Non si sa quando termineranno ma, di sicuro, continueranno. Stiamo parlando delle cosiddette “missioni umanitarie” dei nostri soldati all’estero. Dopo le solite polemiche legate ai costi delle missioni, giovedì 7 luglio il Consiglio dei Ministri ha approvato il rifinanziamento, anche se ha posto una tregua: in pratica, circa duemila militari rientreranno da Libia, Libano e Balcani e ci sarà anche un taglio di 120 milioni alle spese per il prossimo semestre: da 811 a 620 milioni. I tagli riguardano soprattutto la Libia, dove si passa dai 142 milioni del primo semestre ai 58 del secondo. La nave ammiraglia Garibaldi sarà ritirata con i suoi 884 uomini e tre aerei che, tuttavia, saranno sostituiti da alcuni velivoli che partiranno dalle basi italiane. Dall’Afghanistan non andrà via un solo soldato e sono stati stanziati 15 milioni in più per la sicurezza dei nostri militari. Inizialmente, la Lega aveva posto il veto sul rifinanziamento, ma ha accolto con soddisfazione il decreto, anche se non sono mancate polemiche tra il leader del carroccio, Umberto Bossi, e il ministro della Difesa Ignazio La Russa. Si tratta di una sorta di compromesso che alla fine accontenta tutti: da un lato il segretario leghista che da qualche giorno veste i panni del (presunto) pacifista, dall’altro il ministro della Difesa che voleva a tutti i costi che le missioni proseguissero.
A ogni modo, ancora una volta è stato deciso che i nostri soldati devono continuare a rischiare la vita in zone molto pericolose, dove tra l’altro non sono mai stati visti benissimo da una parte delle popolazioni locali, come dimostra l’alto numero di militari uccisi a seguito di attentati. Ormai è da tempo che i soldati italiani vivono in zone di guerra, anche se ipocritamente le loro missioni vengono definite “di pace”. In realtà il rischio di morire è molto alto, ma gli ordini governativi sono quelli di dover continuare, a rischio di perdere la vita. In Afghanistan sono tantissimi gli italiani morti in un paese che stenta a conoscere la democrazia e dove i talebani, nonostante le promesse istituzionali, non sono mai stati definitivamente sconfitti. Insomma, le “missioni di pace” proseguono più che mai e proseguiranno ancora per molto tempo. Tutto ciò può far fare bella figura all’Italia davanti agli altri paesi del mondo, ma nei fatti i nostri soldati continuano a rischiare la vita allo scopo di contribuire a portare la democrazia in paesi in cui questa difficilmente riuscirà a entrare nei meccanismi della politica locale, senza considerare poi i costi molto alti che lo stato italiano deve fronteggiare e che, forse, potrebbero servire per questioni interne che interessano maggiormente al popolo italiano.
Sono oramai passati circa quattro mesi da quando il popolo libico si è fatto sedurre da quella raffica di libertà che sta conquistando l’intero Mediterraneo. Alle sommosse popolari si è però opposta la scellerata pazzia di un capo di Stato incapace di adempiere al proprio ruolo.
Spinta da un’altruista senso di umanità, l’Italia ha deciso di prendere parte all’intervento militare avviato su mandato ONU col fine di “proteggere” la popolazione libica. Sono passati quasi tre mesi da quel fatidico giorno, e a oggi nulla è cambiato. I civili continuano a essere brutalmente assassinati, Gheddafi viene immortalato mentre gioca a scacchi o tiene uno dei suoi deliranti comizi, e nel frattempo i bombardamenti “d’occidente” sembrano semplicemente aggiungere danni al disastro già esistente.
Della guerra in Libia se ne parla sempre meno, ma da quando la Nato ha assunto la direzione della campagna aerea, i voli militari nei cieli della città in cui vivo si sono fortemente intensificati, con continui decolli e atterraggi in tutto l’arco della giornata. Sono gli aerei della base statunitense di Camp Darby, che attraverso l’aeroporto militare di Pisa trasportano armi e munizioni per gli alleati delle operazioni in Libia.
In un articolo pubblicato da Il Manifesto del 1° giugno, Manlio Dinucci, membro del Coordinamento No Hub, spiega inoltre gli ingenti costi di questa sanguinosa guerra contro Muammar Gheddafi.
Per questa “missione” il nostro Paese sta spendendo milioni di euro. Un’ora di volo dei caccia-bombardieri Tornado costa 32.000 euro, che passano a 60.000 per gli aerei da ricognizione. Un missile costa 170.000 euro, un raid aereo costa dai 200 ai 300 mila euro, mentre per lo stazionamento di cinque navi militari davanti alle coste libiche servono oltre 10 milioni di euro al mese. Un totale di circa 100 milioni di euro al mese per bombardare quello stesso leader di stato a cui qualche mese fa baciavamo la mano…
E mentre noi siamo qui a discutere se sia giusto o meno intervenire in questo conflitto, in Libia si continua a morire sotto l’ombra di costosissime incursioni militari.
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Non si parla d’altro oggi. Il web, i media, i giornali, la notizia rimbalza da una parte all’altra del globo. In USA si fa festa grande, si canta l’inno nazionale. “Giustizia è fatta!” le parole di Barak Obama (via | Repubblica.it). Sono passati quasi dieci anni da quel tragico undici settembre rimasto nella storia e impresso nelle memorie di tutti i cittadini del mondo. Quei due aerei che si schiantano sulle Torri Gemelle, le centinaia di morti, l’inizio di una guerra infinita contro il terrorismo mediorientale, l’invasione del Pakistan, dell’Afghanistan, dell’Iraq. E Osama Bin Laden era rimasto vivo, l’unico colpevole non ancora catturato, per ben dieci anni. Naturalmente sono stati in tanti quelli che hanno pensato che in realtà il capo di Al Qaida fosse morto da tempo, che in realtà non fosse più lui a muovere le redini dell’organizzazione terroristica che ha messo in ginocchio i formidabili Stati Uniti d’America. Fino a perdersi nelle nebbie dei complottisti, che hanno spesso visto in Bin Laden una scusa plausibile per permettere a USA e Occidente di imperversare nelle terre del Medio Oriente, alla ricerca dell’oro nero e di investimenti multimiliardari.
Vero o meno che sia -sono già tantissime le perplessità a riguardo, come raccontato in questo articolo di Agoravox– la notizia è che, nel concreto, da oggi Bin Laden non esiste più. È stato “giustiziato” da un commando Usa proprio in Pakistan, dopo anni di indagini, una grande caccia durata forse troppo, o forse fatta durare troppo. Probabilmente non lo sapremo mai, e poco interessa in fondo.
Il terrorismo è stato sconfitto? Giustizia è fatta? Difficile pensarlo e crederlo. Bin Laden giustiziato rappresenta un’incredibile mossa pubblicitaria, che travalica l’evento in sé, diventa propaganda, diventa l’obbiettivo raggiunto dall’amministrazione Obama dove le precedenti amministrazioni repubblicane targate Bush avevano fallito. E ci si rende conto di quanto in realtà l’americano avrà sempre la fondina con l’arma carica, poco importa di che schieramento si tratti. Si chiude oggi un ciclo storico fatto di una battaglia al terrorismo senza quartiere, che ha visto nascere e proseguire guerre infinite che hanno fatto migliaia di morti. Un ciclo che si chiude virtualmente, visto e considerato che da domani sarà tutto uguale a prima, con qualche voto in più e un’icona, un villain, in meno. Senza considerare il concreto rischio martirio (e infatti pare che la salma di Osama verrà sepolta in mare, per evitare pellegrinaggi fondamentalisti).
Rimangono ancora tante domande, a cui probabilmente non troveremo mai risposta, se non chissà tra quanti anni. Ne rimane una che va fatta e ognuno di noi potrà poi rispondere come meglio crede: era davvero necessario un’esecuzione immediata e sommaria senza processo? Portiamo la democrazia e la libertà in posti in cui è negata, e uccidiamo uno dei più grossi criminali della storia dell’umanità con un colpo in testa, appena ritrovato dopo dieci anni di ricerche?
Provate a chiedere a chiunque di elencarvi i paesi dove si sta combattendo una guerra. Nella migliore delle ipotesi i conflitti conosciuti non arriveranno a dieci, ma la maggior parte delle persone si limiterà a citarvi i nomi delle guerre famose, quelle di cui possiamo seguire quotidianamente gli sviluppi grazie alle notizie diffuse a raffica dalla carta stampata e dai telegiornali: Israele-Palestina, Libia, Afghanistan, Iraq saranno gli stati che quasi tutti pronunceranno, convinti di aver dato una risposta esauriente.
Purtroppo il triste elenco dei paesi che da anni sono devastati da guerre civili, lotte fra diverse etnie, ribellioni contro tiranni oppressivi e regimi militari è molto molto più lungo. Attualmente nel mondo le guerre in corso sono trentuno. Guerre che causano tantissimi morti ogni giorno e che andrebbero raccontate, tutte quante, senza nessun pregiudizio e senza decidere a tavolino quelle da rendere famose e quelle da lasciare lì, nel dimenticatoio (abbiamo linkato un elenco nell’articolo “La legione dei pacifinti” di Griso, ricordate? ndR).
Ma perché certe guerre diventano l’argomento preferito di tutti i telegiornali e le testate giornalistiche nazionali, mentre certe altre vengono accuratamente evitate? E ancora, perché la comunità internazionale e gli stati definiti “democratici” si battono per liberare alcuni popoli da regimi oppressivi, mentre ignorano e si disinteressano a situazioni altrettanto cruente e disperate?
Per rispondere a queste domande bisogna affrontare l’argomento in un modo decisamente più ampio. Senza scendere nei dettagli di ogni conflitto, ognuno politicamente e strategicamente diverso, si possono trovare delle linee guida che ci aiutino a capire come mai non tutte le guerre sono uguali.
Un’analisi più approfondita della situazione attuale ci porta a individuare tre possibili strategie che in genere vengono adottate dagli stati che esportano democrazia nel Pianeta (per quello che può significare “esportare democrazia”).
La prima consiste nell’intervento armato contro uno degli schieramenti in guerra. L’obiettivo ufficiale è sempre liberare lo Stato in questione dal dittatore o dai ribelli di turno e porre fine alle atrocità che ogni guerra infligge quotidianamente alla popolazione civile. In realtà in questi casi si decide di intervenire in maniera radicale per difendere gli interessi economici che gli stati ricchi hanno nell’area del conflitto, e che vengono minacciati dai nuovi possibili scenari politici generati dalla guerra. Di queste guerre si deve parlare, e i media in genere ci bombardano di informazioni etichettando buoni e cattivi e spingendo gli ascoltatori a schierarsi emotivamente con chi arriva a salvare quei poveri popoli indifesi (uccidendo e usando la violenza, ma questo è solo un dettaglio…).
La seconda è quella che viene chiamata “intervento umanitario o di pace” e che porta, o dovrebbe portare, esclusivamente aiuti umanitari di ogni tipo ai popoli che vivono in un Paese dove si sta svolgendo una guerra. Già parlare di missione militare di pace in un Paese dove si combatte, dovrebbe se non altro destare qualche sospetto sulle reali intenzioni degli stati che aiutano così altruisticamente il prossimo. Mi piacerebbe un giorno capire che cosa significa realmente fare una missione di pace, come se l’arrivo di una marea di militari armati, per di più stranieri, serva a portare la pace in quei posti devastati dalla guerra. La verità è che si adotta questa strategia perché non si vuole volontariamente intervenire nel conflitto, per non interferire con gli interessi delle nazioni ricche che sono economicamente coinvolte, pur scegliendo di essere presenti sul territorio. Anche di queste missioni-non guerre si parla eccome. Come lasciarsi sfuggire l’occasione di apparire dei pacifisti capaci di rischiare la propria vita recandosi nelle zone di guerra con il solo scopo di aiutare chi soffre?
La terza strategia, sicuramente la peggiore, è il non intervento. Letteralmente ignorare che in certi stati si combatte da decenni, dimenticarsi che quelle popolazioni sono ridotte allo stremo e alla fame, chiudere gli occhi davanti alle numerose morti di civili, di donne e di bambini, e spingere quei posti nel limbo della disinformazione globale, perché si sa, se di una cosa non si parla, di fatto quella cosa agli occhi dei cittadini del mondo non esiste. E dunque silenzio.
Gli interessi economici legati alle guerre dimenticate sono molteplici. Per prima cosa le armi. Queste guerre sono quasi tutte localizate nei paesi poveri, il cosiddetto “Sud del Pianeta”. Paesi che non producono nulla, figuriamoci armi. Dunque il mercato delle armi dei paesi industrializzati è alimentato da quei conflitti silenziosi che chi le produce non ha alcun interesse a far cessare. In secondo luogo la presenza di petrolio e altre materie prime. Si tratta di aree ricche che vengono depauperate, sfruttate e derubate dai potenti del Pianeta senza che nessuno possa intervenire. La guerra aiuta a mantenere vivo il mercato, in modo che sia più facile da gestire e con un margine di guadagno decisamente più ampio. Molte di queste guerre sono sostenute e finanziate da potenti lobby economiche e finanziarie occidentali che hanno interesse a lasciare che la guerra vada avanti indisturbata. Non è un segreto che queste lobby finanzino dittatori e ribelli in cambio di vantaggiose condizioni di sfruttamento di giacimenti di petrolio, oro, diamanti, uranio, koltan, cobalto e rare materie prime ormai indispensabili per la produzione delle più avanzate tecnologie.
Solo per fare qualche esempio, in Sudan dal 2003 ad oggi i due gruppi armati Army (Sla) e del Justice and Equality Movement (Jem) combattono, uniti dal 2006, contro il regime del presidente Omar al-Bashir. Il bilancio è drammatico: circa 300 mila morti, 200 mila profughi fuggiti in Ciad e un milione e mezzo di sfollati interni. Inoltre dalle testimonianze di diversi abitanti e operatori umanitari è emersa la presenza di veri e propri lager dove si consumano le più atroci violenze a danno di guerriglieri e popolazione civile: persone torturate, civili uccisi nei modi più terribili, donne violentate. Anche i ribelli pare si siano macchiati delle peggiori atrocità nei confronti di quella stessa popolazione civile che dichiarano di voler liberare. Una guerra atroce per contendersi il territorio del Darfur, ricco di petrolio. Secondo Amnesty International Iran, Cina, Russia, Bielorussia e alcune società lituane, ucraine e inglesi sarebbero tra i principali fornitori di armi del governo Sudanese. Gli stati Uniti, Israele ed Eritrea invece pare finanzino e sostengano i ribelli.
In Costa d’Avorio dal settembre 2002 a oggi si stimano circa 3 mila morti. Un colpo di stato ai danni del presidente Laurent Gbagbo ha dato il via a una guerra civile che contrappone l’esercito ivoriano e i ribelli delle Forze Nuove, schieramento che comprende tre formazioni armate. Russia, Inghilterra, Romania e Angola forniscono al governo ivoriano armamenti, elicotteri da combattimento e milizie private. I gruppi ribelli invece ricevono armi dal Burkina Faso, da Liberia e Sierra Leone, anche se pare che le armi da loro usate siano principalmente quelle sottratte da depositi e caserme governative occupate. Il Paese ancora oggi versa in uno stato di confusione generale a scapito, come sempre, della popolazione civile, costretta a subire i continui scontri tra governo e ribelli, tra le cui file si registra la presenza di numerosi bambini-soldato. Bambini che non conoscono altro che guerra e violenza. Bambini che dovrebbero giocare e sorridere, invece di uccidere.
Ma queste sono quelle guerre di cui non si deve parlare. Tutto deve filare liscio, niente deve intromettersi nei vergognosi affari di chi si arricchisce grazie a tutta questa violenza. E così vige la regola del silenzio. Silenzio della comunità internazionale, silenzio dei media, silenzio della gente. Ma la disperazione di quei popoli che gridano il proprio dolore, che cercano aiuto, che sperano che qualcuno si accorga di loro, non può e non deve mai più rimanere inascoltata. Probabilmene viviamo in un mondo sordo. Ma non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire.
Nel mondo sono in corso 31 conflitti (Click per ingrandire)
La guerra in Libia sembra aver smosso le coscienze di tutti. È incredibile come ci siamo svegliati da un giorno all’altro pervasi da questa voglia di Pace sincera, dal desiderio che il conflitto si risolva subito, dal pensiero che la guerra è sempre ingiusta, sbagliata, “senza se e senza ma”.
Parole, chiacchiere, emozioni deboli vendute sul social network di fiducia, come se si stesse parlando di qualcosa di semplice, di stupido. Gli status sulla Pace abbondano, e tutti quelli che fino a venerdì sera erano impegnati a seguire gli eventi per il weekend, la discoteca o la trasmissione televisiva, pronti a diventare fan di questa o di quella pagina da ridere (simpatiche, per carità), si svegliano con la guerra a due passi e diventano tutti pacifisti. “Viva la pace”, “la guerra è sbagliata”, “stiamo facendo un’altra crociata per il petrolio” e così via.
Insomma, fino a una settimana fa tutti a incavolarsi (giustamente) con il dittatore pazzo Gheddafi perché ammazzava la sua stessa gente e ora che finalmente – con un ritardo mostruoso e colpevole, bisogna ribadirlo – l’Occidente si muove per fare qualcosa, tutti si lamentano dell’attacco. Ma signori, come lo vogliamo cacciare un leader completamente fuori di testa che uccide la sua stessa gente? Gli spediamo una scatola di cioccolatini? Davvero vi aspettavate che tutto si potesse risolvere con belle parole e con la diplomazia? Ma in che mondo vivete? Perché secondo voi l’occidente “salvatore” si è mosso per la Libia, se non per ragioni economiche? Lo scopriamo oggi, o è una cosa che già sapevamo da tempo?
E allora smettiamola con tutta quest’ipocrisia al contrario, smettiamola di muoverci solo per le mode del momento, smettiamola di trattare queste questioni con una leggerezza e una stupidità che affossano la nostra dignità umana. Siamo gente che ha il culo al caldo davanti a un PC, questo siamo. E questo modo di fare è una delle mode più becere e negative che abbiano portato i social network. Lo volete sapere in che mondo vivete?
Ve lo spieghiamo subito. Vivete in un mondo in cui ci sono attualmente cinquantuno stati coinvolti in conflitti di qualche tipo, più una miriade infinita di forze separatiste, cartelli della droga, terroristi, milizie tribali che si combattono ogni giorno, si scannano, si ammazzano. Alcuni di questi conflitti vanno avanti da trenta, quaranta, cinquant’anni. Questo è il mondo in cui viviamo. Allora se vogliamo riempirci la bocca della parola Pace, se vogliamo fare i pacifisti, gridiamolo ogni giorno lo sdegno nei confronti delle guerre, anche quelle più sperdute, quelle di cui non importa niente a nessuno. Non trasformiamo l’orrore della guerra in una moda passeggera. Abbiamo già dimenticato l’Iraq, l’Afghanistan, eppure anche lì le nostre truppe sono impegnate, i nostri soldati muoiono, e davvero noi non c’entriamo un cavolo.
Non ci sconvolgiamo troppo di fronte alla “incredibile” rivelazione che ogni guerra sia fatta per interessi economici. State tranquilli che non c’è un solo proiettile al mondo che venga sparato e che possa fregiarsi dell’aggettivo “umanitario”. Non esistono conflitti umanitari, è un ossimoro, è una negazione intrinseca. Il conflitto, la guerra, è sempre uguale. È un dramma, è un accadimento in cui muoiono le persone, è una delle più becere invenzioni dell’animo umano. Questo è la guerra, questo è ogni guerra.
E allora mettiamoci un po’ tutti una bella mano sulla coscienza, risfoderiamo le bandiere della Pace, usiamole sempre, ogni giorno della nostra vita, per tutte le persone che ogni giorno combattono sul nostro pianeta, anche quelle nello staterello che non ha né gas e né petrolio, lo staterello sfortunato del centro-Africa che non vedrà mai le forze occidentali portare loro umanità e salvezza, non vedrà mai gli Usa scaricare centodieci missili di potenza militare che ha urgenza di esprimersi in pochi istanti per risolvere un conflitto. E quando si tratterà di votare i nostri rappresentanti politici, di decidere chi deve governare e rappresentarci, pensiamoci dieci volte prima di mandare al governo gente che bacia le mani che si sporcano di sangue in questi giorni. Facciamo i pacifisti anche quando accadono queste cose, quando i dittatori li accogliamo a braccia aperte, per poi ritrovarci nell’imbarazzante condizione di non poter prendere una decisione netta, perché chissà quali accordi e macchinazioni sono stati fatti in precedenza. Mandiamo a casa la gente che continua a tenere i soldati in Iraq e Afghanistan, mandiamo a casa chiunque dica di sì a una sola singola guerra, chiunque non si voglia battere ogni giorno per il piccolo staterello del centro-Africa, e non solo per il pozzo di petrolio mediorientale.
Questo significa essere pacifisti sempre, e non soltanto con un “mi piace” su Facebook.
Smettiamola di trattare la guerra e la Pace come due mode del momento. La Pace è una cosa seria, molto seria. Cerchiamo di mantenere almeno un minimo di rispetto e di dignità umana, noi che la Pace ce l’abbiamo garantita solo per fortuna di nascita.
In questo sito trovate un aggiornamento di tutti i conflitti attualmente presenti sul nostro pianeta: Guerre nel Mondo.
Mercoledì 2 febbraio 2011 il Palazzo Ducale di Lucca ha ospitato l’incontro “Medio Oriente: tra conflitti e dialogo”, a cui hanno partecipato anche sei giovani Palestinesi tra i 15 e i 17 anni, che hanno avuto modo di raccontare la propria storia e far conoscere le condizioni in cui sono costretti a vivere. Due ragazzi e quattro ragazze, attivisti di associazioni locali, con la possibilità di venire in Italia e divulgare le tante cose che ancora non conosciamo di quegli sfortunati territori.
E’ dal 1948, data che decreta la nascita dello Stato d’Israele, che il mondo discute della “questione Israelo-Palestinese” senza riuscire a trovare una soluzione all’annoso conflitto che contraddistingue quei territori. “L’occupazione non è solo il problema di due popoli che si scontrano – spiega un giovane diciassettenne con uno sguardo che tradisce una sofferta maturità. – In realtà è una cosa più complessa, perché l’occupazione è una limitazione continua, che ostacola e priva noi cittadini di vivere una vita normale. Noi ragazzi diventiamo come dei robot che non possono prendere le decisioni autonomamente. Sono gli Israeliani a decidere dove e quando noi possiamo andare in un posto, e questa limitazione di libertà è davvero umiliante e snervante per tutti noi”.
“Io abito nel centro storico di Gerusalemme est – spiega il suo coetaneo. – Lì non ci sono posti di blocco, ma a volte può capitare di incontrare qualcuno che, riconoscendoti come arabo, decide di insultarti, sputarti addosso o magari darti uno schiaffo, solo perché sei un ragazzo. Poi a volte ci sono delle operazioni militari dentro la città e a quel punto i militari israeliani hanno il diritto di fermarti, chiederti un documento d’identità e tenerti lì fermo anche per delle ore. I miei compagni di classe che invece hanno casa fuori dalla città hanno il permesso di entrare a Gerusalemme solo per andare a scuola, quindi devono alzarsi presto per arrivare in tempo, prima che scada il permesso, anche perché ci possono impiegare anche tre ore per fare una strada che normalmente impegnerebbe venti minuti di tempo. Lo stesso vale per i maestri e i professori che abitano fuori dalla città, che arrivano a scuola già stanchi. E’ un’umiliazione e una violenza che mi deprime e mi impedisce di immaginare un futuro”.
“Viviamo in un costante stato di incertezza e paura – spiega una delle ragazze – perché i militari potrebbero entrare, distruggere case, e persone che conosciamo potrebbero morire. Conosco molte vittime delle aggressioni militari, ragazzi mutilati dalle mine che hanno perso una mano, un piede o altro”…
“Un fatto che vedo tutti giorni è quello del muro – racconta un’altra delle giovanissime ragazze. – E’ un muro di discriminazione e Apartheid, che non divide solo lo Stato Israeliano dai territori palestinesi, ma passa proprio fra le case dei Palestinesi, separando famiglie e amici. Dividendo i ragazzi dalla loro scuola e i religiosi dal proprio luogo di culto. Vivere in queste condizioni è molto difficile. Io ad esempio non sono mai stata a Gerusalemme anche se dista solo qualche chilometro da casa mia. Per andarci dovrei richiedere un permesso che potrebbe arrivare anche dopo un mese o essere addirittura rifiutato. Quando sono arrivata in Italia mi sono accorta di quanto nel mondo si parli del mio Paese. Da anni se ne parla, ma la verità è che nessuno sa davvero cosa significa vivere lì, e nessuno fa niente per cambiare le cose”.
“Ciò che più mi angoscia dell’occupazione – ha concluso l’intervento dell’ultima ragazza – è il fatto che l’occupazione vuole completamente cancellare la nostra identità. I nostri insegnanti a scuola non possono parlare di certe cose, della nostra cultura o della nostra storia. Il sistema scolastico è controllato dall’occupazione. Nel 2009 Gerusalemme è stata eletta capitale della cultura araba, e da quel momento Israele ha deciso di chiudere un sacco di associazioni, fra cui quella con cui io collaboravo, che serviva per rafforzare l’identità culturale e storica del mio popolo”…
Concluso l’appassionato intervento dei sei giovani palestinesi, Francesca Pasquato e Elena Gasparri (Assopace Pisa) hanno presentato il progetto“Educare al conflitto per educare alla pace: con gli occhi dell’altro”, nato per sensibilizzare i ragazzi delle scuole superiori sulla tematica del conflitto, proiettando poi alcuni stralci del documentario “Route 181. Frammenti di un viaggio in Palestina-Israele”, realizzato da un regista Palestinese e da uno Israeliano per spiegare la complessità del tema, senza pregiudizi ideologici, insieme, per raccontare una verità comune…
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[stextbox id=”custom” big=”true”]Torna a scrivere per Camminando Scalzi Giovanni Paci, consulente e ricercatore indipendente che opera nel campo della programmazione e dell’analisi delle politiche e dei servizi sociali. Ha 45 anni. È editor del blog pratichesociali dove vengono raccolti contributi sui temi della giustizia sociale, dei diritti umani, delle migrazioni e della ricerca sociale. È possibile seguirlo anche su Twitter.
A questo link i suoi articoli per questa blogzine. [/stextbox]
Ci sono due modi di essere curiosi del mondo, due modi di esplorare la realtà che ci circonda. C’è chi è portato a cercare e a muoversi nell’infinitamente grande e chi nell’infinitamente piccolo. Chi è attratto dalla profondità del mare e chi dalla sua estensione. Chi prende la via che porta alla vetta del monte, chi imbocca la strada che porta dall’altra parte del mondo. Talvolta queste esigenze hanno, dentro di noi, un peso uguale e ci troviamo tirati e lacerati tra il desiderio di radici, di casa, di terra, e quello di lontananza, di distacco, di spazio. Superficialmente, queste dimensioni sono state spesso contrapposte, identificando le radici nella conservazione e la partenza con il progresso. C’è invece una straordinaria consonanza tra chi cerca in profondità e chi in estensione, ed è provocata dal sincero desiderio di non dare per scontato ciò che abbiamo di fronte, dall’intuizione che le cose sono sempre più di ciò che appaiono e dall’aver compreso che non accettare la realtà per come ci viene rappresentata ma andare alla ricerca di nuove visioni e rappresentazioni del mondo può riservarci straordinarie sorprese.
Clint Eastwood ha diretto e interpretato un bellissimo film, uscito quasi tre anni fa, intitolato “Gran Torino“. Un vecchio operaio della Ford in pensione, reduce della guerra di Corea e vedovo, non vuole andare via dalla propria casa sebbene il quartiere in cui vive sia ormai diventato un ghetto degradato abitato da immigrati, soprattutto orientali. Lì ha tutte le sue cose: oltre alla Ford modello Gran Torino, un garage pieno di attrezzi e oggetti accumulati in una vita; piccole cose, ognuna con il proprio senso e significato. Il film si snoda lungo l’intrecciarsi delle esistenze del vecchio pensionato scorbutico e diffidente con quelle dei vicini vietnamiti, soprattutto di un ragazzo e di sua sorella, con cui il vecchio entrerà sempre più in sintonia fino a trovare nella difesa della loro vita il senso ultimo della propria esistenza.
La poesia del film è data non solo dai contrasti tra la durezza del mondo esterno e la dolcezza degli animi dei protagonisti ma anche dalla scoperta che vite apparentemente così lontane, come quella di un reduce di guerra attaccato alla propria terra e alla propria patria e quelle di due ragazzi immigrati di seconda generazione, hanno in realtà un ampio terreno comune dove poter costruire relazioni profonde e significative.
Cos’è che permette tutto questo? Cosa fa sì che si possano sperimentare sentimenti profondi come l’amicizia, il rispetto, l’amore fraterno tra chi vive la propria esistenza legato alle radici e chi è alla ricerca di nuovi approdi e nuovi riferimenti? Cos’è che permette non solo la convivenza ma la relazione profonda tra persone tanto diverse che si trovano a condividere lo stesso spazio vitale, lo stesso pezzo di strada, la stessa bottega, lo stesso barbiere, lo stesso ospedale? Il vecchio operaio pensionato non fa sconti a sé stesso. Sa benissimo che la vita lo costringe continuamente a fare i conti con i propri errori, e che restare legato alle proprie radici, alle piccole e grandi cose della propria esistenza non può mai essere una forma di difesa dagli altri, ma un modo per non fuggire dalle proprie responsabilità e per non perdere le proprie risorse morali. I giovani immigrati non fanno sconti a loro stessi. Sanno che occorre andare al di là delle apparenze, delle barriere, delle paure, se vogliono conquistarsi la dignità a cui hanno diritto. Sanno che non ci sono scorciatoie per realizzare una vita degna di questo nome: rispetto di sé e degli altri, coraggio di aprirsi al nuovo che li circonda.
Tra chi esplora il mondo muovendosi – per desiderio o perché costretto – e chi esplora il mondo restando a casa – per desiderio o perché costretto – c’è uno spazio immenso di comprensione e di relazione. Chi dice il contrario, o ha paura o ha interessi di piccolo cabotaggio. Non è facile discutere con loro: magari potremmo consigliargli un buon film.
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Esattamente sessant’anni fa, il governo nord coreano, appena nato sotto l’egida sovietica, invadeva proditoriamente la Corea del Sud scatenando quella che gli storici ancora oggi chiamano “La guerra dimenticata”.
Il conflitto che contrappose le due piccole nazioni e che causò quasi tre milioni di morti venne percepito poco e male dall’opinione pubblica europea, ancora sconvolta dagli orrori della Seconda Guerra Mondiale. La crisi coreana del 1950 fu il primo effettivo banco di prova per la nascente Guerra Fredda, infatti, vide contrapposti da un lato gli Stati Uniti, che appoggiavano la Corea del Sud, e dall’altro il Blocco Sovietico con Cina e Urss dalla parte dei nordcoreani. All’epoca non vi erano interessi economici in gioco, vi era da mantenere un fragile equilibrio tra super potenze ed impedire la deriva della “Marea Rossa”. Anche per questo motivo l’esito del conflitto fu abbastanza scontato lasciando immutati, dopo tre anni di carneficina, confini geografici ed equilibri politici internazionali.
Oggi tra le due coree si torna a sparare ma la situazione geopolitica è radicalmente diversa. I due paesi in questi cinquant’anni hanno preso strade molto diverse.
La Corea del Sud, dopo decenni di instabilità politica e di dittature militari ha trovato, negli anni 80, la strada per lo sviluppo economico, diventando, nel giro di un decennio, un paese altamente industrializzato e con un alto tenore di vita. Al contrario, la Corea del Nord, ha continuato ad essere governata da un regime comunista. Sotto la guida del carismatico Kim-il-sung, il piccolo paese asiatico ha avviato un piano di sviluppo economico totalmente sbilanciato verso l’industria pesante. Questa fase si è dolorosamente arrestata con il crollo dell’Unione Sovietica, lasciando la nazione in condizioni economiche gravissime. Nonostante la vicinanza con la Cina, anch’essa comunista, la Corea del Nord, negli ultimi anni ha inaugurato una politica di isolamento economico e politico che ha aggravato ulteriormente le condizioni della popolazione.
L’attacco all’isola di Yeonpyeong ha interrotto bruscamente oltre cinquant’anni di pace vigile e di rapporti sempre tesi tra le due nazioni. Su quello che è accaduto lungo il confine coreano le opinioni sono, ovviamente discordanti. I sudcoreani sostengono la tesi dell’attacco ingiustificato, i nordcoreani, al contrario, dicono di aver semplicemente risposto al fuoco. L’unica certezza sono i caduti e gli sfollati, prime vittime di una situazione ancora poco chiara.
Se però allarghiamo di poco lo scenario, forse, riusciamo a intuire qualcosa di più.
Nelle cronache economiche di questi ultimi mesi, oltre alla sempre presente crisi globale, ha spesso trovato spazio la “guerra monetaria” tra Cina e USA. Gli Stati Uniti accusano il gigante asiatico di tenere forzatamente sottovalutata la moneta nazionale, il Renmimbi, per mantenere competitive le esportazioni cinesi influenzando così l’intera economia globale. Gli stessi USA sono a loro volta accusati dalla Cina di perseguire una politica volutamente inflazionistica, puntando a svalutare il Dollaro a scapito del debito pubblico. Inoltre, una buona fetta del debito pubblico statunitense è in mano alle banche cinesi che così si trovano nell’invidiabile posizione di poter stringere il cappio attorno all’economia americana a loro piacimento. In quest’ottica, una nuova crisi coreana potrebbe, da un lato portare la guerra sulla porta di casa cinese e rafforzare la leadership USA in Estremo Oriente. Dall’altro lato costringerebbe gli Stati Uniti ad uno sforzo economico militare ulteriore in un grave momento di difficoltà e potrebbe servire al governo Cinese per rafforzare il potere del presidente Kim Jong-Il, eroso dalla gravissima crisi economica che ha colpito la Corea del Nord. Il leader nordcoreano, tra l’altro, ha appena nominato come suo successore il figlio Kim Jong-Un, non particolarmente carismatico e poco apprezzato dal popolo. Un eventuale conflitto potrebbe rafforzare la posizione del futuro presidente. Probabilmente, gli eventi di questi giorni in Corea sono l’ennesima puntata di una nuova Guerra Fredda. Se una volta il nemico era l’Urss, ora è la Cina.
Lo scontro ha perso i connotati ideologici ed è diventato contrasto militare ma soprattutto economico. Le due coree sono solo due pedine nell’immenso scacchiere mondiale.
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Il popolo dei pecoroni, è così che ci devono vedere quelli dei “piani alti”. Il popolo, esattamente come duemila anni fa al tempo dei gladiatori, che vuole e si nutre di spettacolo, di sangue, di dettagli. Duemila anni fa attorno all’arena e agli spettacoli che lì si tenevano si decideva la popolarità di un imperatore.
11 milioni per lo spettacolo di Ivan martedì sera, roba che la Nazionale normalmente se la sogna; e poi gli innumerevoli spettacoli di approfondimento dedicati alla triste vicenda di Sarah, dei suoi account su Facebook e degli sms che mandava e via discorrendo.
E chi comanda, ovviamente, si adegua, visto che più cruento è il linciaggio e più favori incontra. Castrazione chimica per i pedofili, urla Calderoli, pistole ai tassisti risponde Salvini, bombe sui bombardieri fa eco La Russa (sempre scenico).
E un po’ si fa finta di dimenticare che la castrazione chimica, pur impedendo ai pedofili di avere erezioni, non gli impedisce di pensare come pedofili, nè tantomeno di agire come tali. I tassisti, avessero pistole e le usassero, sarebbero tacciati di violenza gratuita, al primo colpo sparato contro un cliente facinoroso. E vorrei vedere il bombardiere che mentre il terrorista imbraccia un bazooka contro un nostro mezzo blindato, decolla, raggiunge la quota stabilita, arma le bombe, le sgancia e salva i soldati in pericolo. E anche se le bombe fossero sugli elicotteri che proteggono dall’alto i mezzi blindati per le strade Irachene, vorrei capire di quali bombe sta parlando il ministro La Russa, visto che bombe in grado di identificare le mine piazzate lungo le strade non ne esistono.
Ci importa una beatissima, tra l’altro, che “gli altri le bombe ce le hanno”, visto che l’articolo 11, seppur applicato come ci pare e aggirato da sofismi letterari che evitano di dire “guerra” ma piuttosto “regole di ingaggio”, comunque sta lì a dire che l’Italia, la guerra, anche chiamata come preferiscono quelli dei piani alti, la ripudia.
Il PD riesce a spaccarsi anche in questa occasione: chi si ricorda di essere di sinistra e si oppone, chi se lo dimentica e avalla, c’è chi come Bersani mantiene salda la linea del PD seguita fin’ora: non si oppone e non avalla, semplicemente non si sbilancia.
E tutti i pecoroni a seguire, a destra e a manca, senza soluzione di continuità.
Alle diciannove in punto i cancelli del Mandela Forum si aprono. L’interminabile fiumana di persone in attesa scorre rapida verso gli ottomila posti a sedere all’interno del palazzetto, mentre oltre duemila persone si dovranno accontentare di godersi lo spettacolo dai maxi schermi posizionati all’esterno della struttura.
È la penultima serata dell’incontro nazionale dei volontari di Emergency, che dal 7 al 12 settembre ha organizzato spettacoli, mostre e dibattiti per celebrare l’operato della famosa associazione che da oltre sedici anni opera nei troppi territori del mondo devastati dalla guerra, per offrire cure mediche alle vittime di queste tragedie…
Il palco si illumina mentre la nota presentatrice Serena Dandini apre la serata salutando l’entusiasta folla di gente che non smette di applaudire. L’intervento della presidente Cecilia Strada precede l’atteso discorso del fondatore dell’associazione, Gino Strada, che con franchezza ed energia spiega il significato del manifesto che “Emergency” ha voluto dedicare a questa settimana di incontri. “Il mondo che vogliamo” è il titolo di un testo di denuncia nei confronti di una classe politica che “in nome delle ‘Alleanze internazionali’ ha scelto la guerra e l’aggressione di altri paesi” e “in nome della ‘sicurezza’ ha scelto la guerra contro chi è venuto in Italia per sopravvivere, incitando all’odio e al razzismo”.
La serata prosegue con un emozionante intervento dell’attrice Lella Costa seguita dalle dolci note di Fiorella Mannoia. Un brillante Neri Marcoré e le esilaranti imitazioni della nostra ridicola classe politica. Un’inebetita rappresentazione di Maurizio Gasparri e un ammaliante Casini seduttore con un emblematico indirizzo mail: “pierferdy@ilgrandecentro.g”. A seguire il presidente cantante, che armato di chitarra dedica un simpatico motivetto al vecchio amico Gianfranco Fini. Poi le maschere cadono e Marcoré decide di interpretare sé stesso, intonando i versi de “L’appartenenza” di Giorgio Gaber.
A seguire un fantastico Antonio Albanese in versione “Cetto La Qualunque”, la personificazione dei diffusi difetti dei politicanti italiani: corrotti, avari e ignoranti, scesi in campo col solo obiettivo di soddisfare i propri interessi individuali.
“Quando faccio questo personaggio mi vergogno come un ladro – afferma Albanese lasciandosi scappare una risata – è nato dallo studio di un paio di campagne elettorali e qualche decina di comizi politici, quindi sappiate che non ho inventato proprio u cazzu. Pensate che un giorno mi sono ritrovato davanti a un politico che ha esordito il suo discorso con in mano la foto della moglie del suo avversario, dicendo: ‘questa donna è una bottana, e unu cornutu non può vincere le elezioni!'”
Risate intelligenti e buona musica: la ricetta ideale per una magnifica serata, con l’emozionante chiusura di una fantastica Patti Smith accompagnata da “La casa del vento”, il gruppo italiano che quest’anno la seguirà nel prossimo tour. Il grande finale sulle note di “People have the power”, dedicata al pubblico per ricordare…