“Non ho mai più avuto amici come quelli che avevo a 12 anni. Gesù, ma chi li ha?”
Quanti secoli fa abbiamo avuto dodici anni? Chi si ricorda più di quell’età preistorica, quando ancora le ragazze (e i ragazzi!) non erano la cosa più importante, eppure in qualche modo già ci si stava misurando con il mondo? Stand by me di Rob Reiner è un viaggio a ritroso verso quell’età, la memoria di una lunga, avventurosa camminata di quattro dodicenni, altrettanti Huckleberry Finn, per due giorni di fine estate del 1959.
Gordie, Chris, Vern e Teddy vogliono trovare il cadavere di un ragazzo travolto da un treno da qualche parte lungo un fiume, e lo vogliono fare anticipando la polizia.
L’avventura di quella estate lontana è narrata in terza persona proprio da uno di loro, Gordie Lachance, ormai adulto e scrittore affermato (Richard Dreyfuss). Proprio la notizia, letta su un quotidiano, della tragica morte di Chris (R. Phoenix), suo amico d’infanzia, lo riporta al ricordo di quella vacanza estiva che segnò la fine della fanciullezza per entrambi.
Ognuno dei quattro ragazzi ha problemi familiari più o meno gravi, e vive le dolorose contraddizioni dell’età con atteggiamenti anticonformisti simili a quelli del giovane Holden di Salinger. Per ognuno di loro è vitale trovare un nuovo punto di riferimento, che non sia più solo la famiglia. Tra loro nasce quella complicità eccezionale, costruita sulla sincerità spietata, cinica fino alla crudeltà. Forse il solo momento nella vita in cui si è veramente liberi di essere sé stessi, nel contempo schiavi dell’impellente bisogno di ricercare e sviluppare una propria identità consapevole e capace di interagire con la realtà esterna.
Il viaggio del film risulta un vero e proprio rito d’iniziazione, costituito appunto da prove da superare per crescere: la sfida del mostro (il cane Chopper) per scoprire la differenza tra mito e realtà; il rischio della morte e il brivido della sfida (il treno sul ponte); la paura del buio (la notte accampati nel bosco); il rapporto con il proprio corpo e la resistenza al dolore fisico (le sanguisughe); il coraggio di affrontare ragazzi più grandi, la banda di Asso (K. Sutherland), bulletti solo arroganza e niente cervello.
I quattro amici condividono ogni difficoltà e ogni scoperta del loro breve viaggio, affrontando i problemi di ognuno con intensi momenti di confidenza reciproca. E superano gli ostacoli uniti dalla convinzione che il pericolo, e le sfide, devono essere affrontate. È l’amicizia a essere continuamente focalizzata, perché a quell’età, come dice l’autore, è un sentimento totale e puro.
Una delle scene memorabili è il magico incontro all’alba tra Gordie e il cerbiatto, momento poeticamente incantevole che il ragazzo conserverà segreto nel suo cuore. Non lo racconterà agli amici perché: “Le cose più importanti sono le più difficili da dire“.
Perché ognuno ha un ricordo, e chi è fortunato più d’uno, che conserverà sempre: che siano le partite a nascondino intorno al quartiere, i pattini rossi su cui vi spingevano, o i giri in bici sotto il bollente sole d’agosto. Chissà cosa daremmo per rivivere uno di quei pomeriggi che sembravano infiniti.
Da un romanzo del re dell’orrore, Stephen King, un film fine e delicato, ricco di acute osservazioni psicologiche sull’amicizia e le incomprensioni familiari, capace di riportare il difficile addio all’adolescenza.
È rimasto qualcosa in noi di quei bambini? C’è traccia di quel bambino sperduto? C’è traccia di quel fanciullino che avrebbe dato la mano per proteggere l’amico?
“Stand by me” centra l’obiettivo, raccontandoci una storia commovente in un crescendo emozionale che, a tratti, sfiora la poesia. Un miracoloso equilibrio della memoria tra sentimento e avventura. Sarebbe piaciuto a Truffaut.
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