Quando venni a sapere dell’uscita di un nuovo film tratto dal romanzo di Lev Tolstoj “Anna Karenina”, uno dei miei libri preferiti, ne fui molto felice. D’altronde, dopo averne visto, da brava maniaca, diverse versioni (statunitense, russa, italiana) non potevo certo perdermi questo nuovo tentativo di portare sullo schermo uno dei romanzi più famosi della letteratura mondiale.
La storia narra di Anna Karenina, donna di spicco dell’alta società pietroburghese, sposata e con figlio, la cui vita viene stravolta dall’amore per un ufficiale, il conte Vronskij. Altre storie, poi, si intrecceranno attorno a questo filo conduttore narrativo.
Il regista Joe Wright apre il film in modo insolito: ci troviamo infatti sul palcoscenico di un teatro; vi sono fondali dipinti, cambi di scena che avvengono durante la recitazione degli attori, macchine da presa che ruotano in modo vorticoso. L’atmosfera è vivace, quasi da musical. Una vera festa per gli occhi in fatto di colori, costumi e luci (e infatti sono questi gli aspetti che hanno conquistato gli Oscar).
Ebbene, non sono contraria alle interpretazioni personali, tutt’altro, ma mi piace che siano motivate. Non capisco il perché di questo taglio teatrale, di questa finzione ostentata. Una scelta che non aggiunge nulla e che oltretutto non viene neanche portata fino in fondo: il film, infatti, perde pian piano il suo aspetto teatrale e diventa sempre più “realistico”, con visione di esterni e ambienti reali. Insomma, sembra quasi un esercizio di stile fine a sé stesso, un gioco che avrei visto più adatto all’ironia di un Oscar Wilde che a un Tolstoj.
A questo punto non resta che una seconda scialuppa di salvataggio: gli interpreti. Ma anche qui andiamo a fondo.Continua a leggere…
Dave Grohl è la Musica incarnata.
Non vi posso stare a spiegare perché, ci vorrebbe troppo tempo: o siete d’accordo o non lo siete. Su Camminando Scalzi abbiamo comunque una nutrita documentazione con cui potrete passare diverso tempo, se non capite perché apro una recensione di un film con questa frase a effetto.
In questi anni bui e tetri siamo infestati di una musica disgustosa. Inutilmente rumorosa, vuota, cretina, inconcludente, raffazzonata, e potrei continuare. Il mezzo si è svenduto completamente attraverso la massificazione, per cui è ormai possibile per qualsiasi stronzo che non ha la più pallida idea di cosa sia una scala musicale realizzare una canzone in digitale e metterla in vendita su iTunes, dove altra gente ignorante come e più di lui ne comprerà un sacco di copie rendendolo ricco e famoso.
Viviamo nei tempi della “guerra del rumore“, una cosa che dovrebbe far rabbrividire ogni amante della buona musica degno di questo nome. In breve: dove una volta si cercava sempre più la purezza del suono, la sua vera anima, oggigiorno nel disco prodotto già a cazzo di cane in partenza con i metodi di cui sopra, si aggiunge ulteriormente del “rumore” di fondo per aumentare il volume, con lo scopo di far “suonare più forte” il disco in modo che risalti sugli altri “dischi concorrenti” e potenzialmente farlo vendere di più. Se questo non è un segno evidente dell’involuzione in cui l’umanità si sta affossando, non so cosa possa esserlo.
[stextbox id=”custom” big=”true”]Una nuova autrice su Camminando Scalzi.
L’articolo di oggi è scritto da Delia Milioni, italo-belga, romana d’adozione. Si occupa di comunicazione a 360°(ufficio stampa, progettazione, gestione contenuti on-line). Ha lavorato nei più disparati settori: dal pubblico al turismo, dallo sport al cinema. Inoltre ha un’associazione di donne che si occupa di educazione sostenibile per bambini e adulti.[/stextbox]
Ci sono Film che, a volte, si discostano dal classico impegno intellettuale autoreferenziale.
Ci sono film che, a volte, sono capaci di raccontare storie vere, drammatiche, ma non ti lasciano con la sensazione di aver ricevuto un pugno nello stomaco. A volte ci sono film come Il Sole Dentro, l’ultimo film di Paolo Bianchini, che uscirà nelle sale il 15 novembre. Con estrema delicatezza, il film racconta due viaggi che si sfiorano lungo un sentiero che unisce virtualmente l’Europa all’Africa. Il primo è quello compiuto Continua a leggere…
“Italy: love it or leave it”. Un dilemma frequente. Un dubbio che tanti italiani hanno cercato risolvere e su cui Gustav Hofer e Luca Ragazzi hanno realizzato un documentario che oggi sta facendo il giro del mondo.
Una storia che comincia con una lettera di sfratto dall’appartamento romano in cui Luca e Gustav convivono da sei anni. Un trasloco che apre un conflitto nella coppia, combattuta fra radicamenti inconsci e possibilità alternative. Da una parte Luca e il suo desiderio di continuare ad abitare nella città in cui è nato e cresciuto; dall’altra Gustav e il suo progetto di emigrare a Berlino, “dove gli affitti costano un terzo che a Roma”, eguagliando la scelta dei tanti amici che già hanno lasciato quel Paese in cui non riuscivano più a riconoscersi.
Un bivio che decidono di superare a bordo di una 500 che cambia colore, percorrendo la penisola da nord a sud, fra oscenità e luoghi comuni, fra cliché e paesaggi da cartolina, alla ricerca dell’agognata risposta richiamata dal titolo del film. Sei mesi di viaggio in 75 minuti, peregrinando fra le meraviglie e le vergogne del nostro Bel Paese, per mettere in luce le sue eterne contraddizioni e quell’infinità di motivi per cui vale la pena di andare o restare.
Partendo dai grandi marchi, Gustav e Luca cominciano con l’intervista a un’operaia della Fiat di Torino e proseguono con una visita all’ultima fabbrica italiana della moka Bialetti, che nell’aprile 2010 ha messo in mobilità i centoventi dipendenti dello stabilimento di Omegna (Piemonte) per chiudere e spostare l’intera produzione in un Paese dell’est europeo.
Parlando della rinomata cucina italiana l’inquadratura si sposta verso il fondatore di “Slow Food” Carlo Petrini e prosegue il cammino verso la Calabria di Rosarno, per registrare le drammatiche condizioni dei braccianti agricoli che per venticinque euro al giorno lavorano fino a dodici ore, raccogliendo le arance e i pomodori che poi finiscono sulle nostre tavole…
Fra scandali e “Ruby-gate” Luca e Gustav si ritrovano alla manifestazione “In mutande ma vivi”, tenutasi il 12 febbraio 2011 al Teatro Dal Verme di Milano e organizzata dal direttore del Foglio Giuliano Ferrara per ribattere agli attacchi contro l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.
Poi l’intervista a Lorella Zanardo, autrice del documentario “Il corpo delle donne”, e una piccola visita a Predappio, cittadina emiliana che ha dato ai natali Benito Mussolini e che oggi rappresenta la meta preferita dai vacanzieri fascisti.
La spedizione continua a Napoli, fra spazzatura e panorami da sogno, e poco dopo in Sicilia, tra la mafia descritta dalle commoventi parole di Ignazio Cutrò (imprenditore sotto protezione) e la cultura argomentata dalle forti sentenze di Andrea Camilleri, secondo cui “lasciare il proprio Paese per scelta equivale a disertare”.
Si procede con i dodici ecomostri di Giarre e l’ingegnoso progetto dell’Incompiuto Siciliano, per poi riattraversare il mare verso la Puglia di Vendola e di Padre Fedele, che delinea i pregi e i difetti dell’Italia attraverso la metafora: “Fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce”…
Una traversata attraverso i vizi e le virtù degli Italiani, con statistiche e immagini da sconforto, ma sempre accompagnate da straordinarie parole ed esperienze in grado di far tornare il sorriso anche sulla bocca dei più scettici pessimisti.
Incuriosito più che altro dalla performance di Michelle Williams – la dolce Jen di Dawson’s Creek e vedova del compianto Heath Ledger – sono andato a vedere Marilyn senza troppe aspettative… Simon Curtis è regista e produttore televisivo al suo esordio al cinema, così come lo sceneggiatore Adrian Hodges. Per una volta ho lasciato perdere i dubbi e mi sono affidato alla Williams e a Kenneth Branagh, che solitamente non scelgono i copioni a caso. Ho fatto bene.
Marilyn è prima di tutto un bel film inglese, per cui se non amate particolarmente i tratti caratteristici del cinema oltre manica pensateci bene prima di comprare il biglietto… Ma chiunque abbia apprezzato film come “Il discorso del re” o “The Queen” può entrare in sala fiducioso. Dico che è prima di tutto un film inglese perché non si tratta di un classico biopic di Marilyn Monroe: non si rimane su di lei tutto il tempo e non si racconta la storia della sua vita. Il film è basato sui diari di Colin Clark, un assistente alla regia de “Il principe e la ballerina” di e con Laurence Olivier (1957). Tale Clark ha frequentato in maniera piuttosto ravvicinata la donna che all’epoca rappresentava il concetto di bellezza e sensualità in tutto il mondo. Il film racconta proprio questa relazione, quindi si concentra su un periodo piuttosto breve della vita di Marilyn… E questa scelta si rivela vincente.
Marilyn dà per scontate un sacco di cose, pertanto chi voleva approfondire la sua conoscenza della famosa diva platinata dovrà ricorrere ad altri sistemi, ma la sceneggiatura ha un ottimo ritmo, buoni dialoghi, personaggi psicologicamente ben disegnati e quindi riesce a raccontare nel migliore dei modi una buona storia, in cui Marilyn Monroe è solamente uno dei personaggi. Pensate che nella prima metà del film la Williams compare solo in cinque o sei scene, privilegiando uno spaccato sulla produzione cinematografica che diverterà ed esalterà chi conosce questo mondo un po’ più da vicino.
La regia è corretta e trasparente, ben cosciente che non è lei il piatto forte del film, bensì la recitazione. Infatti troviamo un Branagh al massimo della forma (come lo non vedevamo da un bel pezzo, sinceramente) e soprattutto lei, Michelle Williams, che è semplicemente incredibile. Sono sempre un po’ restìo quando leggo i commenti esaltati dei critici di professione (che spesso sono pagati per parlare bene e basta), ma stavolta è tutto corretto: la Williams non è solo credibile, ma assolutamente convincente. È la classica parte che spinge la giuria degli Oscar a strapparsi vesti, mutande e capelli, quindi aspettiamoci pure l’agognata statuetta per la già due volte candidata (“I segreti di Brokeback mountain”, 2005 e “Blue Valentine”, 2010).
Attorno alle due colonne attoriali portanti girano Eddie Redmayne, che abbiamo visto nella mini serie de “I pilastri della terra”, Judi Dench, Toby Jones, Julia Ormund e una parte più modesta per la bella Emily “Hermione” Watson.
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Su Camminando Scalzi non è la prima volta che ci lamentiamo un po’ del cinema nostrano… Siamo un po’ scocciati, più che altro, dalla mancanza di idee e dalla freddezza delle realizzazioni. Per questo cerchiamo di tenerci (e tenervi) informati sulle novità più interessanti in questo campo, come abbiamo fatto tempo fa parlandovi di Vitrum e della sua forma di co-produzione.
Ma il “cinema” inteso come l’edificio fisico in cui si proiettano i film oggigiorno non è più l’unica via di uscita per il talento di creativi come Ivan Silvestrini, autore e regista di Stuck, che ha solo trent’anni ma un curriculum notevole. Stuck è infatti una serie web, ovvero un telefilm pubblicato su internet. Ovviamente l’idea non è nuova, ma l’abbiamo vista perfezionarsi con molto gusto, soprattutto negli ultimi anni, con esempi come “Freaks” (con l’attore Gugliemo Scilla, che ha iniziato proprio con filmati autoprodotti su youtube ed è recentemente approdato al cinema con “10 regole per fare innamorare”).
Ivan scrive un nuovo capitolo nella storia di queste produzioni raccontando le gesta di David Rea, “emotional trainer”, ovvero uno psicologo senza titolo e senza peli sulla lingua capace di “sbloccare” i problematici clienti che arrivano da lui… in modi non sempre molto etici.
Stuck è una commedia brillante, molto intelligente, briosa e colorata; lascia i giusti spazi all’intellettualità e all’emotività senza tralasciare l’ironia e qualche momento di comicità. È recitata molto bene, diretta con capacità e metodo e, cosa molto molto rara oggigiorno, ha un’ottima scrittura a sostenerla, basti vedere la puntata zero.
Ha anche un’altra particolarità: si apre al pubblico estero non mettendo i sottotitoli in inglese, bensì recitando direttamente in inglese. Una scelta senza dubbio interessante e nuova.
Prima di lasciarvi all’intervista vi reindirizzo verso la serie, se non l’avete ancora vista, che al momento ha all’attivo tre puntate più un prologo.
Camminando Scalzi: Praticamente tutte le altre interviste che ho letto rimarcano l’ispirazione/omaggio a Californication… Ma questa serie è stata effettivamente la fonte di ispirazione principale o ti sei basato invece su altro? Ivan Silvestrini: Mi piace Californication ma non mi ci sono ispirato direttamente. La verità è che la fonte d’ispirazione primaria è il mio lato più cinico e oscuro, che ho un grande bisogno di deridere.
CS: Qual è stata la progettazione di Stuck? Sei partito dal testo, sei stato ispirato dagli attori o che altro?
IS: Sono partito dal concept e dal fisic du role di Riccardo, poi ho cominciato a pensare quali personaggi servissero per esplorare al meglio le tematiche della serie. Avevo in mente degli attori con cui mi sarebbe piaciuto lavorare e sono felice che abbiano accettato tutti.
Ho scritto il pilota (che all’epoca comprendeva il prologo) e i primi riscontri erano sufficientemente incoraggianti da spingermi a scrivere il secondo episodio. Poi ho scritto il terzo e così via i primi sette episodi. A quel punto non sapevo bene dove andare, così sono partito per il mio viaggio di nozze e al ritorno, con l’aiuto di un grande story editor (Giovanni Masi), abbiamo ridefinito tutto e siamo andati avanti fino alla fine del decimo episodio.
CS: Al contrario di altre produzioni, che parlano italiano e scrivono i sottotitoli in inglese, Stuck parla inglese e obbliga gli italianofili a leggere i sottotitoli. Scelta particolare. Nata come? È un po’ una “selezione” sul nascere per tagliare fuori il pubblico italiano medio(cre), un incoraggiamento per far vedere la serie anche fuori dalla nostra nazione, un misto di entrambe o c’è dell’altro?
IS: C’è tutto questo, anche se io spero che il pubblico italiano vada oltre e si riveli meno medio(cre) di come dici.
Io non voglio fare una selezione artificiale del pubblico italiano, io spero che il pubblico italiano ci segua sempre più. Ne è perfettamente in grado.
C’è sicuramente la voglia di non precludersi un pubblico internazionale, ma soprattutto c’era la voglia di usare uno humor più glaciale che in italiano non avrebbe funzionato allo stesso modo. Provate a recitare le battute che trovate scritte nei sottotitoli, vedrete che non fanno lo stesso effetto in italiano. Quindi in definitiva è stata una scelta stilistica.
CS: Parlando degli attori: sono tutti molto bravi e hanno facce molto interessanti, che bucano lo schermo; ma oltre a questo, recitano in inglese con scioltezza, al contrario di tanti nostri “divi” che pure hanno lavorato oltreoceano. In che modo li hai cercati e selezionati? Quanto tempo ci hai messo?
IS: Riccardo c’è dalla nascita di Stuck, lui non mi ha mai chiesto di poter interpretare David Rea, ma più lo conoscevo più capivo che sarebbe stato perfetto per la parte.
Ivana (Lotito, ndR), Vincenzo (Alfieri), Valentina (Izumi, già vista in “Questa notte è ancora nostra” con Nicolas Vaporidis) sono attori che stimo moltissimo da anni e trovandomi nella condizione di non dover rispondere delle mie scelte a nessuno, li ho coinvolti tutti.
Gaia (Scodellaro) l’ho conosciuta per l’occasione ed è stata una vera sorpresa e così Stefano Masciolini, un grande.
Mark (Lawrence) è un meraviglioso attore inglese che faceva il cameriere a Frascati.
Metà di loro sono madrelingua, metà si sono impegnati moltissimo. E a loro si sono aggiunti altri splendidi protagonisti di puntata come Giulio Pampiglione e altri che arriveranno a sorpresa.
Gli accenti sono variegati, come d’altronde lo sono in America e in qualsiasi paese dove la cultura del meltin’ pot sia rappresentata nelle produzioni culturali.
Alcuni di loro hanno aderito alla causa fin dalla sceneggiatura dei primi due episodi, altri li abbiamo trovati in corsa. La produzione è durata moltissimo, 20 giorni di riprese senza contare il prologo, spalmati tra settembre 2011 e maggio 2012.
CS: Ecco, veniamo alla produzione concreta degli episodi: c’è qualche sponsor o è un progetto del tutto autofinanziato?
IS: La prima stagione di Stuck è totalmente indipendente, l’obiettivo è generare un pubblico in modo che gli sponsor possano essere interessati a finanziare la seconda stagione.
CS: Con cosa giri, videocamera o fotocamera?
IS: Io personalmente uso una fotocamera Canon 60d con ottica Nikon anni ’70 di mio padre.
Paola Rotasso usa una Canon 5d; Giancarlo Spinelli usa una Canon 550d; Nicola Zasa usa una Canon 5d.
CS: Quanti giorni di riprese servono per realizzare un episodio?
IS: 2,2 (due virgola due).
CS: Da quanti elementi è composta la troupe?
IS: Gli Stuckanovisti sono stati la migliore troupe che una produzione simile potesse desiderare/vantare. È stata una troupe variabile nel numero e nei nominativi ma mediamente era composta da me, gli attori, un fonico, una truccatrice, una costumista, da una a quattro persone nel reparto regia, mia moglie come producer, mia suocera come catering, mio padre come tuttofare e Ramon il gatto.
Ogni tanto persino il montatore ci veniva a trovare sul set.
CS: Parlaci della realizzazione di musica e colonna sonora.
IS: Alessandro Santucci e Valentino Orciuolo della band DIUESSE hanno accettato la sfida e stanno componendo mano a mano le musiche dei vari episodi. Di solito cerchiamo di vederci con un premontato e discutiamo dei punti da musicare, poi loro con o senza di me si chiudono in sala prove e sfornano cose meravigliose. A quel punto di solito mi confronto con Alberto Masi (il montatore) e devo dire loro “questo è troppo bello, non fa ridere”. Mi tocca essere impopolare, ma che ci posso fare, Stuck ha dei principi estetici (anche) musicali molto precisi. Comunque sono fierissimo del loro lavoro e sono felicissimo che Stuck abbia una colonna sonora originale. Non vedo l’ora che esca il cd.
CS: Allarghiamoci ora all’argomento “Cinema”… Cosa pensi del panorama cinematografico italiano predominante?
IS: Pochi film italiani sono attraenti abbastanza da portarmi al cinema, cerco comunque di andarci e di solito trovo grande maestria, ma poco coraggio e originalità… specialmente nelle sceneggiature.
CS: E le produzioni indipendenti?
IS: È un po’ che non mi ci imbatto; io ho provato invano a realizzare film indipendenti, ma oggi non lo consiglierei a nessun filmmaker. Il rischio che un film indipendente non venga distribuito in questo panorama di crisi è altissimo. Un film richiede uno sforzo economico comunque sproporzionato rispetto alle reali prospettive di ritorno. Io credo che ogni filmmaker esordiente sia (o dovrebbe essere) mosso principalmente dal desiderio di esprimersi e di raccontare una storia… per questo ho scelto di fare una web series, per superare i limiti del cortometraggio autoconclusivo e creare qualcosa che le persone potranno vedere nel tempo, qualcosa che non scompaia dopo un paio di settimane in quattro sale.
CS: Credi che serial o film via web possano sbloccare un po’ la stitichezza artistica che stiamo vivendo nel nostro paese?
IS: Credo che lo stiano facendo. L’ondata di web series italiane di qualità sempre maggiore che sta invadendo la rete è l’endemica manifestazione di un desiderio diffuso di partecipazione culturale a un mondo, quello del cinema e della tv, sempre più chiuso e impenetrabile. Il mercato si è ristretto: chi ha fatto in tempo a entrarci ora si tiene stretto il proprio posto e questo è naturale. Io spero che le web series diventino una realtà parallela e importante, spero che generino profitti in modo da rappresentare un mercato più libero e indipendente per la creatività della mia generazione e di quelle che verranno. Per questo è importante, è fondamentale che la gente si senta responsabilizzata e che condivida come può la creatività su youtube. Bisogna condividere e aiutare a crescere chi crea contenuti per il web; bisogna condividere e insegnare a condividere. Molte persone non conoscono ancora le web series come realtà… che ognuno faccia il suo con i social network che preferisce!
CS: Cosa pensi allora di altri progetti italiani gratuiti via web, per esempio Freaks? Ne conosci altri degni di segnalazione?
IS: Posso solo ringraziare Freaks per aver aperto il grande dibattito sulle web series in Italia, i loro risultati in termini di visualizzazioni sono stupefacenti e hanno incoraggiato tanti videomaker come me a cimentarsi con la narrazione seriale via web. ByMySide di Flavio Parenti è un buon esempio di come un film indipendente abbia trovato nella dimensione seriale online un pubblico entusiasta che probabilmente attraverso una normale distribuzione in sala avrebbe avuto difficoltà a raggiungere, data la totale mancanza di compromessi commerciali dell’opera. Young Love Hurts di Naicol Zais (che ha anche lavorato su Stuck) è un altro valido esempio di coraggio e autodeterminazione registica (che detto così suona serio, ma la serie è molto divertente). Ho grande ammirazione dell’amore genuino che Naicol ha per i suoi personaggi.
CS: Il rischio di non rientrare economicamente non è comunque troppo alto? Se un progetto non viene seguito, i banner pubblicitari costituiscono un’entrata un po’ troppo esigua, no? Serve necessariamente trovare sponsor e partnership?
IS: Non so ancora quanto si guadagni da youtube, ma credo che si tratti di pochi spiccioli finché non si possono garantire milioni di visite. L’obiettivo è quindi quello di trovare sponsorship generiche o che facciano del product placement. Se si è bravi questo non danneggia necessariamente una web series. Che importa cosa veste David Rea? Sono elementi che possono diventare attraenti in futuro senza danneggiare la narrazione.
CS: Tre episodi su un totale di dieci (e mezzo) per Stuck. Com’è stata finora l’esperienza? Di quali aspetti sei completamente soddisfatto e quali altri invece pensi di aggiustare in corso d’opera?
IS: Ogni episodio di Stuck è un po’ diverso dagli altri, quindi ne vedrete di assestamenti! Io sono enormemente soddisfatto di Stuck, davvero non credo si potesse fare di meglio coi nostri mezzi, il lavoro di tutta la troupe è stato encomiabile e il cast è strepitoso.
CS: Hai una parola d’incoraggiamento o qualche consiglio da dare ai giovani creativi là fuori?
IS:Non mettetevi maschere quando scrivete, tenete aperte le vostre ferite, ridetene se volete, fatevi a pezzi e dateli in pasto al prossimo.
Non abbiate paura, non scrivete cose che non potete realizzare da soli o con i vostri migliori amici, non abbiate paura di proporre un progetto a un attore che amate. Prendetevi tutto, che la vita è una sola probabilmente, e se non lo è la possibilità di reincarnarsi in un’epoca in cui si faranno ancora web series è davvero remota.
Ringraziamo Ivan per la disponibilità e la cortesia (e, a titolo personale da revisore, la velocità di risposta e la qualità del testo 😀 Si vede che è un bravo scrittore, ndR), facciamo i migliori auguri a lui e a Stuck, e vi invitiamo a seguire la serie, oltre che sul suo canale Youtube, sul suo blog e sulla pagina Facebook.
Chi è Sergej Parajanov? Lo conoscete? Quando ho fatto questa domanda in giro molti mi hanno risposto di no. Confesso che anche io, solo pochi mesi fa, potevo essere contata fra coloro che non ne avevano mai sentito parlare. Eppure è uno dei più grandi cineasti del secolo scorso. Tenterò di spiegare il perché in questo articolo.
Parajanov, nato a Tiblisi nel 1924, fu un regista georgiano di origine armena. Le sue opere furono considerate dei veri capolavori da registi e artisti come Fellini, Antonioni, Tarkovsky, Truffaut, Bertolucci e molti altri. La sua vita artistica fu costellata da soddisfazioni ma soprattutto da enormi difficoltà. Per ben tre volte Parajanov, inviso al regime sovietico, fu imprigionato. Non gli furono risparmiati neanche quattro anni di gulag, che andarono a pesare profondamente sulla sua salute.
Le accuse furono di corruzione, bisessualità, pornografia, ma anche, probabilmente, “colpevole” fu lo stile del suo cinema: un immaginario surreale, onirico e arcaico che sfuggiva alle maglie dell’estetica del socialismo realista, allora l’unico stile permesso.
Parajanov negò i suoi lavori precedenti al 1954 definendoli “spazzatura”, poiché, probabilmente, ancora legati all’estetica di regime. Quando finalmente poté mettere piene mani a un’opera, con in mente “L’infanzia di Ivan” di Tarkovsky, creò il suo primo capolavoro: “Shadows of our forgotten ancestors”. Il film ricevette il plauso della critica sia sovietica che europea.
Dopo l’esperienza del gulag Parajanov ritornò al cinema. Pur sapendo che sarebbe probabilmente andato incontro a problemi, diede vita a quella che viene da molti considerata la sua perla, ovvero il film “Sayat Nova” (in seguito intitolato “Il colore del melograno”), un film sulla vita dell’omonimo poeta armeno vissuto nel XVIII° secolo. Considerato un film non gradito per la portata delle sue enigmatiche immagini, ( è a mio parere il suo film più difficile) sarà seguito da un ennesimo arresto, il terzo. Per lungo tempo a venire Parajanov continuerà ad avere problemi nella produzione delle sue opere. Durante la prigionia riversò il suo estro creativo nel collage, nell’arte figurativa e nella creazione di vestiti e di particolari bambole.
Fu solo alla metà degli anni 80, quando la morsa del potere si allentò, che Parajanov poté tornare a creare in libertà. A questo periodo risalgono altre sue splendide opere come “Ashik Kerib” e “La leggenda della fortezza di Suram”. L’ultima sua opera “The confession”, rimarrà incompiuta.
Un immagine tratta da "La leggenda della fortezza di Suram"
Il cinema di Parajanov è, a mio parere, pura poesia. Non aspettatevi di vedere film dal linguaggio assolutamente logico, con effetti speciali strabilianti e fitti dialoghi. Questi ultimi sono spesso essenziali e la recitazione è in alcune parti più simile alla pantomima .Il tutto dà spazio non solo alla pura immagine, ma anche a una colonna sonora che dire suggestiva è dir poco. L’ambientazione contribuisce alla resa onirica dei film: si tratta di zone del mondo alla maggior parte di noi sconosciute: Ukraina, Georgia, Armenia, Azerbaijan. Vi ritroverete in luoghi lontani dal nostro mondo, simili a quelli che si immaginano nell’infanzia. Situazioni tanto fiabesche da apparire paradossalmente più reali della nostra stessa realtà. Come un mago, questo artista compone le sue scene con una purezza, con un coraggio e con una forza che mi hanno personalmente emozionato.
Nonostante ciò che ho scritto, non aspettatevi un cinema elitario, incomprensibile, noioso. Vi è del mistero, ma anche senza essere risolto esso si consegna intatto alla mente dello spettatore. Credo che i film di Parajanov siano capaci di giungere a chiunque, come la bellezza di un fiore.
Per essere più chiara, vorrei prendere ad esempio i film che maggiormente ho apprezzato: “La leggenda della fortezza di Suram” e “Ashik Kerib”. Caratteristica di questi film è la loro divisione in quadri, ciascuno con un titolo seguito da un’inquadratura fissa, davanti alla quale viene composta una natura morta recante oggetti simbolici. E’ il grande utilizzo di oggetti simbolici, colori e metafore capaci di trascendere l’etnicità che contribuisce a rendere il cinema di Parajanov una poesia fatta immagine. L’onnipresente melograno, simbolo di vita, con il suo colore rosso e i suoi chicchi vermigli, può sanguinare su un lenzuolo bianco e ricordarci una ferita mortale. Le colombe sono presenti ovunque vi siano amanti, oppure si trasformano in anime, volando via dalla tomba di un musicista. Il poeta, come un derviscio, si spoglia del suo manto nero per rivelare una veste candida. Vi sono anche immagini più enigmatiche, che è bello continuare a ripercorrere e interrogare dopo aver visto il film. Gli effetti speciali sono affidati a soluzioni che sembrano provenire dal teatro tradizionale: la testa decapitata, in “Ashik Kerib”, è una zucca dalla quale esce una sciarpa di seta rossa, a imitare il sangue. Il passare del tempo per la protagonista de “Leggenda della fortezza di Suram” è dato dal ciondolare della ragazza a mo ’di metronomo, e poi suo dal nascondersi alla nostra vista, per dare la scena così a una sé stessa più matura. La recitazione non è sempre affidata a professionisti: il protagonista di Ashik Kerib era un malfattore, vicino di casa del regista.
Un immagine tratta da "La leggenda della fortezza di Suram"
Tra le cose che più mi hanno colpito dei film di Parajanov vi è il suo saper cogliere qualcosa di ancestrale e eterno. Noi, uomini e donne del duemila, abbiamo difficoltà a comprendere un certo tipo tipo di narrazione, vogliamo che tutto abbia un senso, che tutto rientri in una struttura. Parajanov ci riporta a una visione magica della realtà, mostrandoci che, tutto sommato, amiamo ancora questo modo di raccontare, così come amiamo ancora la bellezza. Parajanov è uno di quei rari artisti che riescono ad assicurarti che esiste un luogo bello.
Per quanto mi riguarda, consiglierei a tutti di vedere almeno uno dei film di Parajanov, specialmente a chi produce opere: che vi occupiate di pittura, scultura, cinema, sartoria, poesia o letteratura, credo che non ve ne pentirete. Alla sua morte, avvenuta nel 1990 all’età di 66 anni, un telegramma firmato da alcuni fra i più grandi registi del momento, fra i quali quelli citati all’inizio di questo articolo, recitava così: “Con la morte di Sergej Parajanov il cinema ha perso uno dei suoi maghi. La fantasia di Parajanov affascinerà e porterà gioia al mondo per sempre”.
Mi piace rispondere e concludere con una delle frasi che appaiono nel film “Sayat Nova”:
J. Edgar Hoover ha avuto un ruolo talmente primario nella nascita di quella che oggi chiamiamo FBI (Federal Bureau of Investigation, ovvero la polizia federale degli Stati Uniti d’America), che comunemente si dice ne sia stato il fondatore. Ma soprattutto è conosciuto come l’uomo che ha tenuto per le palle l’America per più di quarant’anni, utilizzando informazioni estremamente confidenziali per manipolare a suo vantaggio – o a vantaggio di ciò che egli credeva di dover difendere (la sicurezza dei cittadini) – i personaggi più potenti del suo tempo, da Roosevelt ai Kennedy fino a Nixon.
Il nuovo film di Clint Eastwood è un biopic su questo personaggio, interpretato da Leonardo Di Caprio, e si intitola semplicemente “J. Edgar”.
Ad affiancare Di Caprio un cast veramente soddisfacente, a partire da Naomi Watts – che purtroppo non abbiamo avuto il piacere di vedere molto sul grande schermo, nell’ultimo paio d’anni – per passare ad Armie Hammer, “i gemelli” di The Social Network, nuova scoperta di Fincher che per Eastwood ha fatto veramente un lavoro notevole. La direzione degli attori è uno dei tanti fiori all’occhiello di nonno Eastwood, e quindi anche l’ultima delle comparse appare come il migliore degli attori, ma oltre allo stupendo trio di cui sopra, che funziona come il più perfetto dei meccanismi, non si può non citare l’immensa Judi Dench, nella parte della madre di Hoover.
J. Edgar è il biopic perfetto. Se mai voleste fare una biografia di qualcuno, con qualsiasi media, andate al cinema con un bloc notes e una penna, perché la sceneggiatura è dell’astro nascente Dustin Lance Black, premio Oscar 2009 per la miglior sceneggiatura originale con “Milk”. La struttura narrativa è esattamente quella che deve essere: Black ed Eastwood ci raccontano la storia del personaggio fin dall’inizio della sua carriera, mostrandoci la nascita di quello che io paragono a un Batman della vita reale… Un uomo ciecamente ligio a ferrei principi morali, estremamente pignolo e rigido, determinato oltre ogni limite a ottenere il suo scopo. E contemporaneamente, mosso probabilmente da un qualche tipo di squilibrio mentale. La differenza che passa tra Batman e Joker è lo schieramento. Direi che è stato un enorme bene che un uomo come J. Edgar Hoover avesse come scopo la protezione dei cittadini e il superamento in mezzi, abilità e astuzia dei criminali.
Sceneggiatore e regista ci raccontano tutto questo addentrandosi senza paura nei risvolti psicologici più profondi del personaggio, non solo snocciolandoci la pur interessante cronologia dei fatti. Il rapporto morboso con la madre, l’insicurezza con le donne, il rapporto con il potere e chi lo esercitava, l’omosessualità latente… Forse su questo punto abbiamo gli unici eccessi di una scrittura altrimenti perfettamente distribuita. Mentre non abbiamo dati obiettivi sulle preferenze sessuali di Hoover, Black romanza invece un battibecco tra checche (passatemi il termine, credo che renda l’idea) che sinceramente ho trovato un po’ stonato nel complesso del film. Validissimo e plausibilissimo invece come tratta il resto del rapporto tra Hoover e Clyde Tolson, un’amicizia solenne e fraterna, che sfocia tranquillamente ma non ambiguamente nell’amore reciproco.
Non c’è nulla di particolare da segnalare riguardo al resto… Parliamo di Clint Eastwood, ogni reparto raggiunge standard altissimi: il makeup degli artisti invecchiati è stupefacente; la ricreazione scenografica e stilistica del periodo storico è ottima; la colonna sonora assolutamente non invasiva, anzi forse anche troppo; il montaggio brillante, con delle idee davvero geniali sui raccordi ai flashback. Come sempre, Eastwood dirige la sua troupe riuscendo a permeare ogni singolo fotogramma e al contempo facendo dimenticare allo spettatore che sta vedendo un film. Pura maestria, insomma.
Il film rimane comunque un biopic, con tutto ciò che ne consegue: per quanto ben scritto, potreste trovare parti più noiose di altre, ad esempio, e la lunghezza non aiuta (137 minuti). Se insomma non siete minimamente interessati al personaggi di Hoover e/o al periodo storico, potreste considerare di aspettarlo in dvd o sul satellite. Certo che non se non si finanziano i film belli…
Per quelli che al contrario, come me, sono innamorati degli anni ’30 – ’40 e da personaggi come J. Edgar Hoover, vi consiglio una playlist per approfondire lo zeitgeist di quel periodo. Da vedere in quest’ordine:
– “Nemico Pubblico“, di Michael Mann, 2009. Con Johnny Depp nella parte di John Dillinger.
– “J. Edgar“, di Clint Eastwood, 2011. DiCaprio nella parte di J. Edgar Hoover.
– “Frost/Nixon“, di Ron Howard, 2008. La storia della famosa intervista rivelatoria a Richard Nixon (Frank Langella).
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“Terraferma” è il nuovo film del regista di origini siciliane Emanuele Crialese, in concorso alla sessantottesima Mostra internazionale del cinema di Venezia, che si è appena conclusa. Il film ha ottenuto un ottimo riscontro, e gli è stato attribuito il Premio della giuria. Il mare può separare e isolare mondi e persone, ma anche unirli e trasformarli: è questo il tema principale del suo lavoro; torna ad ispirare Crialese, il mare, dopo “Respiro” e “Nuovo mondo”, altri due film molto applauditi.
La prima inquadratura di Terraferma è proprio dedicata al mare, scandagliato nelle sue profondità, di cui sembra di sentire il respiro. Altre ne seguiranno ancora, nel prosieguo del film, a scandire le fasi del racconto. La storia attinge dalla cronaca degli ultimi anni: su una piccola isola siciliana, che ricorda Lampedusa ma in realtà si tratta di Linosa, sbarcano le precarie imbarcazioni dei migranti. Gli abitanti, lacerati dalle contraddizioni della modernità, devono affrontare questa nuova realtà. C’è chi continua ad obbedire, come ha sempre fatto, alla legge del mare, quella che impone di aiutare chiunque sia in pericolo e di riportarlo a terra; sono perlopiù gli anziani pescatori, fedeli alla loro identità, anche se vivono in maniera sempre più difficile la modernità e non riescono più a vivere del loro lavoro. Altri temono che gli sbarchi possano compromettere l’immagine dell’isola, affacciatasi ad un prospero futuro di sfruttamento turistico, nel quale intravedono l’unica possibilità di guadagni consistenti.
Lo Stato impone la sua presenza vietando agli abitanti di aiutare i migranti, sequestra le barche dei pescatori che li hanno presi a bordo; proprio la rappresentazione del ruolo delle forze armate e quindi dello Stato, in questo film, è l’elemento che ha suscitato alcune perplessità; molti hanno rilevato una eccessiva accentuazione dello scontro tra “buoni e cattivi”, e una lettura troppo “politicamente corretta” delle drammatiche vicende legate all’emigrazione. Forse la presenza dei rappresentanti dello Stato costituisce quasi una necessità narrativa all’interno della storia, perché mette in moto la vicenda. D’altronde il regista ha dichiarato di non aver voluto fare un film “a tesi”, e di aver scelto come pubblico ideale “un bambino di sette anni”. Dunque se di film politico si può parlare, è a proposito delle riflessioni etiche che induce nello spettatore, aprendo uno sguardo profondo su temi quali la convivenza, la contaminazione e condivisione. Esemplare a tal proposito la scena notturna dell’”assalto” dei poveri migranti sfiniti all’imbarcazione di Filippo, il giovane protagonista. Una scena che difficilmente, a mio avviso, gli spettatori potranno dimenticare.
Nel film, incentrato sulle vicende di una piccola famiglia, è molto importante, tra i protagonisti, proprio il ruolo di Filippo, un ragazzo di vent’anni che ha perso il padre, scomparso in mare. Filippo è molto legato al nonno Ernesto, con cui lavora sul peschereccio di famiglia; è lui a vivere in prima persona le problematiche connesse all’accoglienza degli stranieri che vengono dal mare, e si rivela da subito come un eroe positivo, anche se non riuscirà sempre a salvare tutti gli uomini alla deriva. Altro personaggio chiave del film è Giulietta, la mamma di Filippo, divisa tra l’attaccamento alle radici e le esigenze di cambiamento e di trasformazione. Il suo personaggio si muove tra un’iniziale ostilità nei confronti della famiglia di migranti salvata dal nonno e una graduale apertura nei loro confronti. Di fronte allo sguardo di Timnit, la donna etiope che qui recita raccontando la sua storia vera di migrante, Giulietta scioglie i nodi della paura e della chiusura. Queste due donne che si guardano negli occhi ed aprono il loro cuore sono un segno di speranza, e tracciano la via di un’”umanità” nuova.
Il mondo del cinema è un mondo duro: difficile entrarci, difficile rimanerci, difficile tirarci fuori la pagnotta. Le stelle di Hollywood, le major e la notte degli Oscar hanno costruito negli anni un immaginario collettivo piuttosto lontano dalla realtà comune di chi lavora nel campo. Un’analisi molto più cruda e veritiera la si può riscontrare nel serial (e recentemente film, recensito dalla nostra Erika Farris) Boris, che infatti è molto apprezzato dagli addetti ai lavori.
Se un autore, dopo anni di gavetta e rospi ingoiati, cerca di realizzare il suo primo progetto importante, si trova davanti a porte chiuse in faccia, promesse di telefonate mai mantenute, “graduatorie” soffiategli dal figlio del produttore, per non parlare di cose più losche, che tralascio per non divagare.
Marco Cei e Andrea Bruno Savelli
Questo mondo lo conosce bene Marco Cei, che lavora nel campo della produzione cinematografica dal 2000, è docente della scuola di cinema Anna Magnani di Prato, ed è anche scrittore, sceneggiatore, attore, regista e produttore.
Dopo aver lavorato sul progetto per anni, Marco va a bussare alle porte delle grandi case di produzione italiane, inutilmente.
Un autore che si ritrova in questa situazione, solitamente ha solo due alternative: trovare i soldi in qualche modo – autoproducendosi se è ricco, raccattando qualcosa qua, qualcosa là se non lo è – oppure rinunciare e tornare alle agenzie di lavoro interinale.
Marco invece pensa a una terza alternativa: il sistema “the coproducers“.
Riassumendo, con questo sistema tutta la troupe e il cast lavorano inizialmente in modo gratuito, ma viene loro riconosciuta una percentuale di proprietà del film, stabilita secondo diversi parametri. A film finito, tutto l’incasso viene suddiviso tra i membri con le relative percentuali. Una sorta di cooperativa cinematografica, insomma.
Villa Caruso
La differenza con la “macchina” cinematografica classica, ovunque nel mondo, è che il produttore paga un tot gli attori, un tot la troupe, e il contratto è risolto. Se poi il film incassa una quantità spropositata di denaro, tutto il surplus rimane nelle casse della produzione. L’esempio che cito sempre è quello di Star Wars, il film che ha fatto la fortuna di George Lucas: se fosse stato fatto con il sistema co-producers, Lucas non sarebbe l’unico miliardario oggi, bensì tutto il cast e la troupe del film, perché ogni volta che il film avesse guadagnato dei soldi, sia pure in concorsi o a distanza di trent’anni, quei soldi sarebbero stati sempre suddivisi secondo le percentuali stabilite.
Naturalmente, ci sono i lati – non negativi – ma rischiosi. Si tratta comunque di una scommessa: il successo di un film non è sempre prevedibile. Ma senz’altro questa formula carica responsabilità su tutti coloro che ci lavorano, spronandoli a fare un lavoro al meglio delle loro possibilità, in quanto questo si ripercuoterà direttamente sul loro guadagno.
Questo sistema è sempre più utilizzato, proprio perché le grandi produzioni cinematografiche sono circoli estremamente chiusi ed elitari. Il contratto di coproduzione o sue varianti sono quelli più utilizzati dalle produzioni indipendenti, e non solo in Italia: parlando con Christian Bachini (ve lo ricordate? Lo abbiamo intervistato tempo fa), star dei film d’azione tutta italiana, in ascesa in Cina, ho scoperto che anche lì questo è il sistema che va per la maggiore, perché è quello che permette di far partire la produzione praticamente subito e senza troppe preoccupazioni.
Carlo Monni
Il film di Marco Cei si chiama Vitrum – riverberi nello specchio, e vede un cast di talentuosi attori – purtroppo poco noti al pubblico (per ora, eheheh…) – affiancati da una vera star del cinema toscano: Carlo Monni.
Le spese vive del film sono state coperte dallo stesso regista e dalla casa di produzione indipendente Diogene, di cui uno dei membri, Andrea Bruno Savelli, è anche uno dei protagonisti del film.
Vitrum è un thriller con venature horror, ambientato quasi completamente in una suggestiva e antica villa, appartenuta per anni al famoso tenore Enrico Caruso.
Il giardino interno
Le riprese del film cominceranno il 5 settembre, e sono previste cinque settimane di riprese.
Vi invito a seguire il blog ufficiale del film e la pagina fan su facebook, dove potete già trovare l’elenco del cast e della troupe, e dove potrete seguire in tempo reale la produzione del film, con foto e commenti postati (possibilmente) ogni giorno. Diffondete!
PS: l’autore dell’articolo, oltre a essere il revisore malvagio pagato in carne umana di Camminando Scalzi, incidentalmente è anche l’aiuto regista di Vitrum. Se noterete più refusi del normale sulle pagine di CS, nel prossimo mese e mezzo, saprete perché. 😀 (grazie per la fiducia ndGriso)