La Pirateria e il valore della Conoscenza

[stextbox id=”custom” big=”true”]Torna a scrivere per Camminando Scalzi  Giuseppe Pirò, ventottenne laureato in Ingegneria delle Telecomunicazione già autore di un interessante articolo riguardante la tecnologia. Giuseppe (qui il link al suo profilo twitter) è autore della pagina facebook Prospettive Telematiche nella quale condivide le news tecnologiche provenienti dal web. Buona lettura![/stextbox]

Non si parlerà qui ancora una volta della necessità di trovare il miracoloso compromesso tra Web e Copyright. Non spenderemo ulteriori parole per evidenziare il fatto che siamo di fronte alla singolarità del diritto d’autore, cioè il momento storico in cui si abbandonerà il vecchio modello di protezione dei contenuti per passare ad un nuovo concetto che abbia senso nel mondo di Internet. Questo cambiamento, che sta faticando ad arrivare ma che in moltissimi attendono, rappresenterà la trasformazione della regolamentazione e dello sfruttamento delle opere protette in una direzione per cui i produttori, i distributori e gli utilizzatori dei contenuti sul web nutriranno un mercato economico, senza però essere intrappolati nella vecchia concezione fondata sull’impedimento della duplicazione e della condivisione delle opere. Tale concezione infatti è un modello che necessariamente perde di significato quando l’opera è costituita da bit e risiede in rete, cioè nel luogo dell’immaterialità per eccellenza, dove l’informazione non è altro che una serie di numeri, ricopiati continuamente alla velocità della luce in supporti come hard disk e schede di memoria ram sparsi spesso in tutto il mondo, al punto che non è né facile né realmente significativo individuarne l’esatta posizione per vietarne la duplicazione.

Nondimeno, questo articolo non vuole promuovere la cultura dell’illegalità: né quando è intesa come l’atto di appropriarsi dei prodotti della genuina creatività degli autori senza pagare, né tantomeno quando è intesa come l’atto di superare i biechi monopoli dei contenuti attuati dai loro distributori. Cercheremo qui invece di valutare unicamente gli innegabili vantaggi culturali che l’attività di scaricare illegalmente dalla rete, nel bene o nel male, procura.

Da sempre, nella storia dei contenuti duplicabili, si è osservato il fenomeno per il quale il livellamento economico per il loro accesso dovuto alla pirateria ha permesso, sia a chi non disponeva della capacità finanziaria per l’acquisto, sia ai giovani che volevano estendere la sperimentazione di argomenti del tutto nuovi (per esempio alcuni nascenti generi musicali), di poter ottenere tali contenuti senza grossi investimenti; è similmente palese che la maggior parte delle persone non acquisterebbe indefinitamente prodotti di cui non abbia certezza di ricavarne soddisfazione. Ciò ha provocato un evidente arricchimento del patrimonio di conoscenze individuali, per non parlare del fatto che ha altresì sancito spesso l’effettivo apprezzamento del prodotto, il quale, spogliato del valore economico del supporto fisico, esigeva valore contenutistico per poter rimanere in vita e non essere ignorato.

Oggi però, con l’avvento di Internet, il fenomeno si è evoluto dando vita a uno scenario che non può più essere classificato con il vecchio nome. È sufficiente ripercorrere ad esempio la storia dei maggiori supporti musicali per rendersene conto: il vinile ha permesso per la prima volta l’ascolto domestico della musica, la musicassetta ne ha permesso la duplicazione privata, il cd ne ha permesso la copia indistinguibile dall’originale, l’mp3 ne ha permesso la distribuzione planetaria a tempo e costo zero. Oggi gli impatti sociali della pirateria sembrano aver toccato quindi aspetti più profondi della semplice duplicazione. Ora si parla di condivisione. L’informazione digitale ha prodotto il totale annullamento dei costi di distribuzione ed è quindi paragonabile ad uno scambio di battute tra amici: non costa ripeterle e tutti le vogliono sentire.

Ma ciò non significa esclusivamente svago, è anche conoscenza. Distogliamo un attimo lo sguardo dal contesto musicale e pensiamo a tutto ciò che attualmente è informazione. È qui che sorge davvero la questione: qual è per noi il valore di usufruire gratuitamente delle informazioni? La risposta è che, come uomini, viviamo di informazioni; non ci accontentiamo mai di quelle che abbiamo. Se non hanno costo infatti, siamo generalmente portati a volerne di più, perché sappiamo che più ne abbiamo e più siamo coscienti, istruiti e in grado di difenderci.

Il divario formativo tra generazioni, in termini di capacità di accedere all’informazione, è evidente. E forse mai nella storia dell’uomo lo è stato tanto quanto per quelle generazioni a cavallo della diffusione del personal computer.

Oggi, i giovani che hanno un accesso estremamente economico ai contenuti della rete hanno un vantaggio culturale innegabile sugli altri. Se economico infatti vuol dire accaparrarsi tanto, gratis vuol dire accaparrarsi tutto. Ebbene, la pirateria vuol dire accaparrarsi tutto.

Usiamo la parola “pirateria” nonostante storicamente sia stata utilizzata per la sua connotazione negativa. Non diamo qui giudizi di valore sulla sua legittimità. Consideriamo soltanto che chi scarica tutta l’informazione che vuole è favorito. Paradossalmente anche chi fa una rapina è favorito poi dall’avere una grossa somma di denaro, ma nel caso della pirateria stiamo parlando di conoscenza, che viene scaricata, utilizzata e ridistribuita. Ci si potrebbe scandalizzare del fatto che tali considerazioni implichino la violazione della legge. Lecito.

Certamente ci si potrebbe scandalizzare, se non fosse però che gran parte del tessuto sociale italiano (limitiamoci a parlare del nostro paese, ma credo che valga per tutti) ha competenze che derivano in parte dall’aver non pagato qualcosa. Facciamo degli esempi.

Le ultime generazioni di ingegneri, architetti, medici, designer, giornalisti, ecc. hanno contribuito certamente alla loro formazione specialistica universitaria con lo scambio illegale di informazioni non liberamente distribuibili. In primis con l’utilizzo di software non originale. Gran parte degli attuali laureati ha raggiunto le proprie competenze professionali violando la legge. E le università hanno beneficiato largamente di queste competenze acquisite fuori dai percorsi formativi accademici; molti dei corsi infatti prevedono che gli studenti possiedano già certune nozioni informatiche; la possibilità per gli allievi poi, di imparare sul proprio pc di casa ad utilizzare i costosissimi software dei corsi accademici, ha permesso alle università di risparmiare sulle licenze software, ridurre le postazioni pc dei laboratori e probabilmente molte ore di lezione teorica aggiuntive. Oppure pensate che questi esclusivi software siano sempre forniti agli studenti dalle università?

Prendiamo la società in generale, non solo gli studenti; pensiamo a Microsoft Windows, il sistema operativo che ha spiegato al mondo intero come si utilizza un PC; oppure Microsoft Office, che ha insegnato a generazioni intere a scrivere e impaginare un testo. Questi sono i software a pagamento più piratati della storia, dato il prezzo elevato. Ma quanto è stato utile piratarli? Quanta gente si è informatizzata grazie alla copia che gli veniva passata sottobanco? Mai nessun corso di Informatica avrebbe insegnato a milioni di persone ciò che ha permesso la pirateria. E quali sono le opportunità che ha generato? Pensiamo altresì a Photoshop, il più famoso programma di grafica di sempre. È così famoso proprio perché tanta gente ne ha potuto provare le ottime qualità senza spendere le svariate centinaia di euro della licenza. Quanti creativi designer ha prodotto la pirateria di Photoshop? Quanti talenti del marketing e della web-grafica sono emersi dopo aver provato da ragazzini una copia illegale del programma?

Si può obiettare che le alternative gratuite esistono e sono sempre esistite (un esempio è Linux), spesso qualitativamente superiori. Questo è vero, ma solo per il software. Se si parla però di prodotti per l’intrattenimento non è così. Per questi prodotti unici nel loro genere, la pirateria non offre soltanto l’enorme opportunità di avere l’intera discografia e filmografia mondiali, ma spesso anche l’unico modo per poter usufruire di determinati contenuti. A questo proposito l’esempio delle serie televisive americane è lampante. La maggior parte di queste straordinarie produzioni viene trasmessa al di fuori degli Stati Uniti anche uno o due anni dopo la prima uscita; ciò principalmente a causa degli accordi commerciali tra le emittenti televisive che vogliono evidentemente impacchettarle in format adatti alla Tv. In Italia giungono quindi solo dopo molto tempo e non in lingua originale. Lo scambio degli episodi di queste serie tramite filesharing supera tali limitazioni. Ma non si banalizzi questa azione: tali produzioni si portano dietro un largo interesse nel dibattito e nutre vastissimi gruppi di appassionati da tutto il mondo che si ritrovano sul web per accompagnarne l’uscita degli episodi. La web-community è un fattore importante di dialogo e condivisione di idee, e travalica l’appartenenza a uno stato, a un credo religioso o a una comunità linguistica. Lasciare indietro l’Italia nella fruizione di queste produzioni significa di fatto escludere tanti italiani dalla vita di community in rete, quest’ultima imperniata per sua natura sulla contemporaneità dei fatti.

Abbiamo visto il passato, il presente e ora gettiamo uno sguardo al futuro, perché il prossimo protagonista della condivisione illegale a livello globale è forse il caso più emblematico del rapporto tra pirateria e conoscenza: l’eBook. Il libro in formato digitale inevitabilmente sarà presto tra i contenuti più piratati; la sua introduzione nasce dalle spinte dell’editoria in cerca di nuove frontiere e dello sviluppo dei dispositivi elettronici per la lettura confortevole dei testi, come gli ebook-reader e i tablet. I due ostacoli principali che finora hanno limitato la copia dei libri, cioè l’uso degradante della fotocopiatrice e l’affaticante lettura a monitor, sono stati superati. Il formato condiviso per i libri digitali ePub probabilmente risalterà a breve agli onori della cronaca, proprio come quando il suo cugino mp3 iniziò a sdoganare la musica in rete. Pensiamo alle opportunità, la possibilità di avere milioni di testi in tasca, nei quali è possibile trovare le informazioni in pochi secondi.

Ci si deve chiedere allora che occasioni di conoscenza, di collegamenti mentali, di innovazioni concettuali e di dialogo traggano origine dall’utilizzo di materiale protetto. Quanto vale per noi tutto questo? È davvero vantaggioso combattere ciò che svincola la conoscenza dalle briglie economiche? O meglio: è vantaggioso demandare la lotta alla pirateria solo a chi detiene degli interessi e omette l’aspetto culturale del fenomeno? I produttori di contenuti che non hanno ancora strutturato un nuovo modello di business tenendo conto di Internet, ostacoleranno rigidamente la pratica della copia illegale. Manterranno questa posizione di intransigenza e di denigrazione perché gli permetterà di mantenere, finché possono, introiti economici. Per il momento, finché non si scopre l’agognata soluzione al problema, sarebbe conveniente che lo Stato intervenisse per difendere l’accesso dei propri cittadini ai contenuti, estendendo l’opportunità a tutti di usufruirne e potersi potenziare, permettendo all’Italia di essere culturalmente concorrenziale nei confronti delle altre nazioni. La pirateria è un meccanismo che regge la competitività del paese, anche se non lo si ammette. La soluzione tampone per questo periodo di transizione allora, rischia di rimanere davvero quella di lasciare le cose così come sono, cioè consentendo sottobanco la fruizione dei contenuti a molti lasciando che paghino in pochi. Non è bella, ma si è rivelata per adesso l’unico modo per non creare una frattura insanabile nella società di Internet, esito verosimile se dovessero passare proposte di legge anti-copia come quelle che ogni tanto vengono fuori indebitamente dalla bocca di qualche politico non avvezzo a comprendere il cambiamento storico in atto. Se saranno imposte forti limitazioni al download illegale, potrebbe realizzarsi un digital divide temporale tra le attuali generazioni e quelle future. Ci si deve augurare che sempre più materiale sia disponibile in rete e che sempre più persone possano usufruirne. La possibilità dell’uso personale di contenuti protetti andrebbe preservata, perché ha valore sociale. È un investimento nel progresso digitale della nazione, che in Italia tende tristemente a mancare.

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Equo dissenso sull'equo compenso

Comincio l’articolo con una premessa: non parlerò di diritti d’autore, del ruolo della SIAE come intermediario nel percepire i proventi di questi diritti o della effettiva redistribuzione che ne viene fatta; parlerò invece dell’ennesimo tentativo dello Stato di rallentare lo sviluppo tecnologico di questo paese, imponendo una tassa che costringe un italiano a pagare cifre sensibilmente più alte di un qualsiasi cittadino europeo per beni ormai entrati a far parte dell’uso comune.

L’equo compenso è una somma di denaro versata a priori alle società preposte alla protezione ed all’esercizio dei diritti d’autore (nel nostro paese la SIAE) e serve a compensare le presunte perdite che l’industria discografica e cinematografica affermano di subire a causa della condivisione illegale di brani musicali e film. Questa tassa, diffusa in tutta Europa, viene versata dai consumatori solo in seguito all’acquisto di Cd, Dvd e masterizzatori, oltre a supporti ormai obsoleti come VHS ed audiocassette.

Lo scorso 30 dicembre però qualcosa è cambiato: il ministro dei Beni e delle Attività Culturali Sandro Bondi, sfruttando il ben noto trucchetto di utilizzare il periodo festivo di fine anno per far uscire in sordina leggi scomode – vedi gli articoli sul digitale terrestre (decreto salva Rete4) e sul wireless (proroghe al decreto Pisanu) per altri esempi – ha firmato un decreto legge che estende il range di applicabilità dell’equo compenso ad un numero di dispositivi e supporti molto più ampio di quello precedente. In sostanza, qualunque dispositivo dotato di “supporto registrabile” come ad esempio pendrive, schede di memoria, hard disk, cellulari, console, decoder viene interessato dall’applicazione della tassa, con un contributo fisso o in proporzione alla quantità di dati stoccabile, secondo delle tabelle presenti nello stesso decreto.

Facciamo qualche esempio, tenendo conto di alcuni tra i prodotti tecnologici più diffusi :

  • Un hard disk esterno da oltre 400 Gbyte (la quasi totalità di quelli attualmente in vendita) verrà tassato per 0,01 € al Gbyte. Considerando che l’attuale street price di un’unità da 1 Terabyte è intorno agli 80 €, si avrà un aumento di 10 €, pari ad oltre il 10%.
  • Un lettore Mp3 con una capacità tra i 2 e gli 8 Gbyte (i più venduti attualmente) vedrà aumentare il suo prezzo dai 5,15 € ai 6,44 €, quelli di capacità superiori arriveranno ad aumenti fino a 12,88 € .
  • Per quanto riguarda i cellulari, la cifra da pagare sarebbe di soli 0,90 € ad apparecchio; ma il decreto specifica che per gli apparecchi polifunzionali dotati di memoria (in pratica tutti i cellulari di ultima generazione) bisogna pagare invece in base alle dimensioni di quest’ultima, ad esempio un Iphone da 32 GB costerà 6,44 € in più.

Provate anche voi come Giacomo Dotta ad effettuare, basandovi sulle tabelle del decreto, un rapido calcolo di quanto vi sarebbero costati in più i vari prodotti tecnologici che avete in casa. Io, arrivato a cifre vicine ai 200 euro, ho dovuto smettere per sopraggiunto esaurimento nervoso.

La manovra farà confluire ingenti flussi di denaro nelle casse della Società Italiana Autori ed Editori: secondo le stime di Confindustria e Assinform infatti, vedrà i suoi introiti per l’equo compenso quadruplicare nel solo 2010, passando dagli attuali circa 70 milioni di euro a oltre 300, recuperati a danno dei consumatori in un periodo di feroce crisi economica. La cosa in assoluto più grave è che si tratta, per la prima volta nella storia, di una tassa sullo sviluppo tecnologico: al migliorare delle tecnologie aumenta la quantità di dati che è possibile registrare su di un supporto e quindi anche l’obolo dovuto alla SIAE. Inoltre il decreto prevede una revisione delle tabelle dopo 3 anni che porterà certamente, visti i precedenti, ad ulteriori aumenti.

La SIAE si difende comunicando che queste entrate saranno redistribuite agli autori, editori, artisti ed a tutti gli aventi diritto, affermando inoltre che non si tratta di una tassa ma di diritti d’autore e quindi dello stipendio di chi produce opere (film, canzoni, ecc). Come scritto nell’introduzione, non è mia intenzione trattare in questo articolo del diritto d’autore (che ritengo sacrosanto) né di quanta parte dei soldi raccolti vadano davvero a finire agli autori (si parla di cifre prossime al 76% del bilancio della società utilizzate per pagare il solo personale); proverò invece a fare alcune considerazioni, ovviamente passibili di smentite, sui possibili effetti che questa legge potrebbe portare a tutto il mercato tecnologico italiano.

Per i consumatori di beni tecnologici di tutto il mondo, gli effetti della crisi economica si faranno sentire con maggior forza nel corso del 2010. L’anno appena trascorso ha visto infatti una riduzione del volume di produzione di componentistica, dovuto alla minor richiesta, e una riduzione degli investimenti in nuove fabbriche. Quindi i previsti aumenti della domanda nel corso dell’anno faranno sì che ci sia un aumento generalizzato dei prezzi, in particolare nel mercato delle memorie, dove i produttori operano in sofferenza già da un paio di anni. A questi andrà sommato soltanto in Italia quanto dovuto a causa del decreto Bondi, portando i consumatori italiani a subire aumenti anche superiori alle 2 cifre percentuali. Quanto impatterà questa situazione sui consumi, nel paese dei 1000 euro al mese?

Gli effetti più gravi però si avranno probabilmente nel mercato professionale. Le nostre aziende, già martoriate dalla crisi e dal sistema fiscale, messe in difficoltà dalle resistenze delle banche a concedere prestiti ed in costante debito di competitività nei confronti delle aziende straniere, si troveranno a dover fronteggiare gli aumenti nel momento peggiore. Questo porterà ad un ulteriore decremento di quegli investimenti in nuova tecnologia che sono indispensabili per uscire dalla crisi e per competere con le aziende estere, relegando sempre di più il nostro paese in quel terzo mondo tecnologico nel quale stiamo scivolando.

Ovviamente non pretendo di trattare in maniera esaustiva un argomento così complesso e sfaccettato, spero però di essere riuscito a dare sufficienti spunti a chi intenda approfondire. Si parla da tempo di azzeramento del digital divide, dell’idea di un pc con collegamento ad internet in tutte le case ed in tutte le scuole, della digitalizzazione della pubblica amministrazione; ma a tutti questi buoni propositi si contrappone l’attuale movimento politico, che sembra fare di tutto per svilire ogni tentativo del nostro paese di risalire la china. Il decreto Bondi non farà altro che precipitare ancora di più il nostro paese verso l’abisso della mediocrità e dell’arretratezza, e a farne le spese non saremo soltanto noi, ma soprattutto le future generazioni. Abbiamo soltanto un’arma a disposizione: persone in grado di prendere decisioni simili, miopi e dannose, non sono degne di essere elette. Quando lo capiremo?

Dov'è finita la speranza?

A volte ci si sveglia la mattina e ci si sente semplicemente pessimisti. Inizia così questo 2010, e non so quanto sia poi diverso dal 2009 appena trascorso. Quello che si sente, che si tasta con mano, è che la Speranza la stiamo perdendo un po’ tutti.

Viviamo in un Paese in cui la democrazia viene costantemente calpestata giorno per giorno, senza che nemmeno ce ne rendiamo conto. Semplicemente uno non ci fa più caso. E’ un paese diventato ormai palesemente razzista (vedi i fatti di Rosarno), che si concentra tanto a criticare le parole di un calciatore di nome Balotelli che si è permesso di dire che il pubblico che lo insulta “fa schifo”. Pensate un po’, fa più scandalo questo, che il coro razzista e i buu ai giocatori di colore.

Viviamo in un Paese in cui un giovane ha pochissime speranze di fare quello che desidera nella vita. Un Paese in cui per quanto tu possa essere laureato a pieni voti, nessuno ti cerca, nessuno ti vuole. Ah no, qualcuno sì, i call center. Di quelli sembra non esserci mai penuria in Italia, rappresentazione tangibile di quell’incubo che sono i contratti a tempo determinato, che non ti permettono di organizzare un qualsiasi progetto di vita perché si sa, tra un anno sarò di nuovo in mezzo alla strada.

Viviamo in un Paese in cui l’arte e la creatività vengono in tutti i modi bistrattate, in cui un creativo ha possibilità pari a zero di mostrare le proprie capacità. Semplicemente, da noi, la cultura non esiste. Guardate un po’ alla Musica Italiana ad esempio… Sempre le stesse facce, sempre le stesse canzoni, incastrati come siamo tra un presunto gotha della canzone autoriale (mi viene in mente Vasco) e i mostri che vengono fuori dal reality show di turno, destinati, come le farfalle, a durare soltanto una stagione, e poi addio. Proponendo rigorosamente musica melodica di cinquant’anni fa, si intende. Per non parlare dell’aspetto televisivo, dove ci tocca barcamenarci tra fiction qualitativamente degne della peggior telenovela sudamericana, a fronte di produzioni internazionali che ormai poco si discostano da un prodotto di qualità cinematografica. Nel 2010 noi abbiamo sempre le stesse facce in televisione, un’intera schiera di attorucoli che si contendono il posto nella “nomeacasofiction 3, 4, 5, ventimila”.

Viviamo in un Paese in cui la televisione pubblica è in mano a pochi elementi, in cui la diversificazione non esiste, in cui la tanto decantata libertà di scelta offertaci dal mirabolante digitale terrestre non si riduce altro che ad una semplice moltiplicazione per dieci di tutto quello che già abbiamo. E’ un paese in cui la contro-informazione è vista di malocchio, continuamente attaccata, continuamente bistrattata: un dictat qua, una cancellazione di là, un editto bulgaro e così via.

Siamo un Paese in cui il Digital Divide la fa ancora da padrone, in cui ci sono zone ancora difficilmente raggiunte da internet, vera ultima frontiera di libertà di espressione e di informazione. La TV però, quella si prende dappertutto. Per carità, che non si perda l’occasione di indottrinarci nella giusta maniera.

Viviamo in un Paese in cui la classe politica è troppo impegnata a cercare di risolvere i propri problemi piuttosto che pensare a quelli della gente. A fare proclami su inutili e costosissime opere pubbliche che poi alla fine funzionano anche male (vedi Alta Velocità), mentre per fare un viaggio in treno intercity le persone se la devono vedere con il Signore, sperando di non morire assiderati/bolliti/malati. E guai a chiedere un risarcimento, guai a chiedere informazioni. Nella migliore delle ipotesi si viene trattati a pesci in faccia. Mancano le infrastrutture ferroviarie, e ci imbarchiamo in un progetto quale il ponte sullo stretto.

E certo non si occupa della gente, la classe politica; la gente comune, quella stessa gente che poi inevitabilmente continuerà a dare la vittoria allo stesso schieramento, sebbene nulla sia stato fatto, le pensioni scendano, non ci sia lavoro, non ci siano soldi, tutti si lamentino. Continua però imperterrita a votare da una sola parte (ma guai ad ammetterlo in giro eh!). D’altronde l’alternativa non esiste, stanno semplicemente facendo di tutto per rimanere ognuno al proprio posto, perché conviene così, perché dei problemi veri del Paese non frega niente a nessuno.

Viviamo in un Paese in cui ogni decisione etica deve passare per bocca di esponenti dello Stato Vaticano; gente, per capirci, che continua ad essere contro all’uso del preservativo, unico vero strumento di prevenzione di malattie che hanno fatto ecatombi nel mondo. Dove se una persona ormai ridotta ad un vegetale ha intenzione consapevolmente di andarsene da questo posto in cui siamo tutti di passaggio, deve affrontare inferni che sono solo in terra.

Viviamo in un Paese dalla memoria corta, dove tante emergenze vengono risolte con semplici proclami, una soluzione immediata che faccia tanta scena da mostrare nel salotto televisivo di turno, e poi tutti dimenticano. E le persone passano gli inverni nelle tende. Intere stagioni. Mesi. E poi anni. Ma insomma, in TV hanno detto che il problema è risolto, quindi possiamo dimenticarcelo.

Viviamo in un Paese in cui quei pochi che riescono a trovare un lavoro decente rischiano spesso la vita ogni giorno, per un salario da fame, solo per tenere su una famiglia e crescere dei figli, figli che rappresentano il nostro futuro. Un futuro che però non è mai stato tanto incerto come oggi. Fate un po’ il conto di quante notizie di incidenti mortali sul lavoro ci sono ogni anno… Ma è più importante chi esce dal Grande Fratello, quella sì che è una grande tragedia.

Viviamo in un Paese dove ogni discussione tra giovani riguardo al loro futuro finisce per essere intrisa di un malcelato sconforto, della consapevolezza che tutto quello che si è provato a costruire negli anni non servirà a niente. E ci si chiede un domani cosa fare, e sempre più spesso si sente paventare l’ipotesi di andare all’estero, di scappare da questo posto che sembra non funzionare più. Ma è davvero così?

Cosa saranno i prossimi dieci anni di questo nuovo millennio nessuno può dirlo, anche se le prospettive, al giorno d’oggi, sembrano tutt’altro che rosee. Le scelte rimangono poche. O si va via, si scappa il più lontano possibile, o si resta a combattere cercando di tenere in piedi i cocci di ciò che rimane della parola “Speranza”.

Wireless libera tutti

Si avvicina la fine dell’anno e, per quanto riguarda la connettività in Italia, si pone il problema della scadenza o meno del cosiddetto decreto Pisanu. Nello specifico, si tratta della legge 31 luglio 2005 n. 155, che converte il decreto-legge 27 luglio 2005 n. 144, recante misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale. Com’è possibile che una legge studiata per combattere il terrorismo si sia rivelata uno dei maggiori vincoli allo sviluppo della rete wireless nel nostro paese? Scopriamolo insieme.

Una rete wireless sfrutta dei dispositivi chiamati access point, che distribuiscono il segnale nell’aria utilizzando onde radio e generando così un Hotspot, all’interno del quale è possibile per i dispositivi compatibili – tutti i portatili venduti negli ultimi 6 anni e molti dei cellulari più avanzati, ma esistono adattatori per quelli che non lo fossero – connettersi ad internet senza l’utilizzo di cavi. Questo permette la diffusione di internet anche in zone che non possono essere cablate, contribuendo alla diminuzione del digital divide, ma pone anche problemi di sicurezza, in quanto una rete non protetta lascia libero l’accesso anche ai malintenzionati, con l’ovvia difficoltà nell’individuazione data dalla mancanza di un punto di accesso fisico.

Il decreto Pisanu nasce nel 2005 pochi giorni dopo gli attentati terroristici del 7 Luglio a Londra, senza alcuna analisi d’impatto economico-sociale e senza discussione pubblica. Doveva essere provvisorio, ed è infatti già scaduto due volte (fine 2007 e fine 2008) ma è stato due volte prorogato. Si tratta di una serie di norme che non hanno alcun corrispettivo in nessun Paese democratico: nemmeno il Patriot Act USA, approvato dopo l’11 settembre 2001, prevede l’identificazione di chi si connette a Internet da una postazione pubblica. Tra i vari articoli che favoriscono il lavoro delle forze dell’ordine nell’individuare e trattare eventuali terroristi presenti nel nostro territorio, una parte è dedicata alle comunicazioni, introducendo una serie di misure che si avvicinano molto a quelle adottate in Cina per il controllo della navigazione dei propri cittadini. Riassumendo, chiunque offra al pubblico un servizio di connessione ad internet tramite terminali, prese ethernet o wireless deve adempiere ad una serie di obblighi:

  1. Richiedere una licenza in questura.
  2. Identificare il soggetto al quale si offre il servizio, trascrivendone i dati anagrafici su un registro e conservandone la fotocopia di un documento di identità.
  3. Tenere traccia, su di un supporto che non possa essere modificato nel tempo, delle attività svolte dal soggetto.

Il tutto vale non solo per gli esercizi pubblici – internet point, bar, ristoranti – ma anche per chiunque, da casa propria, dia accesso internet a terzi. Ma per quale motivo un privato dovrebbe essere interessato a condividere la propria connessione con degli estranei?

Il modo più frequente nel quale ciò accade è per scarse conoscenze informatiche, in quanto non tutti sentono la necessità né sono in grado di proteggere la propria rete senza fili dagli accessi non autorizzati. Ma nell’ottica della condivisione che ha sempre contraddistinto internet fin dalla sua nascita è nato il movimento Fon. Chiunque acquisti una Fonera entra a far parte della comunità dei Foneros: condividendo una porzione della propria banda internet attraverso l’ Hotspot generato dall’apparecchio, si ha il diritto di connettersi gratuitamente a tutte le Fonera presenti nel mondo, al momento più di 700.000. Questo consente di diminuire il digital divide, permettendo a chiunque di connettersi ad internet anche in assenza di reti a gestione pubblica.

Tutto molto bello sulla carta; peccato che in Italia, grazie al decreto Pisanu, il movimento Fon sia completamente illegale, a meno di non affacciarsi dalla finestra chiedendo i documenti a chiunque voglia utilizzare il proprio Hotspot. Queste limitazioni hanno fatto in modo che negli ultimi anni il nostro sia stato uno dei paesi a più basso tasso di crescita del numero delle reti wireless nel mondo, ponendo un grosso freno allo sviluppo culturale ed economico, considerando l’ampio numero di zone che non è possibile cablare per motivi geografici o di costi.

Cosa si sta facendo per combattere questa situazione che ci pone come al solito in svantaggio nei riguardi del resto del mondo civile? Alcune amministrazioni locali particolarmente intraprendenti stanno sviluppando reti wireless aggirando la legge, ad esempio utilizzando i cellulari per l’identificazione (in Italia ogni scheda sim è venduta soltanto dietro la presentazione di un documento di identità) o registrando preventivamente l’utente, consentendogli di accedere con un unico account a tutti gli Hotspot presenti sul territorio interessato. I progetti sono presenti quasi tutti al Centro-Nord: tra i primi a partire, quelli di Bologna e Reggio Emilia (dal 2006), gli ultimi in ordine di tempo sono di Pescara (20.000 euro di spesa) e di Firenze (in dieci piazze il Comune regala un’ora di WiFi). Il progetto forse più attivo al momento è ProvinciaWiFi: con 2 milioni di euro di budget, si punta entro il 2010 ad ottenere 500 Hotspot in tutta Roma e comuni limitrofi.

Quello che manca è un appoggio deciso del governo, anche se sembra che qualcosa stia finalmente muovendosi: il deputato del Pdl Cassinelli pubblicizza tramite il proprio blog la proposta di legge n. 2962, che dovrebbe eliminare tutti gli attuali vincoli legislativi, attirando verso di sé le attenzioni della rete. Forse è troppo poco, ma è sicuramente un segnale positivo, attendendo gli sviluppi previsti per fine anno. Ci sarà un ulteriore rinnovo del decreto Pisanu, o riusciremo finalmente a liberarcene per fare un passo verso uno sviluppo possibile, ma troppe volte rimandato?

Al momento nel nostro paese il wireless pubblico è osteggiato e si sviluppa a macchia di leopardo, senza alcuna best practice né coordinazione, e con la solita esclusione delle aree del sud da ogni minimo progresso tecnologico. Come scritto in un precedente articolo, l’unico modo per combattere l’analfabetismo informatico che ci attanaglia è quello di diffondere le moderne tecnologie, internet in primis; ma la conclusione è ancora una volta la stessa: senza un cambio deciso di mentalità da parte delle istituzioni siamo avviati verso un baratro del quale si fatica a vedere il fondo.

Il web e la burocrazia: a che punto siamo?

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Un nuovo collaboratore su Camminando Scalzi.it

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Vi presentiamo il nostro nuovo collaboratore, Paolo Ratto. Laureato in Scienze della Comunicazione, esperto di internet e autore di un blog (che vi consigliamo di visitare, come sempre), Paolo cerca di spiegare e illustrarci l’importanza rivoluzionaria del Web, e di come possa cambiare la vita quotidiana delle persone (esperte e non). In questo primo articolo ci parla della burocrazia online. Buona lettura![/stextbox]

Qualche giorno fa era Halloween, giorno in cui i Celti celebravano l’incontro tra il mondo dei vivi e quello dei defunti. Non potevo cogliere momento migliore per “parlare” di quello che considero uno dei più pericolosi “morti viventi” della società moderna: la burocrazia.

burocraziaLa burocrazia è riconosciuta universalmente come “l’organizzazione di persone e risorse destinate alla realizzazione di un fine collettivo secondo criteri di razionalità, imparzialità ed impersonalità. Il termine, definito in maniera sistematica da Max Weber indica il “potere degli uffici” (dal francese bureau): un potere (o, più correttamente, una forma di esercizio del potere) che si struttura intorno a regole impersonali ed astratte, procedimenti, ruoli definiti una volta per tutte e immodificabili dall’individuo che ricopre temporaneamente una funzione“.

Negli ultimi tempi, anche in Italia, si sente spesso parlare in riferimento all’apparato burocratico dei tentativi di snellire le pratiche, di superare gli stalli, di accelerare i processi, in tutti i campi economico-sociali, ma soprattutto nella Pubblica Amministrazione.

In molti invocano il passaggio in toto all’ e-government, visto dagli esperti come il paladino nella lotta agli sprechi di tempo e denaro.

Ma cosa si intende esattamente per e-government? Quando si parla di e-government -ossia “amministrazione elettronica”- si fa riferimento a tutti quei servizi pubblici che possono essere svolti senza difficoltà attraverso internet: dalle semplici ricerche di informazioni a servizi più complessi, che normalmente richiedono carte da compilare, code da affrontare e tanta burocrazia da sopportare.

I lati positivi sono molti: l’uso di internet rende più facile e più diretta la comunicazione, ci sono meno costi sia per gli utenti che per l’amministrazione e le procedure sono molto più rapide.

Molte sono le amministrazioni regionali e locali che hanno deciso di seguire questa via. Sono di questi giorni le notizie della “conversione” di Roma all’amministrazione digitale con il “patto” tra Alemanno e Brunetta e dell’aumento della quantità e qualità dei servizi on-line nella PA di Toscana ed Emilia Romagna … e molteplici sono gli esempi in tutta la Penisola.

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Ed è proprio il ministro della PA Brunetta che sta spingendo molto l’acceleratore su questo tema , anche in maniera piuttosto ambiziosa: si pensi al Piano e-gov 2012 o al dibattito sulla tanto criticata PEC (posta elettronica certificata), considerata dal ministro passo fondamentale per lo sviluppo dell’e-gov, e dai detrattori (tra cui voci del calibro di Guido Sforza, presidente dell’Istituto per le Politiche dell’Innovazione) una mossa avventata -oltre che monopolistica!- per la privacy dei cittadini (un soggetto privato controllerebbe una sorta di “anagrafe dei domicili informatici”) e secondaria dinanzi ai problemi derivati dal “digital divide”.

Per Digital Divide si intende, alla lettera, “divario digitale”: esso viene inteso come la divisione tra chi può accedere alle nuove tecnologie di comunicazione ed informatiche e chi no, principalmente a causa di condizioni economiche, dell’istruzione e dell’assenza di infrastrutture. Secondo le ultime ricerche di Giancarlo Livraghi, sembra credibile che il numero di persone online in Italia si possa collocare (secondo diversi criteri di frequenza d’uso) fra i 17 e i 21 milioni, che su una popolazione di poco più di 60 milioni, rappresentano un ottimo bacino d’utenza, da cui però restano fuori alcune fasce sociali, anagrafiche e/o geografiche importanti.

Lo stesso Obama, negli USA, sta avendo qualche problema nel tentativo di rivoluzione internettiana della burocrazia federale. Il presidente si sta già scontrando con attrezzature vecchie e regolamenti troppo vincolanti, che sembrano impedirgli di portare a compimento in breve tempo quello che era uno dei punti della campagna elettorale.

Scendendo poi dal macromondo nazionale ed internazionale al mio micromondo personale, voglio riportare un’esperienza di questi giorni che ben fotografa il momento attuale di “vorrei ma non posso”, e dimostra che tutti noi siamo ancora intrappolati nelle strette maglie della burocrazia (sfido chiunque a sostenere il contrario!).

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Ieri ho (finalmente!) completato il lento e macchinoso iter burocratico per poter usufruire di una borsa di studio Erasmus, assegnatami presso l’Università di Strasburgo.

E con cognizione di causa posso sostenere che dove sarebbero potute bastare alcune mail, al massimo “supportate” da un paio di fax, mi sono trovato di fronte ad un percorso Kafkiano ad ostacoli fatto di firme, timbri, raccomandate con ricevuta di ritorno, che avrebbe potuto mettere alla prova anche il burocraticissimo Luigi XIV!

Il fatto poi che il paese in cui mi stia dirigendo sia proprio la Francia (paese in cui ancora oggi ci sono delle università destinate a “sfornare” i burocrati del domani, alle quali si accede dopo un anno di scuola preparatoria e un esame molto difficile, che assicura la partecipazione solo ai migliori, perché la burocrazia deve essere efficientissima!) ha aggiunto un pizzico di ironia pirandelliana alla situazione…

A che punto siamo quindi? Qualcosa si muove, non si può negare. Certo, la via è ancora lunga. Resto convinto comunque che si debba tentare di dissolvere il mostro burocratico dapprima in apparati sociali più “ridotti” ed in cui il digital divide non rappresenti un problema. Mi riferisco, per esempio, proprio all’Università, in cui le infrastrutture mediamente funzionano e l’anagrafica e l’istruzione non dovrebbero rappresentare un ostacolo. In seguito si può tentare di affrontare la sfida in ambiti ben più “affollati” ed eterogenei quali la Pubblica Amministrazione.

Vi lascio con un ultimo dubbio sorto nella mia mente quando, giunto all’ufficio postale del mio quartiere, dopo mille peripezie, una volta spedita la lettera contenente tutte le pratiche necessarie alla mia iscrizione all’ università estera, sono stato invaso da una sensazione piacevole: forse la burocrazia esiste proprio per il sublime senso di appagamento che si prova quando la si sconfigge…

Paolo Ratto

L'analfabetismo informatico in Italia

Nel mio lavoro di sistemista incontro persone con una cultura informatica molto variegata, dall’esperto pluri-certificato a persone che hanno serie difficoltà a trovare un tasto sulla tastiera. Le sfumature tra questi due estremi sono ovviamente molte, ma spesso le abilità informatiche più diffuse non vanno oltre l’utilizzo di chat e social network vari, o al massimo lo sfruttamento ai minimi termini di software come Word o Excel.  La percezione che hanno delle loro scarse capacità informatiche è spesso molto blanda, quasi non si rendessero conto dell’enorme numero di opportunità che perdono né dei rischi che questo comporta, basta pensare all’enorme aumento dei casi di truffe via internet degli ultimi anni.
Persi nei meandri del computer
Secondo una ricerca Eurostat il 59% degli italiani è un analfabeta informatico, secondi solo ai greci con il 65% e contro una media europea del 39%. Il dato è ancora più allarmante se consideriamo soltanto le fasce più giovani della popolazione, con il 28% tra i 16 e i 24 anni e il 50% tra i 25 e i 54. Soprattutto la fascia d’età più bassa denota tutte  le carenze che l’attuale sistema scolastico italiano ha nel formare persone che siano preparate per le sfide digitali del futuro. Questo compito di formazione viene demandato alle famiglie, spesso incapaci per limiti culturali o di mezzi a farvi fronte, o a corsi e certificazioni di dubbia utilità come la famigerata “Patente europea del computer”, utili più che altro per aumentare la propria abilità nel cliccare un paio di pulsanti nei programmi della suite Office, ma inadeguati nel creare quella forma mentis necessaria per l’utilizzo consapevole degli strumenti che l’informatica mette a disposizione.

A quando la diffusione del WiMAX in Italia?

Un discorso a parte merita la cronica carenza di infrastrutture telematiche che limita di molto le percentuali della popolazione in grado di avere accesso agli strumenti di internet, indispensabili per ridurre il gap di conoscenze informatiche con gli altri paesi. Le principali compagnie di telecomunicazione, considerando troppo elevate le spese a fronte dello scarso numero di utenti raggiungibili, hanno ormai del tutto abbandonato i territori periferici. Attualmente l’unico strumento disponibile consiste nell’utilizzo delle reti cellulari (UMTS e soprattutto HSDPA) tramite le cosiddette “chiavette internet”, poco performanti se non in massima copertura e spesso instabili. Le alternative tecnologiche a breve termine sono poche; l’unica realmente utilizzabile sarebbe il WiMAX, purtroppo penalizzato sul nascere da problemi di tipo tecnico-burocratico (nel nostro paese le frequenze erano di proprietà del ministero della difesa, rallentando di molto i bandi di assegnazione) e dalle resistenze dei proprietari delle reti fisse, timorosi di perdere le proprie posizioni monopolistiche. Si spera che il recente accordo Telecom-Aria possa consentire la riduzione del digital divide che attanaglia come una morsa il nostro paese.
Nel 2009 in Italia ancora una larga fascia della popolazione non ha acesso ad internet...
Tutti questi ostacoli non sono risolvibili senza un adeguato  intervento politico-legislativo. C’è la necessità di eliminare il monopolio Telecom e stanziare ingenti fondi per l’ammodernamento e l’espansione delle reti adsl e in fibra, di spingere perché il WiMax sia diffuso ovunque non sia possibile portare la rete via cavo, e di evitare che ci siano blocchi inutili e pretestuosi allo sviluppo delle prossime tecnologie per le telecomunicazioni . E’ inoltre necessaria una seria riforma della scuola, che porti non solo a parole computer ed internet in ogni scuola a partire dalle elementari, se non addirittura fin dall’asilo.

Inoltre c’è bisogno di un deciso cambio di mentalità delle istituzioni riguardo all’analfabetismo informatico perché sia visto per quello è, cioè uno dei più gravi ostacoli allo sviluppo presente e soprattutto futuro del nostro paese.