Filosofia della condivisione

[stextbox id=”custom” big=”true”]Un nuovo autore su Camminando Scalzi.

L’articolo di oggi è scritto da Fausto De Gregorio, informatico, giornalista freelance e studioso dei nuovi linguaggi open source e di webmarketing. Fabio è alla sua prima collaborazione con Camminando Scalzi. Buona lettura![/stextbox]

Oggi stiamo vivendo una drammatica sfida su quattro fronti: la crisi finanziaria e quella dell’economia reale si innestano in una crisi strutturale più ampia che riguarda la sostenibilità ambientale. Su un piano ancora più profondo, stiamo vivendo una crisi di speranza nel futuro. In poche parole, si tratta di quella mancanza di fiducia tipica di una società che invecchia e nella quale i giovani non trovano ruoli e prospettive.

Zygmunt Bauman

L’impressione è che la vita di noi tutti stia cambiando, e non in meglio. Il sociologo Marco Revelli scrive – nel saggio Poveri, noi – che negli ultimi anni, in Italia, “siamo declinati credendo di crescere. Siamo discesi illudendoci di salire. Viviamo con la testa nel mondo fantasmagorico del consumo opulento; abbiamo aspettative da consumatori ricchi ma poggiamo i piedi, e tutto il corpo, sulla linea di galleggiamento. Abbiamo toccato per pochi, fuggevoli anni, o lustri, un benessere veloce, da “centro commerciale”, ma sappiamo che basta un nulla per riportarci sotto”. È un realismo che inquieta e fa paura, ma la stessa considerazione è stata fatta, a livello internazionale, da uno studioso dei fenomeni sociali come Zygmunt Bauman nel suo recente libro-intervista Vite che non possiamo permetterci, un titolo che dice tutto. In buona sostanza Bauman sostiene che l’epoca nella quale era possibile “godersela adesso e pagare dopo” è alle nostre spalle. Se il mondo industriale era prosperato sullo sfruttamento della manodopera, quello post-industriale, cioè il nostro, è prosperato sullo sfruttamento dei consumatori, opinione peraltro condivisa dall’economista Raj Patel ne I padroni del cibo. Per rispondere alle seduzioni del mercato, ma anche per far girare l’economia, un po’ tutti hanno avuto bisogno di farsi prestare denaro. Alla fine, però, il conto è stato salato.

È un conto salato i cui effetti avvertiamo ogni giorno di più nel nostro quotidiano. L’aggravarsi dell’attuale crisi finanziaria è senza dubbio il segnale di una crisi più profonda, che tocca ogni aspetto etico dell’uomo. In gioco c’è tutto un modo di intendere la vita e i suoi significati. E forse questa crisi rappresenta, come molti esperti ritengono, un avvertimento a cambiare direzione, a dare nuovi significati a ciò che facciamo e alle relazioni che stabiliamo.

C’è chi ritiene che ogni aspetto delle nostre vite non possa fare a meno del denaro e tutto ruoti attorno al profitto e a interessi di ordine commerciale, da cui è impossibile prescindere. Può piacere oppure no, ma – come fosse piovuto dal cielo – questo è il sistema di vita che abbiamo e così ce lo teniamo. Ma c’è anche chi, pur non sottovalutando l’influenza che il mercato sta avendo, pensa che la vita dell’uomo debba aprirsi a una prospettiva più ampia, che l’uomo stia vivendo al di sotto delle sue potenzialità proprio perché non riesce o evita di svincolare ogni suo pensiero e azione dai rigidi schemi di un sistema economico che ha impoverito la vita sotto tutti gli aspetti. Pensiamo solo per un momento al regresso che nell’arco di qualche decennio hanno avuto il mondo del lavoro, il sistema sanitario, quello dell’istruzione o quello pensionistico.

I sostenitori di questa seconda prospettiva credono che l’uomo, nonostante tutte le difficoltà che incontrerà, riuscirà a superare questa crisi se inizierà finalmente a guardare il mondo con occhi diversi, riconoscendo il potere della cooperazione, dell’unire le forze per il bene comune. Pensano che, oltre a parlare di soldi, si debba cominciare a parlare di stili di vita, non per sottrarre ma per aggiungere qualità e sostenibilità alla vita di tutti.

Vecchie strutture economiche, politiche e di pensiero stanno morendo per lasciare il posto a nuovi modelli di vita e di pensiero. Abbiamo a che fare con una problematica fase di transizione che rappresenta al tempo stesso una grande opportunità per ripensare e ricostruire l’intera società su basi più giuste, abbandonando la competizione in ogni settore delle attività umane e tutte quelle forme di separatismo che avvelenano il cuore.

Perché accettare un sistema in cui si compete con il prossimo quando si può lavorare con lui e per lui, in un continuo scambio reciproco, per permettere a entrambi condizioni di vita più sicure e dignitose?

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Economia: la scienza intoccabile.

“L’inflazione che caccia nelle mani dell’individuo in un gesto solo miliardi di marchi lasciandolo più miserabile di prima dimostra punto per punto che il denaro è un’allucinazione collettiva”.

M. Sgalambro, dal brano “23 coppie di cromosomi” di F. Battiato.

 

Anche chi non si è mai occupato di economia si trova costretto, di questi tempi, a ragionare su questa scienza che, nonostante le apparenze, della scienza ormai sembra avere poco. L’economia – da “oikos”, casa e “nomos”, legge, ovvero “le regole della gestione dei beni di casa” – con il tempo sembra aver perso gradualmente il suo carattere pragmatico per assumere sempre maggiori qualità astratte. Nell’ancor più misterioso mondo della finanza, sua propaggine,  il denaro si assottiglia, diventa invisibile, si trasferisce in tempo reale, cambia il proprio valore di giorno in giorno seguendo logiche arcane e mappe illeggibili fatte di grafici e sinusoidi. I sensibili mercati tremano a ogni brezza esprimendosi in una lingua fatta di acronimi. Leggere i dati è complicato come interpretare  gli intricati schemi astrologici atti a determinare il fato di un individuo. L’analisi si assimila alla profezia.

Noi che non siamo economisti non possiamo comprenderne le dinamiche. Servono degli intermediari che ci spieghino come stanno le cose. Che ci dicano cosa è giusto e cosa non è giusto fare. Che ribadiscano come, in un mondo globalizzato, la strada intrapresa sia l’unica possibile.

Il fatto è che, a quanto pare, esistono diverse teorie e sistemi economici. Non vi è un solo modo di amministrare i beni di un paese. Ma oramai viviamo in un’Europa dove l’unica voce ammessa è quella della UE. Scritti che dicono altro divengono apocrifi, chi produce un pensiero diverso è un eretico. Nei talk show le teorie avverse vengono descritte come rischiose, se non pericolose o utopiche. Dal punto di vista di chi crede nell’attuale modus operandi, si tratta di  teorie che hanno perso la loro battaglia per concorrere alla guida dei mercati e sono ormai relegate nell’ambito dei saperi strampalati, come tante cose a questo mondo. Da tempo la palma della vittoria è in mano al “neoliberismo”, un sistema che è alla base del nostro attuale assetto economico e che non ammette, a quanto pare, concorrenti.

Nessun riscontro reale sembra chiamare questi difensori del sogno europeo a considerare un aggiustamento di rotta, un adattamento o qualcosa che esca dai binari di ciò che loro credono, con o senza malizia, essere la via.

È come se ormai la pratica non sia più la base per stabilire la bontà di una teoria, bensì l’inverso: la teoria viene per prima e la sua applicazione serve per confermarla. E se ciò produce contraddizioni e problemi, pazienza. Impossibile tornare indietro. Non si può gettare al vento ciò per cui si è tanto lavorato e studiato. E non vogliamo essere screditati né messi da parte. Dopotutto è divertente non essere l’oggetto delle reali conseguenze di scelte astratte.

A mio parere noi, comuni cittadini, stiamo tentando di spiegarci attraverso calcoli qualcosa che non ricade del tutto nella matematica. Trattare la questione attraverso la scienza dei numeri non è sufficiente. Forse sarebbe più soddisfacente guardare al tutto come a qualsiasi opera umana, prendendo in considerazione elementi meno “aritmetici” come l’avidità, il tornaconto personale, il cinismo, il bigottismo e secoli di storia.

Basti pensare che questi intermediari europei vengono chiamati a sedare una creatura di cui loro stessi, o i loro mentori, sono stati creatori. Sempre che sia loro interesse porre rimedio.  Mi chiedo se questa per cui stanno combattendo sia anche la mia visione del futuro. O la tua, la nostra. Beh, comunque sia non ha importanza, poiché né tu né io abbiamo voce in capitolo.

È sotto gli occhi di tutti infatti che se non siamo ricchi, laureati in una qualche prestigiosa università, magari statunitense, e non abbiamo le conoscenze giuste, non decidiamo nulla per quanto riguarda le politiche europee. Nessuno ci ha chiesto un parere sulla firma dei trattati. E se abbiamo risposto di no ci hanno posto la domanda una seconda volta, perché probabilmente eravamo distratti. In generale, comunque, non sono cose che ci riguardano. Che scocciatura, il popolo!

Chi non accetta questa situazione (perché c’è anche chi la accetta, bontà sua), non dovrebbe farsi prendere dallo scoramento. Servono idee, immaginazione e sistemi capaci di creare una maggiore equità e serenità. Come mille volte è stato detto, l’ideogramma cinese per “crisi” nasconde la parola “punto cruciale” (più che “opportunità”, come spesso viene detto). Significa che si aprono diverse strade. Può darsi che siano necessari grandi sforzi. Può darsi che il castello diventi pericolante e basti un nostro soffio. Il futuro ci darà il suo responso (credo molto presto, visto il ritmo precipitoso a cui cambiano oggi le cose). E chissà che questo nostro affanno non serva a produrre un domani migliore.

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Rapporto Istat, tanti numeri e poche speranze.

L’Italia è un paese penalizzato dalle turbolenze internazionali, ma paga anche il prezzo dei propri ritardi sociali e culturali. E’ quanto emerge dal rapporto annuale Istat, pubblicato lo scorso 23 maggio sul quotidiano “Il Mattino”. Al sud una famiglia su quattro è povera e la qualità dei servizi sociali è nettamente inferiore alla media nazionale. In termini pro capite il reddito delle famiglie è del 4% in meno rispetto al 1992 e del 7% in meno rispetto al 2007. È aumentata, invece, l’incidenza delle prestazioni sociali erogate dallo stato. Nel 2000 il livello dei prezzi in Italia era pari al 95% di quello della media dell’Unione Europea, mentre in Germania superava la media di dieci punti. Oggi, dopo un’inflazione cumulata, sia l’Italia che la Germania sono al di sopra di quattro punti. In pratica ciò vuol dire che gli italiani si sono allineati ai tedeschi soltanto per quanto riguarda il costo della vita, ma non per la produttività. Per quanto riguarda il lavoro, i tradizionali punti di forza resistono, anche se in alcuni settori siamo un po’ indietro. La specializzazione manifatturiera, ad esempio, rimane quella degli anni ’70, con il ruolo delle imprese che si riduce sempre di più. L’economia resta basata sull’export.

Anche il mercato del lavoro ha subito delle notevoli trasformazione negli ultimi venti anni. Il numero degli occupati è cresciuto di 1,3 milioni di unità, mentre il tasso di occupazione è passato dal 53,7% al 56,9%. Le retribuzioni contrattuali sono ferme dal 1993. All’interno di questa tendenza generale, però, qualcosa è cambiato. Il numero dei maschi occupati è sceso, mentre l’occupazione femminile è aumentata di 1,7 milioni di unità, quasi esclusivamente nel centro-nord. Tuttavia, il tasso di occupazione femminile resta il più basso rispetto alla media europea. Ciò anche perché le neomamme che mantengono il posto di lavoro sono soltanto il 77%. In pratica, il 23% delle donne che partoriscono preferisce lasciare il lavoro, oppure, come spesso accade, le aziende preferiscono non proseguire il rapporto di lavoro con le neomamme.

L’economia sommersa, più comunemente conosciuta come lavoro nero, è in leggero calo. Sono diminuiti anche gli occupati al sud: circa 200.000 inmeno rispetto al 1995.

La novità più rilevante è la diffusione delle nuove tipologie contrattuali più flessibili, in particolare tra i giovani. Il numero degli occupati a tempo determinato è cresciuto del 48% e si trovano in questa tipologia lavorativa oltre un terzo di coloro che hanno tra i 18 e i 29 anni. Gli investimenti per la ricerca sono dell’ 1,26% in meno rispetto alla media dell’Unione Europea.

Infine, ci sono delle novità anche riguardo al risparmio. Gli italiani hanno sempre avuto una forte propensione al risparmio, ma negli ultimi anni questa tendenza si è affievolita. Negli ultimi quattro anni la propensione al risparmio è scesa dal 12,6% all’8,8%.

La situazione generale è abbastanza drammatica e la gente comincia a perdere anche le speranze. Secondo alcuni sondaggi gli italiani non hanno alcuna fiducia nelle attuali forze politiche.

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Se in Grecia si abbandonano i bambini

Anna, la mamma non ti verrà a prendere stasera. Non ho più soldi. Scusa. La tua mamma”. Questo biglietto è stato trovato in una scuola di Atene. Il personale della scuola dice che non è un caso isolato. La Grecia sta affondando nell’incubo della miseria più nera, dove si ritrovano persone che fino a ieri conducevano una vita normale, andavano al lavoro, accudivano i figli e ora si ritrovano senza niente, abbandonate a loro stesse, senza alcuna rete di protezione sociale ed economica. “Ogni notte piango da sola a casa. Ma cosa posso fare? Non ho sceltaracconta alla BBC un’altra madre che ha deciso di abbandonare il figlio.

Le domande che ci assalgono sono molte: com’è possibile che questo avvenga in quell’Europa nata per garantire i diritti fondamentali ai propri cittadini? Quali colpe hanno le giovani generazioni greche, tali da dover essere pagate con lo sfascio delle proprie vite e dei propri affetti più cari? Come è possibile che la politica europea possa cinicamente calcolare i doveri finanziari di un paese senza garantire la possibilità di sopravvivenza dei suoi cittadini? Quale morbo si è impadronito delle menti e dei cuori di chi ha le responsabilità politiche ed economiche di trovare una via d’uscita da una crisi che, prima che economica, è morale e di giustizia? È vero, la Grecia ha fatto molti errori negli ultimi decenni. La sua classe politica ha mentito, non ha pensato all’interesse generale ma ai propri interessi particolari. Questo vale anche per l’Italia e gli altri paesi che hanno vissuto sperperando e non creando quei meccanismi sociali e istituzionali capaci di garantire la sostenibilità, economica e sociale, del proprio sistema. Ma è proprio vero che ognuno ha la classe politica che si merita? E chi può tirarsi fuori dalle responsabilità? Dove era l’Europa quando queste politiche scellerate venivano attuate? E ancora: quale responsabilità è così grande da dover essere pagata con il sangue e gli affetti di vite spezzate, abbandonate, emarginate?

Le responsabilità e le relative sanzioni, in un mondo giusto, dovrebbero essere commisurate ai reati commessi. Ora, la mamma di Anna quale enorme colpa ha per essere costretta a scrivere quel terribile biglietto? Quale potere aveva a disposizione per impedire che ciò che è avvenuto non avvenisse? Se nemmeno l’enorme apparato europeo né il sistema finanziario e bancario internazionale sono stati capaci di capire e prevenire ciò che stava accadendo in Grecia, come è possibile che la madre di Anna sia in qualche modo responsabile? Di domande come queste potremmo continuare a porne ancora molte. Resta il fatto che questa crisi ha mostrato tutti i limiti e tutta la falsità delle grandi retoriche solidaristiche che mascheravano i veri interessi della costruzione europea. Diciamo la verità, è facile stare insieme quando c’è da dividere qualcosa, più difficile quando c’è da rinunciare a una parte del proprio benessere e dei prori privilegi.

Una cosa è certa, nessun ideale più o meno nobile, nessuna moneta o mercato, nessun debito privato o pubblico, può pretendere di essere servito con la vita delle persone, dei bambini, delle madri. Non c’è colpa tanto grande. L’unica cosa per cui vale la pena difendere un sistema è la sua capacità di garantire la giustizia sociale e la dignità di tutti i suoi componenti. Altrimenti, si chiami Democrazia, Europa o Stato, tale sistema non ha ragioni morali per esistere.

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Il ragioniere

Secondo me, qualcuno, là fuori, non ha le idee chiare.

Quando ormai due mesi fa Berlusconi fu destituito dallo spread, orde di persone giù in piazza a festeggiare, bottiglie di spumante alla mano, la caduta del peggior premier italiano dal ’46 ad oggi; ciò che si festeggiava, in realtà, era sì la destituzione di un governo opinabile sotto molteplici aspetti economico-politici (suvvia, ce ne saranno stati di peggio) ma sopratutto la destituzione dalle nostre coscienze di un governo moralmente ed eticamente discutibile, dove le mazzette, i favori, le connivenze, erano pane quotidiano. Via. Sciò. Aria.
E così arrivano i colletti bianchi. Tutti belli a modo loro, con i completi scuri, i capelli raccolti, i tailleur al ginocchio. Basta veline, abbiamo bisogno di credibilità, di gente seria, vendibile. Tutti con 2 o 3 cognomi, mica una Carfagna qualsiasi.
E scatta qualcosa, nel subconscio di tanti, troppi: se Berlusconi e tutto il circo che si portava dietro è la destra, Monti e tutto il senato accademico che si porta dietro è la sinistra!
Primo errore!
E se Monti è la sinistra, farà cose di sinistra!
Secondo errore!
Monti è un ragioniere. Un ragioniere dal curriculum molto lungo, ma sempre ragioniere è; il ragioniere fa tornare i conti. Punto. Non fa cose di sinistra, perché non è un politico.
Prima di tutto perché anche lo fosse (un politico), probabilmente non sarebbe di sinistra (liberal-cattolico… al massimo Margherita, dai). Ma sopratutto perché a Monti gli mancano due cose, ovvero un mandato elettorale e di conseguenza un parlamento che gli dia retta. Monti invece si ritrova un parlamento in ebollizione, dove tutti si guardano in cagnesco e dove tutti guardano in cagnesco lui, pronti a sbranarlo alla prima parola fuori posto. Ed ecco le pagliacciate leghiste con tanto di cartelli in parlamento, le squallide ed assurde parole della Mussolini, Di Pietro che ormai mette la sfiducia pure alla moglie quando serve la cena, Bersani che dice “sono d’accordo, però” “condividiamo, però” “ascoltiamo con piacere, però” ecc.
No.
Monti fa il ragioniere. Quindi:
1) non può abbassare lo stipendio dei parlamentari. Come è stato chiarito nei giorni precedenti, la decisione spetta al Parlamento, non al Governo. E questo punto lo possiamo tranquillamente rimandare alle prossime elezioni.
2) Monti deve far tornare i conti. Prima cosa è pagare gli stipendi e le pensioni e con cosa si pagano? Con i soldi. E dove si trovano si soldi? Nelle tasche dei cittadini. E quindi più tasse, più accise, più pressione fiscale. Era lampante. La Lega fa un gioco mediatico al massacro urlando meno tasse, ma per me non c’era altro modo.
3) Ora, al di là del populismo nascosto dietro “facciamo pagare l’ICI alla chiesa”, e dico populismo perché non l’ha mai pagato, non è che se l’è inventato Monti o Berlusconi che la chiesa l’ICI non la paga, l’idea è da perseguire con tutte le forze. Ma…
4) Ma Monti non ha un parlamento che lo supporta a scatola chiusa, come ce l’ha normalmente chi vince delle elezioni politiche. Quindi deve riuscire a mediare e a trovare un accordo con quelle parti politiche cattoliche o filocattoliche che non saranno d’accordo.
In ultima istanza, solo due cose:
1) Che la sinistra, piuttosto che guardare a ciò che fanno gli altri, si chiarisca le idee su chi sarà il premier alle prossime elezioni. Che è vero che per adesso è Bersani, ma mi pare che dietro a lui ci siano quasi un centinaio di senatori o giovani rampanti pronti a fargli le scarpe e non credo sia una mossa vincente presentarsi con questa confusione alle elezioni.
2) Che ci si renda conto che se un Governo cade per colpa dell’economia, se si fanno riforme per colpa dell’economia, se si decidono gli assetti politici per colpa dell’economia, si è rotto qualcosa, perché pare evidente che qui, ora, adesso, la sovranità era del popolo e qualcuno ci ha speculato sopra.

Mai più Silvio Berlusconi

Ieri era uno degli hashtag -in breve, le parole chiave degli argomenti “caldi” del momento- più seguiti su Twitter è stato #maipiù, insieme a tanti altri che hanno costellato tutta la lunga giornata di sabato. Dopo diciassette anni e spiccioli, Silvio Berlusconi si è dimesso.
Durante tutta l’infinita serata di ieri, in attesa della dichiarazione che ponesse fine a tutto, si sono susseguite manifestazioni di giubilo in tutte le piazze antistanti gli edifici della nostra Repubblica. Bottiglie di spumante, hallelujah, una generale aria di “liberazione”, un lungo sospiro di sollievo tirato dalle tantissime persone che dopo diciassette anni non ne potevano veramente più.

Non ci sono riuscite le opposizioni (che, a dire il vero, hanno spesso fatto i suoi comodi), non ci sono riuscite le megamanifestazioni popolari, non c’è riuscito Fini con la sua “scissione”, non c’è riuscita una maggioranza risicata salvata dal più squallido dei mercati del trasformismo politico. Sono servite il crollo dell’economia mondiale ed europea, la mancanza di fiducia del mondo della finanza nei confronti del nostro Paese, le “imposizioni” della Comunità Europea. E dopo l’ennesima settimana di stallo, Silvio ha finalmente (e giustamente) rassegnato queste benedette dimissioni.

Un’epoca della Repubblica italiana (una brutta epoca, permettetemi) si chiude così; dopo nipoti di Mubarak, bunga bunga, corna agli incontri istituzionali, “culone inchiavabili”, smentite e controsmentite, cacciate dei personaggi scomodi dalle TV nazionali, alla fine tutto questo teatrino si è infranto contro la macchina della crisi e del denaro. Ci rimane un Paese in enorme difficoltà, un cumulo di macerie su cui dover ricostruire il nostro futuro, la nostra reputazione, la nostra credibilità internazionale. Adesso toccherà al tecnico Mario Monti sistemare (o almeno provarci) la situazione, così è stato deciso dalle forze politiche. Un governo auspicabilmente “tecnico” che vada a mettere in atto le misure che possano tirarci fuori da questa situazione di enorme difficoltà. Osserveremo con attenzione il suo operato. Monti è un uomo delle banche, è un finanziere, e la paura che si sia finiti dalla padella alla brace è tanta. Certo, fare peggio di quanto s’è fatto finora è difficile, ma diciassette anni di Silvio Berlusconi ci hanno insegnato che al peggio, da noi, non c’è mai fine. Stiamo attenti!

L’opposizione reagisce gioiosa, Bersani arriva addirittura a dire che è merito suo e del PD se Berlusconi si è dimesso, continuando in quella strada “saltocarrista” intrapresa ai tempi del referendum e delle elezioni amministrative scorse. Qualcuno dovrebbe spiegargli che è anche grazie al centro-sinistra, a quella famosa legge sul conflitto di interessi (di cui nessuno parla più, lasciata a marcire in un passato lontano) che avrebbe potuto evitare tutto questo, se Silvio è rimasto al governo tanto a lungo. Stendiamo un velo pietoso.

Mi hanno colpito anche le reazioni degli irriducibili pessimisti di Sinistra, che non hanno perso tempo a urlare che ora sarà peggio di prima, che Monti è un guaio, che bisognava ricorrere alle elezioni subito (come dice anche la Lega); continuo a chiedermi quanto possano giovare, in un momento simile, due mesi di campagna elettorale con i nostri politici, con la nostra legge elettorale ecc ecc. Non abbiamo bisogno di altra immobilità. Per una volta, pessimisti di Sinistra, provate a rilassarvi e a gioire della fine di un’epoca buia, di un taglio con il passato.

L’altra categoria che in questi giorni invece sembra assolutamente scomparsa sono i militanti del PDL, i Berluscones. Ragazzi, parliamoci chiaro, il signor Silvio Berlusconi non è stato al governo per diciassette anni per magia, ma perché qualcuno (la maggioranza degli italiani) l’ha votato. Oggi i berlusconiani sembrano scomparsi, approfittano della caduta dell’Imperatore Maximo per rifarsi una reputazione, un “chi io? Mai votato Silvio”. Ad esempio mi ha fatto specie assistere a miei amici e amiche, un tempo berlusconiani convinti, festeggiare sui social network e nelle piazze la caduta di questo governo. Gente che sin dalla prima ora ha votato questo baraccone che si è trascinato (e ci ha trascinato nel baratro) in questi diciassette anni, oggi fa finta di niente, fischietta sul cadavere del suo stesso Imperatore. Questo mi spinge a riflettere molto sulla cultura dell’italiano medio (senza generalizzare troppo), ma forse sono stato sfortunato io ad avere tanti ex-berlusconiani convinti intorno. Chi lo sa. Fatto sta che io e tanti altri non vogliamo che si mischino a noi, oggi. Puntualizziamolo.

E adesso? Adesso si vedrà, abbiamo poco tempo come Paese per sistemare le cose, abbiamo poco tempo per rimboccarci le maniche e uscire da questa stramaledetta “crisi”, una parola che sentiamo ogni giorno, e che sinceramente non vorremmo ascoltare più.

Resta da dimenticare il più in fretta possibile (anche se le cicatrici le porteremo per sempre) quest’uomo che inseguendo i suoi interessi ha fatto così poco per l’Italia e così tanto per sé stesso. Mi auguro che riusciremo a parlarne sempre meno (o a non parlarne proprio) in futuro.

Mai più Silvio Berlusconi. In tutti i sensi.

La lettera ha funzionato. E adesso?

Breve riassunto delle puntate precedenti. Bloccata dalle tensioni all’interno della maggioranza di governo, l’Italia sta, neanche troppo lentamente, sprofondando nelle sabbie mobili della stagnazione economica. Nel contesto della crisi che ci attanaglia, in mancanza di un’adeguata e difficile reazione, lo scenario che si profila è quello di un impoverimento generale del paese, i cui segnali si percepiscono da tempo. Oltretutto, rischiamo di trasmettere il contagio al resto dell’Europa, visto l’elevato grado di interconnessione fra i vari paesi dell’Unione, non solo a livello prettamente economico ma anche finanziario. Approfittando dell’inefficienza delle istituzioni comunitarie e dell’incapacità decisionale nell’affrontare la crisi, Francia e Germania hanno di fatto arrogato a sé il ruolo di sceriffi della zona Euro e fra una risata e l’altra ci osservano con attenzione e ci pressano con insistenza affinché diamo il tanto agognato segnale di discontinuità. Dopo un’estate in preda ai balbettii, adesso l’Europa è passata alle maniere forti, dapprima dettando le sue linee guida per mettere in sicurezza il bilancio statale e poi lanciando un vero e proprio ultimatum per presentare i provvedimenti necessari.

L’ultimatum scadeva ieri. Il Presidente del Consiglio si è presentato al vertice di Bruxelles armato di una lettera contenente tutte le buone intenzioni del governo e niente più, oggetto della comprensibile ironia dell’intero paese (fra rimandi a Totò e Peppino e memorie d’infanzia). Il contenuto della missiva è arrivato a conoscenza del pubblico tramite agenzie di stampa quando Berlusconi era già a Bruxelles. Se è bizzarro che una lettera costituisca un documento cruciale per un paese intero, altrettanto lo è che essa sia trattata come, appunto, semplice corrispondenza da parte della Presidenza del Consiglio. Il contenuto delle 16 pagine in questione prevede misure che, seppur corrispondenti alle anticipazioni trapelate negli ultimi giorni e, solo in parte, sulla scia delle richieste già avanzate dall’UE, non hanno mancato di suscitare reazioni di netto rifiuto da parte dei sindacati e dell’opposizione. Due, in particolare, i provvedimenti contestati: l’innalzamento dell’età pensionabile a 67 anni e l’aggiramento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, manovra questa già contenuta nell’ormai famoso articolo 8 della manovra di agosto, tanto caro al ministro Sacconi.

Al di là dell’analisi sull’opportunità delle misure descritte nella lettera di Berlusconi (i licenziamenti facili –ne abbiamo parlato qui– fanno crescere l’economia oppure la disoccupazione e la precarietà?), pensando alle prossime settimane, forse giorni, non si può prescindere da tre quesiti squisitamente politici. Il primo riguarda la natura stessa delle comunicazioni del Presidente del Consiglio all’UE. La lettera altro non è che una lista di interventi che il governo si impegna a mettere in atto: detto in altri termini, un sacco di promesse. Fortunatamente, esse sono state favorevolmente accolte. Avendo assistito per 17 anni alla sorte degli innumerevoli impegni che Berlusconi ha di volta in volta preso con i suoi elettori e con i cittadini, qualche maligno potrebbe anche dire che a Bruxelles ci sono cascati. E infatti hanno chiesto all’Italia di fornire un calendario preciso per l’attuazione degli interventi proposti, promettendo, da parte loro, un costante controllo del rispetto delle scadenze. Se da un lato ciò concede ulteriore tempo prezioso al governo e al Paese (chissà se poi questo tempo lo abbiamo davvero o non sia già troppo tardi), dall’altro adesso l’Italia è vincolata all’approvazione dei provvedimenti enunciati. È qui che sorge il secondo quesito: il governo può contare su una maggioranza? Da quasi un anno l’esecutivo si regge su ripetuti voti di fiducia acquisiti grazie a una palese compravendita di consensi in Transatlantico, salvo essere battuto varie volte in “normali” votazioni, come accaduto anche ieri. La stesura della tanto discussa lettera è andata di pari passo con una lunga e difficile trattativa interna alla compagine di governo. È ragionevole attendersi un accordo sui punti del documento, ma una rapida approvazione parlamentare non può considerarsi scontata. Infine, occorre chiedersi se la maggioranza disponga non solo dei voti ma anche della credibilità e dell’autorevolezza necessarie a presentare al paese un’ulteriore carico di sacrifici, tanto più in un’atmosfera che già odora di elezioni.

Le prospettive economiche dell’Italia e il benessere dei cittadini sono legati a doppio filo alla credibilità sullo scenario internazionale. Le risate, pur inopportune, che il nome del nostro premier suscita in una sala stampa testimoniano la gravità della situazione da questo fondamentale punto di vista. Certamente, in una giornata drammatica per alcune regioni italiane a causa del disastro ambientale provocato dalla colpevole noncuranza della politica nei confronti dello sfruttamento selvaggio del territorio, assistere a una rissa in Parlamento non aiuta a risollevare l’immagine della classe politica nazionale e del Paese che le sta dietro.

 

A volte ritornano.

Era stata smembrato, privatizzato, rinominato, rincollato e alla fine liquidato, ma finora mai nessuno aveva pensato di resuscitarlo. Stiamo parlando dell’IRI, Istituto per la Ricostruzione Industriale, per decenni regina e modello delle Partecipazioni Statali ed esempio pratico della cosiddetta “Terza Via” italiana in politica economica.

Fondato nel 1933 dal governo fascista per salvare l’Italia dalla crisi economica scoppiata negli Stati Uniti nel 1929, l’IRI è sopravvissuto al regime che l’ha creato e nel corso degli anni è diventato il motore dell’economia italiana, contando partecipazioni in quasi tutti i settori dell’industria manufatturiera e arrivando a contare oltre cinquecentomila dipendenti.

Di recente il ministro dell’economia, Giulio Tremonti, ha parlato spesso delle partecipazioni statali, rimpiangendo l’IRI degli anni ’70, negando però qualunque ipotesi di ricostituzione. Alle dichiarazioni del ministro però non stanno seguendo fatti. Il tentativo di scalata di Parmalat da parte del gruppo francese Lactalis ha visto un’inattesa levata di scudi da parte dei vertici economici del nostro paese e lo stesso ministro Tremonti ha ipotizzato un cosiddetto “decreto anti scalate”.

In cosa consiste? Molto semplice, lo stato autorizza la Cassa depositi e prestiti, (l’ente pubblico che si occupa degli investimenti pubblici) a entrare nell’azionariato di aziende strategicamente rilevanti. Nella fattispecie, al posto dei francesi, le azioni di Parmalat andrebbero a un istituto di credito diretta emanazione del Ministero dell’economia.

Vi suona familiare? Un tempo l’IRI agiva con modalità simili: si prendeva carico di aziende private in grave perdita (i famosi “salvataggi”), acquistandone il pacchetto di maggioranza, creando una sinergia con i soci privati, spesso privatizzando i profitti e scaricando alla finanza pubblica le perdite. Si trattava di una funzione in primo luogo, sociale e assistenzialistica, ma allo stesso tempo permetteva all’economia italiana, affiancata dai capitali di Mediobanca, di competere ad armi pari sullo scenario globale. La cara vecchia IRI riusciva perfettamente lì dove le nostre aziende, oggi, miseramente falliscono.

Ma è realmente realizzabile un colosso industriale simile ai giorni nostri?

La risposta è sicuramente negativa, e per alcune ottime ragioni. La più importante è senza dubbio la presenza dell’Italia nell’Unione Europea. Dalla fine degli anni ’80 garanzie statali sui debiti delle aziende statali, ricapitalizzazioni di aziende e altre pratiche volte a modificare il mercato finanziario e la libera concorrenza con iniezioni di denaro pubblico non sono più permesse agli stati membri dell’Unione. Di conseguenza il modello “sociale” dell’IRI, oggi, non sarebbe più possibile. A questo si aggiungono le gravi condizioni della nostra finanza pubblica, probabilmente incapace di avviare operazioni di largo respiro o troppo onerose. Ultimo ostacolo alla “nuova IRI” è l’attuale statuto della Cassa depositi e prestiti che vieta esplicitamente l’impiego del denaro disponibile per investimenti potenzialmente a rischio.

Allora cosa potrebbe avere in mente il ministro Tremonti?

L’ipotesi più plausibile è quella di seguire il modello francese della Caisse des Dépôts et Consignations, un ente pubblico simile al suo omologo italiano, ma con la sostanziale differenza che questa può liberamente disporre del denaro depositato e utilizzarlo per investimenti nel settore privato. L’esempio più celebre è la Danone, di cui la Caisse detiene una quota parti al 3,6% delle azioni. Il rischio di un ritorno dei “Panettoni di Stato” sembra per il momento scongiurato. Resta però da fare una considerazione: anni di liberismo economico sfrenato e senza scrupoli ci stanno consegnando generazioni più povere di quelle precedenti e un mondo in perenne crisi economica. In questo contesto l’intervento dello stato, come arbitro o come giocatore, a questo punto diventa essenziale, possibilmente senza gli eccessi e le distorsioni che in passato hanno caratterizzato il sistema italiano e quello di tanti altri paesi.

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Manifesto per la felicità – Recensione

[stextbox id=”custom” big=”true”]Un nuovo autore su Camminando Scalzi.it

Federico esordisce sulla blogzine recensendo il libro “Manifesto per la felicità”. Si presenta con una semplice frase…
Dati Biografici: io sono ancora di quelli che credono, con Croce e Calvino, che di un autore contano solo le sue opere (quando contano, naturalmente). A differenza di loro, io sono ancora vivo

…benvenuto su Camminando Scalzi.it [/stextbox]

Qual è il prezzo che stiamo pagando in nome della nostra prosperità economica?

La nascita di indicatori attendibili per misurare la felicità di un paese ha aperto una lunga serie di dibattiti sulla maniera più efficace per stabilire il livello di benessere di una comunità. Quello che sembra ormai certo è che il PIL da solo non basta.

Scorrendo la classifica della felicità mondiale, troviamo in testa  paesi come Messico, Colombia e Vietnam, tutti ben al di sopra degli USA, che tra i paesi occidentali è il fanalino di coda. Una situazione paradossale. Com’è possibile che un’aspettativa di vita più alta, maggiore democrazia, migliore istruzione e un largo accesso ai beni di consumo non si traducano di fatto in un aumento del benessere dei cittadini? Il libro di Stefano Bartolini analizza il “paradosso della felicità” e individua possibili soluzioni.

Per l’autore il cuore del problema è relazionale: sul lungo periodo, nelle società occidentali, si è registrato infatti un degrado nella qualità delle interazioni sociali. Maggiore individualismo ed esperienze relazionali meno frequenti e gratificanti rappresentano la chiave per spiegare il paradosso.  Secondo Bartolini quindi è possibile e necessario trovare alternative per coniugare prosperità, economia e felicità.

Migliorare la qualità della scuola, del lavoro, della sanità, dei consumi con proposte concrete è la sfida che ci lancia questo libro.

Stefano Bartolini insegna Economia Politica presso la facoltà di Economia “Richard M. Goodwin” dell’Università di Siena. Ha pubblicato numerosi articoli sulle più autorevoli riviste scientifiche.  Questo è il suo primo libro.

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Crescere o decrescere?

Chi ha un mutuo sulle spalle è già al corrente di quello che sto per dire. In seguito agli avvenimenti libici, alcuni giorni fa la BCE ha annunciato di voler alzare i tassi di interesse. La notizia ha provocato un immediato rialzo del tasso europeo che governa i mutui. In parole povere, le rate del mutuo diventano sostanzialmente più pesanti. È un giro un po’ complesso, quello che porta da Benghasi al nostro bilocale, che da un punto di vista tecnico economico non fa una piega. La domanda è: è normale? Sì, la globalizzazione è anche questo, per cui avvenimenti distanti da noi, senza alcun legame apparente con la nostra situazione, comportano conseguenze tangibili nella vita quotidiana. La mia domanda però, era un’altra: è normale che siano l’economia e il mercato a tenere in mano la politica e a governare le nostre vite, e non viceversa? In un certo senso, ce la siamo un po’ cercata, come si suol dire, visto che è così che funziona l’economia capitalista. Anni di lotte avevano imposto dei sistemi che mettessero un freno alla corsa del guadagno per il guadagno, ma poiché la politica è stata pian piano “comprata” dalle multinazionali, questi sistemi stanno saltando, con gli effetti che vediamo.

Quando si parla di economia, un concetto la fa padrone: il PIL. PIL è l’acronimo di Prodotto Interno Lordo. Corrisponde al “valore complessivo dei beni e servizi prodotti all’interno di un Paese in un certo intervallo di tempo (solitamente l’anno) e destinati ad usi finali (consumi finali, investimenti, esportazioni nette)” (Wikipedia). Per farla semplice, è la somma di tutte le fatture emesse in un anno in Italia (sono consapevole che questa frase farà rabbrividire gli economisti, ma cerco di rendere l’idea). L’intento di questo indicatore è quello di quantificare la ricchezza prodotta da uno Stato, e infatti la classifica che determina quali paesi entrano nel G8, G20, etc. è stilata basandosi sul PIL. Molte sono le obiezioni di fronte a questo sistema di valutazione della ricchezza. Celebre il discorso di Robert F. Kennedy alla University of Kansas, il 18 marzo del 1968. Lo trascrivo (traduzione italiana tratta dal sito di Beppe Grillo) perché penso che valga davvero la pena leggerlo. Per chi volesse apprezzarlo in versione originale, riporto il link sul sito della John F. Kennedy Presidential Library.

 

“Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni.
Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del paese sulla base del prodotto nazionale lordo (PIL).
Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana.
Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari.
Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti.
Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra di noi. Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese.
Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere Americani.”

 

Ricordate lo spot che uno dei precedenti governi Berlusconi aveva finanziato, con quel tizio che andava in giro a comprare ogni ben di Dio, con una busta che diceva “L’economia gira con me”? Questa è l’essenza del PIL. Più facciamo la nostra parte di buoni consumatori, più spendiamo per acquistare, più contribuiamo alla crescita della nostra economia, nel modo in cui è intesa oggi. È accettabile questo concetto? È una domanda che chiunque abbia un cervello per pensare è tenuto almeno a porsi. Ci sono persone che a questa domanda rispondono no, ispirandosi a un principio che sta prendendo sempre più piede e sul quale credo sia opportuno fermarsi a riflettere. Parlo del “downshifting” o, nella sua traduzione italiana, della “decrescita”.  Per descriverlo, cito le parole di Maurizio Pallante, fondatore del Movimento per la decrescita felice:

 

“La decrescita è elogio dell’ozio, della lentezza e della durata; rispetto del passato; consapevolezza che non c’è progresso senza conservazione; indifferenza alle mode e all’effimero; attingere al sapere della tradizione; non identificare il nuovo col meglio, il vecchio col sorpassato, il progresso con una sequenza di censure, la conservazione con la chiusura mentale; non chiamare consumatori gli acquirenti, perché lo scopo dell’acquistare non è il consumo ma l’uso; distinguere la qualità dalla quantità; desiderare la gioia e non il divertimento; valorizzare la dimensione spirituale e affettiva; collaborare invece di competere; sostituire il fare finalizzato a fare sempre di più con un fare bene finalizzato alla contemplazione. La decrescita è la possibilità di realizzare un nuovo Rinascimento, che liberi le persone dal ruolo di strumenti della crescita economica e ri-collochi l’economia nel suo ruolo di gestione della casa comune a tutte le specie viventi in modo che tutti i suoi inquilini possano viverci al meglio.”

 

I sostenitori della decrescita sono quelli che scelgono di rinunciare a un lavoro con uno stipendio maggiore e alla casa in centro, pur di avere il tempo di giocare con i figli e di dedicarsi alle proprie passioni. Sono quelli che vedono l’automobile come una fonte di spese inutili in termini economici e ambientali, e preferiscono spostarsi solo quando serve e con mezzi alternativi. Questo non significa essere nostalgici del Medioevo. Significa solo applicare il vecchio motto che recita “i soldi non danno la felicità”, o meglio, la felicità non passa necessariamente per vie economiche, anzi, spesso, le cose che ci rendono felici sono quelle che non si possono comprare.

In breve, si vive per lavorare o si lavora per vivere? La decrescita non è che una delle risposte a questa domanda. È un modo di intendere la vita, il risultato di una scala di valori in cui il denaro rimane sempre, inequivocabilmente dietro gli affetti.

Occorrerebbe almeno riflettere sul fatto che un principio del genere sia così in contrasto con la società odierna, in cui molte persone devono lavorare dieci ore al giorno per sbarcare il lunario.