nella I Guerra mondiale sono i caratteri più evidenti del contesto in cui Hitler muove i primi passi verso la dittatura. Sin dal conferimento dell’incarico di Cancelliere a Hitler vengono stilate delle liste, in cui figurano tutti gli oppositori politici del nascente regime e anche i semplici sospettati di esserlo. Alcuni vengono eliminati immediatamente, uccisi frettolosamente o semplicemente lasciati morire chiusi nelle cantine.
I quattro giovani, che con le loro pubblicazioni cercano in ogni modo di allertare il popolo tedesco sulla deriva antidemocratica a cui sta andando incontro il Paese, fuggono all’estero, in Inghilterra. Qui, da rifugiati, continuano le loro attività, consentendo di mettere in piedi un processo “alternativo” per l’incendio del Reichstag, per il quale riescono a far emergere le responsabilità dell’apparato nazista, in un’Europa che sembra ancora scettica rispetto ai reali pericoli derivanti dall’avanzata del partito nazionalsocialista in Germania. La morsa della paura si stringe attorno a loro, giungono notizie di altri rifugiati uccisi dai servizi segreti, sinistri segnali annunciano una catastrofe che sembra inevitabile. L’amicizia, l’amore, il coraggio: sono questi gli elementi fondamentali del racconto, affidato alle voci di Ruth e del drammaturgo Ernst Toller, aderente al partito socialdemocratico tedesco, il quale si rifugiò dapprima in Inghilterra e poi negli Stati Uniti, dove si suicidò nel maggio del 1939.
Anna Funder
La scelta di affidare il racconto a queste due voci mi è sembrata molto efficace: i due narratori riescono a tracciare i caratteri dei personaggi e del contesto storico dall’interno, sulla base del loro coinvolgimento diretto nella vicenda. Ruth è il personaggio meno “esposto”, funge soprattutto da osservatrice e ci restituisce un ritratto d’insieme che definirei appassionante: vivere per testimoniare, per denunciare, per gridare al mondo che qualcosa di terribile sta accadendo, mentre tutti marciano in senso opposto, affascinati dalla figura del Führer e già succubi della propaganda nazista. Le storie di questi giovani rifugiati, immerse nel grande flusso della Storia, sembrano diventare “necessarie” oggi, a distanza di ottant’anni, nell’era di Internet e del flusso costante di informazioni, quasi a ricordarci che la coscienza critica e la libertà intellettuale sono elementi da custodire e da coltivare sempre, in ogni situazione.
Tra i quattro protagonisti spicca senza dubbio la figura di Dora Fabian, finora poco conosciuta, ma che grazie a questo romanzo emerge finalmente dall’oblio. La sua vicenda mi ha colpito molto, e credo anche che ogni lettore rimarrà affascinato dalla vitalità, dal coraggio, dalla fermezza, dalla libertà intellettuale di Dora.
[stextbox id=”info” caption=”Vuoi collaborare con Camminando Scalzi.it ?” bcolor=”4682b4″ bgcolor=”9fdaf8″ cbgcolor=”2f587a”]Vuoi scrivere anche tu per Camminando Scalzi? Vuoi gestire una rubrica sulla tua tematica preferita?
Collaborare con la blogzine è facile. Inviateci i vostri articoli seguendo le istruzioni che trovate qui. Siamo interessati alle vostre idee, alle vostre opinioni, alla vostra visione del mondo. Sentitevi liberi di scrivere di qualsiasi tematica vogliate: attualità, cronaca, sport, articoli ironici, spettacolo, musica… Vi aspettiamo numerosi![/stextbox]
Si chiama “Dietro le spalle” ed è un libro, non esattamente un giallo, che porta il lettore nel centro di un intreccio che ne assume le connotazioni. L’autrice, Francesca Sifola, racconta la trama del suo libro, incontrando giornalisti e lettori nei bar del centro di Napoli, la città in cui è nata.
“Le immagini dell’intrigo – spiega la scrittrice – non vengono esposte a narrazione dettagliata, ma a una veloce esposizione, come se fossero dei fotogrammi, e l’elaborazione descrittiva cede il passo all’incisività, dove i paesaggi sono esposti a trame di vita di cui l’uomo del nostro secolo è spesso inconsapevole. Un percorso di idee e azioni che – costruite dietro le spalle di tutti – possono operare per il Bene e per il Male”.
Il primo libro che Francesca Sifola ha scritto s’intitola “La scatola bucata”, ma delle sue opere letterarie si ricorda soprattutto “Luna Park”, una raccolta di racconti brevi pubblicata nel 2002. Ha scritto anche alcuni romanzi, come “Sogno”, “Scene di scrittura”, “Tempo senza maschera” e il racconto giallo “Don Carmine Paterno”. Tra i vari premi ricevuti si ricorda in particolare Il Premio Internazionale Calabria nel 2009.
“La passione per la scrittura – afferma la Sifola– è nata da ragazzina, quando guardavo la realtà come se volessi fotografarla”. Per “Dietro le spalle”, l’autrice utilizza tre aggettivi: “Altruista perché è un testo la cui incisività va verso gli altri. La scrittura è una missione che cerca di far conoscere il proprio testo agli altri, cercando di fare in modo che tutti possano leggerlo; ironico, da non confondere con sarcastico; nostro, perché può essere letto e interpretato da tutti”.
Francesca Sifola
Se dovesse definire il libro come uno dei cinque sensi, Francesca Sifola non ha dubbi: “Sceglierei la vista, perché il libro ha una vista molto ampia, direi a 360 gradi”.
La scrittrice si sofferma anche a parlare del termine “valore”, il cui significato oggi è stato mistificato: “Oggi certi valori non esistono più. In compenso esistono parole nuove, come la globalizzazione, la multiculturalità. Anche questi sono valori, ma molte volte vengono utilizzati come forme di mercato”.
Il libro “Dietro le spalle” può essere acquistato nella libreria Feltrinelli a Napoli. L’autrice, però, preferisce incontrare i suoi lettori per la strada per raccontare la trama della sua opera e cercare di suscitare l’interesse della gente.
[stextbox id=”info” caption=”Vuoi collaborare con Camminando Scalzi.it ?” bcolor=”4682b4″ bgcolor=”9fdaf8″ cbgcolor=”2f587a”]Vuoi scrivere anche tu per Camminando Scalzi? Vuoi gestire una rubrica sulla tua tematica preferita?
Collaborare con la blogzine è facile. Inviateci i vostri articoli seguendo le istruzioni che trovate qui. Siamo interessati alle vostre idee, alle vostre opinioni, alla vostra visione del mondo. Sentitevi liberi di scrivere di qualsiasi tematica vogliate: attualità, cronaca, sport, articoli ironici, spettacolo, musica… Vi aspettiamo numerosi![/stextbox]
“Italy: love it or leave it”. Un dilemma frequente. Un dubbio che tanti italiani hanno cercato risolvere e su cui Gustav Hofer e Luca Ragazzi hanno realizzato un documentario che oggi sta facendo il giro del mondo.
Una storia che comincia con una lettera di sfratto dall’appartamento romano in cui Luca e Gustav convivono da sei anni. Un trasloco che apre un conflitto nella coppia, combattuta fra radicamenti inconsci e possibilità alternative. Da una parte Luca e il suo desiderio di continuare ad abitare nella città in cui è nato e cresciuto; dall’altra Gustav e il suo progetto di emigrare a Berlino, “dove gli affitti costano un terzo che a Roma”, eguagliando la scelta dei tanti amici che già hanno lasciato quel Paese in cui non riuscivano più a riconoscersi.
Un bivio che decidono di superare a bordo di una 500 che cambia colore, percorrendo la penisola da nord a sud, fra oscenità e luoghi comuni, fra cliché e paesaggi da cartolina, alla ricerca dell’agognata risposta richiamata dal titolo del film. Sei mesi di viaggio in 75 minuti, peregrinando fra le meraviglie e le vergogne del nostro Bel Paese, per mettere in luce le sue eterne contraddizioni e quell’infinità di motivi per cui vale la pena di andare o restare.
Partendo dai grandi marchi, Gustav e Luca cominciano con l’intervista a un’operaia della Fiat di Torino e proseguono con una visita all’ultima fabbrica italiana della moka Bialetti, che nell’aprile 2010 ha messo in mobilità i centoventi dipendenti dello stabilimento di Omegna (Piemonte) per chiudere e spostare l’intera produzione in un Paese dell’est europeo.
Parlando della rinomata cucina italiana l’inquadratura si sposta verso il fondatore di “Slow Food” Carlo Petrini e prosegue il cammino verso la Calabria di Rosarno, per registrare le drammatiche condizioni dei braccianti agricoli che per venticinque euro al giorno lavorano fino a dodici ore, raccogliendo le arance e i pomodori che poi finiscono sulle nostre tavole…
Fra scandali e “Ruby-gate” Luca e Gustav si ritrovano alla manifestazione “In mutande ma vivi”, tenutasi il 12 febbraio 2011 al Teatro Dal Verme di Milano e organizzata dal direttore del Foglio Giuliano Ferrara per ribattere agli attacchi contro l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.
Poi l’intervista a Lorella Zanardo, autrice del documentario “Il corpo delle donne”, e una piccola visita a Predappio, cittadina emiliana che ha dato ai natali Benito Mussolini e che oggi rappresenta la meta preferita dai vacanzieri fascisti.
La spedizione continua a Napoli, fra spazzatura e panorami da sogno, e poco dopo in Sicilia, tra la mafia descritta dalle commoventi parole di Ignazio Cutrò (imprenditore sotto protezione) e la cultura argomentata dalle forti sentenze di Andrea Camilleri, secondo cui “lasciare il proprio Paese per scelta equivale a disertare”.
Si procede con i dodici ecomostri di Giarre e l’ingegnoso progetto dell’Incompiuto Siciliano, per poi riattraversare il mare verso la Puglia di Vendola e di Padre Fedele, che delinea i pregi e i difetti dell’Italia attraverso la metafora: “Fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce”…
Una traversata attraverso i vizi e le virtù degli Italiani, con statistiche e immagini da sconforto, ma sempre accompagnate da straordinarie parole ed esperienze in grado di far tornare il sorriso anche sulla bocca dei più scettici pessimisti.
Incuriosito più che altro dalla performance di Michelle Williams – la dolce Jen di Dawson’s Creek e vedova del compianto Heath Ledger – sono andato a vedere Marilyn senza troppe aspettative… Simon Curtis è regista e produttore televisivo al suo esordio al cinema, così come lo sceneggiatore Adrian Hodges. Per una volta ho lasciato perdere i dubbi e mi sono affidato alla Williams e a Kenneth Branagh, che solitamente non scelgono i copioni a caso. Ho fatto bene.
Marilyn è prima di tutto un bel film inglese, per cui se non amate particolarmente i tratti caratteristici del cinema oltre manica pensateci bene prima di comprare il biglietto… Ma chiunque abbia apprezzato film come “Il discorso del re” o “The Queen” può entrare in sala fiducioso. Dico che è prima di tutto un film inglese perché non si tratta di un classico biopic di Marilyn Monroe: non si rimane su di lei tutto il tempo e non si racconta la storia della sua vita. Il film è basato sui diari di Colin Clark, un assistente alla regia de “Il principe e la ballerina” di e con Laurence Olivier (1957). Tale Clark ha frequentato in maniera piuttosto ravvicinata la donna che all’epoca rappresentava il concetto di bellezza e sensualità in tutto il mondo. Il film racconta proprio questa relazione, quindi si concentra su un periodo piuttosto breve della vita di Marilyn… E questa scelta si rivela vincente.
Marilyn dà per scontate un sacco di cose, pertanto chi voleva approfondire la sua conoscenza della famosa diva platinata dovrà ricorrere ad altri sistemi, ma la sceneggiatura ha un ottimo ritmo, buoni dialoghi, personaggi psicologicamente ben disegnati e quindi riesce a raccontare nel migliore dei modi una buona storia, in cui Marilyn Monroe è solamente uno dei personaggi. Pensate che nella prima metà del film la Williams compare solo in cinque o sei scene, privilegiando uno spaccato sulla produzione cinematografica che diverterà ed esalterà chi conosce questo mondo un po’ più da vicino.
La regia è corretta e trasparente, ben cosciente che non è lei il piatto forte del film, bensì la recitazione. Infatti troviamo un Branagh al massimo della forma (come lo non vedevamo da un bel pezzo, sinceramente) e soprattutto lei, Michelle Williams, che è semplicemente incredibile. Sono sempre un po’ restìo quando leggo i commenti esaltati dei critici di professione (che spesso sono pagati per parlare bene e basta), ma stavolta è tutto corretto: la Williams non è solo credibile, ma assolutamente convincente. È la classica parte che spinge la giuria degli Oscar a strapparsi vesti, mutande e capelli, quindi aspettiamoci pure l’agognata statuetta per la già due volte candidata (“I segreti di Brokeback mountain”, 2005 e “Blue Valentine”, 2010).
Attorno alle due colonne attoriali portanti girano Eddie Redmayne, che abbiamo visto nella mini serie de “I pilastri della terra”, Judi Dench, Toby Jones, Julia Ormund e una parte più modesta per la bella Emily “Hermione” Watson.
[stextbox id=”warning”]Questo film ha luce verde nel Cinesemaforo, la più immediata soluzione per scegliere il vostro film da guardare in serata: soltanto un colore e tre righe di recensione! Diventate fan su Facebook![/stextbox]
Su Camminando Scalzi non è la prima volta che ci lamentiamo un po’ del cinema nostrano… Siamo un po’ scocciati, più che altro, dalla mancanza di idee e dalla freddezza delle realizzazioni. Per questo cerchiamo di tenerci (e tenervi) informati sulle novità più interessanti in questo campo, come abbiamo fatto tempo fa parlandovi di Vitrum e della sua forma di co-produzione.
Ma il “cinema” inteso come l’edificio fisico in cui si proiettano i film oggigiorno non è più l’unica via di uscita per il talento di creativi come Ivan Silvestrini, autore e regista di Stuck, che ha solo trent’anni ma un curriculum notevole. Stuck è infatti una serie web, ovvero un telefilm pubblicato su internet. Ovviamente l’idea non è nuova, ma l’abbiamo vista perfezionarsi con molto gusto, soprattutto negli ultimi anni, con esempi come “Freaks” (con l’attore Gugliemo Scilla, che ha iniziato proprio con filmati autoprodotti su youtube ed è recentemente approdato al cinema con “10 regole per fare innamorare”).
Ivan scrive un nuovo capitolo nella storia di queste produzioni raccontando le gesta di David Rea, “emotional trainer”, ovvero uno psicologo senza titolo e senza peli sulla lingua capace di “sbloccare” i problematici clienti che arrivano da lui… in modi non sempre molto etici.
Stuck è una commedia brillante, molto intelligente, briosa e colorata; lascia i giusti spazi all’intellettualità e all’emotività senza tralasciare l’ironia e qualche momento di comicità. È recitata molto bene, diretta con capacità e metodo e, cosa molto molto rara oggigiorno, ha un’ottima scrittura a sostenerla, basti vedere la puntata zero.
Ha anche un’altra particolarità: si apre al pubblico estero non mettendo i sottotitoli in inglese, bensì recitando direttamente in inglese. Una scelta senza dubbio interessante e nuova.
Prima di lasciarvi all’intervista vi reindirizzo verso la serie, se non l’avete ancora vista, che al momento ha all’attivo tre puntate più un prologo.
Camminando Scalzi: Praticamente tutte le altre interviste che ho letto rimarcano l’ispirazione/omaggio a Californication… Ma questa serie è stata effettivamente la fonte di ispirazione principale o ti sei basato invece su altro? Ivan Silvestrini: Mi piace Californication ma non mi ci sono ispirato direttamente. La verità è che la fonte d’ispirazione primaria è il mio lato più cinico e oscuro, che ho un grande bisogno di deridere.
CS: Qual è stata la progettazione di Stuck? Sei partito dal testo, sei stato ispirato dagli attori o che altro?
IS: Sono partito dal concept e dal fisic du role di Riccardo, poi ho cominciato a pensare quali personaggi servissero per esplorare al meglio le tematiche della serie. Avevo in mente degli attori con cui mi sarebbe piaciuto lavorare e sono felice che abbiano accettato tutti.
Ho scritto il pilota (che all’epoca comprendeva il prologo) e i primi riscontri erano sufficientemente incoraggianti da spingermi a scrivere il secondo episodio. Poi ho scritto il terzo e così via i primi sette episodi. A quel punto non sapevo bene dove andare, così sono partito per il mio viaggio di nozze e al ritorno, con l’aiuto di un grande story editor (Giovanni Masi), abbiamo ridefinito tutto e siamo andati avanti fino alla fine del decimo episodio.
CS: Al contrario di altre produzioni, che parlano italiano e scrivono i sottotitoli in inglese, Stuck parla inglese e obbliga gli italianofili a leggere i sottotitoli. Scelta particolare. Nata come? È un po’ una “selezione” sul nascere per tagliare fuori il pubblico italiano medio(cre), un incoraggiamento per far vedere la serie anche fuori dalla nostra nazione, un misto di entrambe o c’è dell’altro?
IS: C’è tutto questo, anche se io spero che il pubblico italiano vada oltre e si riveli meno medio(cre) di come dici.
Io non voglio fare una selezione artificiale del pubblico italiano, io spero che il pubblico italiano ci segua sempre più. Ne è perfettamente in grado.
C’è sicuramente la voglia di non precludersi un pubblico internazionale, ma soprattutto c’era la voglia di usare uno humor più glaciale che in italiano non avrebbe funzionato allo stesso modo. Provate a recitare le battute che trovate scritte nei sottotitoli, vedrete che non fanno lo stesso effetto in italiano. Quindi in definitiva è stata una scelta stilistica.
CS: Parlando degli attori: sono tutti molto bravi e hanno facce molto interessanti, che bucano lo schermo; ma oltre a questo, recitano in inglese con scioltezza, al contrario di tanti nostri “divi” che pure hanno lavorato oltreoceano. In che modo li hai cercati e selezionati? Quanto tempo ci hai messo?
IS: Riccardo c’è dalla nascita di Stuck, lui non mi ha mai chiesto di poter interpretare David Rea, ma più lo conoscevo più capivo che sarebbe stato perfetto per la parte.
Ivana (Lotito, ndR), Vincenzo (Alfieri), Valentina (Izumi, già vista in “Questa notte è ancora nostra” con Nicolas Vaporidis) sono attori che stimo moltissimo da anni e trovandomi nella condizione di non dover rispondere delle mie scelte a nessuno, li ho coinvolti tutti.
Gaia (Scodellaro) l’ho conosciuta per l’occasione ed è stata una vera sorpresa e così Stefano Masciolini, un grande.
Mark (Lawrence) è un meraviglioso attore inglese che faceva il cameriere a Frascati.
Metà di loro sono madrelingua, metà si sono impegnati moltissimo. E a loro si sono aggiunti altri splendidi protagonisti di puntata come Giulio Pampiglione e altri che arriveranno a sorpresa.
Gli accenti sono variegati, come d’altronde lo sono in America e in qualsiasi paese dove la cultura del meltin’ pot sia rappresentata nelle produzioni culturali.
Alcuni di loro hanno aderito alla causa fin dalla sceneggiatura dei primi due episodi, altri li abbiamo trovati in corsa. La produzione è durata moltissimo, 20 giorni di riprese senza contare il prologo, spalmati tra settembre 2011 e maggio 2012.
CS: Ecco, veniamo alla produzione concreta degli episodi: c’è qualche sponsor o è un progetto del tutto autofinanziato?
IS: La prima stagione di Stuck è totalmente indipendente, l’obiettivo è generare un pubblico in modo che gli sponsor possano essere interessati a finanziare la seconda stagione.
CS: Con cosa giri, videocamera o fotocamera?
IS: Io personalmente uso una fotocamera Canon 60d con ottica Nikon anni ’70 di mio padre.
Paola Rotasso usa una Canon 5d; Giancarlo Spinelli usa una Canon 550d; Nicola Zasa usa una Canon 5d.
CS: Quanti giorni di riprese servono per realizzare un episodio?
IS: 2,2 (due virgola due).
CS: Da quanti elementi è composta la troupe?
IS: Gli Stuckanovisti sono stati la migliore troupe che una produzione simile potesse desiderare/vantare. È stata una troupe variabile nel numero e nei nominativi ma mediamente era composta da me, gli attori, un fonico, una truccatrice, una costumista, da una a quattro persone nel reparto regia, mia moglie come producer, mia suocera come catering, mio padre come tuttofare e Ramon il gatto.
Ogni tanto persino il montatore ci veniva a trovare sul set.
CS: Parlaci della realizzazione di musica e colonna sonora.
IS: Alessandro Santucci e Valentino Orciuolo della band DIUESSE hanno accettato la sfida e stanno componendo mano a mano le musiche dei vari episodi. Di solito cerchiamo di vederci con un premontato e discutiamo dei punti da musicare, poi loro con o senza di me si chiudono in sala prove e sfornano cose meravigliose. A quel punto di solito mi confronto con Alberto Masi (il montatore) e devo dire loro “questo è troppo bello, non fa ridere”. Mi tocca essere impopolare, ma che ci posso fare, Stuck ha dei principi estetici (anche) musicali molto precisi. Comunque sono fierissimo del loro lavoro e sono felicissimo che Stuck abbia una colonna sonora originale. Non vedo l’ora che esca il cd.
CS: Allarghiamoci ora all’argomento “Cinema”… Cosa pensi del panorama cinematografico italiano predominante?
IS: Pochi film italiani sono attraenti abbastanza da portarmi al cinema, cerco comunque di andarci e di solito trovo grande maestria, ma poco coraggio e originalità… specialmente nelle sceneggiature.
CS: E le produzioni indipendenti?
IS: È un po’ che non mi ci imbatto; io ho provato invano a realizzare film indipendenti, ma oggi non lo consiglierei a nessun filmmaker. Il rischio che un film indipendente non venga distribuito in questo panorama di crisi è altissimo. Un film richiede uno sforzo economico comunque sproporzionato rispetto alle reali prospettive di ritorno. Io credo che ogni filmmaker esordiente sia (o dovrebbe essere) mosso principalmente dal desiderio di esprimersi e di raccontare una storia… per questo ho scelto di fare una web series, per superare i limiti del cortometraggio autoconclusivo e creare qualcosa che le persone potranno vedere nel tempo, qualcosa che non scompaia dopo un paio di settimane in quattro sale.
CS: Credi che serial o film via web possano sbloccare un po’ la stitichezza artistica che stiamo vivendo nel nostro paese?
IS: Credo che lo stiano facendo. L’ondata di web series italiane di qualità sempre maggiore che sta invadendo la rete è l’endemica manifestazione di un desiderio diffuso di partecipazione culturale a un mondo, quello del cinema e della tv, sempre più chiuso e impenetrabile. Il mercato si è ristretto: chi ha fatto in tempo a entrarci ora si tiene stretto il proprio posto e questo è naturale. Io spero che le web series diventino una realtà parallela e importante, spero che generino profitti in modo da rappresentare un mercato più libero e indipendente per la creatività della mia generazione e di quelle che verranno. Per questo è importante, è fondamentale che la gente si senta responsabilizzata e che condivida come può la creatività su youtube. Bisogna condividere e aiutare a crescere chi crea contenuti per il web; bisogna condividere e insegnare a condividere. Molte persone non conoscono ancora le web series come realtà… che ognuno faccia il suo con i social network che preferisce!
CS: Cosa pensi allora di altri progetti italiani gratuiti via web, per esempio Freaks? Ne conosci altri degni di segnalazione?
IS: Posso solo ringraziare Freaks per aver aperto il grande dibattito sulle web series in Italia, i loro risultati in termini di visualizzazioni sono stupefacenti e hanno incoraggiato tanti videomaker come me a cimentarsi con la narrazione seriale via web. ByMySide di Flavio Parenti è un buon esempio di come un film indipendente abbia trovato nella dimensione seriale online un pubblico entusiasta che probabilmente attraverso una normale distribuzione in sala avrebbe avuto difficoltà a raggiungere, data la totale mancanza di compromessi commerciali dell’opera. Young Love Hurts di Naicol Zais (che ha anche lavorato su Stuck) è un altro valido esempio di coraggio e autodeterminazione registica (che detto così suona serio, ma la serie è molto divertente). Ho grande ammirazione dell’amore genuino che Naicol ha per i suoi personaggi.
CS: Il rischio di non rientrare economicamente non è comunque troppo alto? Se un progetto non viene seguito, i banner pubblicitari costituiscono un’entrata un po’ troppo esigua, no? Serve necessariamente trovare sponsor e partnership?
IS: Non so ancora quanto si guadagni da youtube, ma credo che si tratti di pochi spiccioli finché non si possono garantire milioni di visite. L’obiettivo è quindi quello di trovare sponsorship generiche o che facciano del product placement. Se si è bravi questo non danneggia necessariamente una web series. Che importa cosa veste David Rea? Sono elementi che possono diventare attraenti in futuro senza danneggiare la narrazione.
CS: Tre episodi su un totale di dieci (e mezzo) per Stuck. Com’è stata finora l’esperienza? Di quali aspetti sei completamente soddisfatto e quali altri invece pensi di aggiustare in corso d’opera?
IS: Ogni episodio di Stuck è un po’ diverso dagli altri, quindi ne vedrete di assestamenti! Io sono enormemente soddisfatto di Stuck, davvero non credo si potesse fare di meglio coi nostri mezzi, il lavoro di tutta la troupe è stato encomiabile e il cast è strepitoso.
CS: Hai una parola d’incoraggiamento o qualche consiglio da dare ai giovani creativi là fuori?
IS:Non mettetevi maschere quando scrivete, tenete aperte le vostre ferite, ridetene se volete, fatevi a pezzi e dateli in pasto al prossimo.
Non abbiate paura, non scrivete cose che non potete realizzare da soli o con i vostri migliori amici, non abbiate paura di proporre un progetto a un attore che amate. Prendetevi tutto, che la vita è una sola probabilmente, e se non lo è la possibilità di reincarnarsi in un’epoca in cui si faranno ancora web series è davvero remota.
Ringraziamo Ivan per la disponibilità e la cortesia (e, a titolo personale da revisore, la velocità di risposta e la qualità del testo 😀 Si vede che è un bravo scrittore, ndR), facciamo i migliori auguri a lui e a Stuck, e vi invitiamo a seguire la serie, oltre che sul suo canale Youtube, sul suo blog e sulla pagina Facebook.