Religione e fanatismo, tra Jovanotti e Facebook

La morte dell’operaio ventenne che lavorava all’allestimento del palco per il concerto di Jovanotti a Trieste ha, giustamente, colpito l’opinione pubblica. Ai commenti sull’assurdità delle troppe morti sul lavoro in Italia se ne è aggiunto uno che merita una riflessione, non tanto sulla sua stupidità quanto sulla mentalità e le idee che lo hanno generato. Il commento in questione, che ha fatto esso stesso notizia, è quello apparso sull’editoriale firmato da Bruno Volpe sul sito Pontifex, noto per le sue posizioni ultracattoliche.

Tanto per inquadrare il soggetto, stiamo parlando della stessa persona che ha denunciato Maurizio Crozza per la sua imitazione di Benedetto XVI. Il signor Volpe scrive: “Dio non manda certamente il male che non vuole. Dio non chiede sofferenze agli umani, ma si ribella e acconsente acché Satana ci metta alla prova. Una specie di “catechismo del male“, giusto percorso spirituale, che ogni uomo deve affrontare al fine di santificare la propria vita, mediante fortezza e virtù. Una positiva conseguenza del crollo è stata la sospensione del concerto di questo menestrello del vietato vietare, del tutto è permesso, della vita sregolata e dell’incitamento ad ogni scompostezza esistenziale. Da questo e solo da questo punto di vista, esiste una giustizia divina che si oppone alla volgarità ed al libertinaggio senza censura, anzi, avallato da nomi noti che, così facendo, si fanno portatori di voce del Maligno”.
La “volgarità” e il “libertinaggio senza censura” coincidono con l’invito ai giovani all’uso del preservativo da parte di Jovanotti e Fiorello nel corso della trasmissione televisiva di quest’ultimo. Ovviamente, il signor Volpe non le manda a dire anche nei confronti dello showman, reo di aver difeso Jovanotti nella vicenda della morte dell’operaio, e per questo “accusato” (per queste persone certi comportamenti sono colpevoli) di essere gay o bisessuale.

La reazione istintiva alla lettura delle parole di Volpe sarebbe una scrollata di spalle seguita dalla recita di un Salve Regina per la sua povera anima tormentata, se non saltassero alla mente alcuni collegamenti con altre vicende italiane legate tra loro da un comune modo di interpretare il sentimento religioso. In realtà sarebbe forse meglio parlare di fanatismo religioso. Interessante è la riflessione di Lidia Ravera su Il Fatto Quotidiano a proposito della ragazza di Torino che ha inventato il falso stupro da parte dei rom per giustificare con la madre la perdita della verginità in seguito a un normale rapporto sessuale con il suo ragazzo. È più dignitoso inscenare uno stupro che confessare (come se la cosa non appartenesse alla sfera privata) di aver tranquillamente e felicemente fatto l’amore. La stessa ragazza, in un’intervista, afferma: “In famiglia siamo tutti d´accordo che certe cose non vanno bene. […] Andiamo in chiesa, siamo credenti, mi piace che in casa ci siano queste immagini (indica un quadro in cucina con il volto di Gesù). Ma non sono bigotta, sono una ragazza come tutte le altre, mi piace la musica e mi piace Facebook, e uscire con le amiche e guardare le vetrine in centro”. Non è bigotta perché ascolta la musica, usa Facebook e guarda le vetrine. Non fa una piega. Chiaramente la forma mentis di questa ragazza è la conseguenza dell’educazione che ha ricevuto in famiglia. In realtà è il concetto stesso di fanatismo a essere equivocato. Il fatto che la verginità sia vista come un valore fa il paio con la lotta senza quartiere a qualsiasi difformità dalla “sana” eterosessualità, alla contraccezione, all’educazione sessuale. Non è un caso se ancora qualcuno tenta di rimettere in discussione l’aborto e se il crocifisso nei luoghi pubblici per alcuni è un totem imprescindibile. Tristemente ironica è la constatazione che gli stessi individui protagonisti di queste battaglie sono quelli che si scagliano senza esitazioni all’attacco dei fondamentalismi e degli integralismi che affliggono altre religioni (con un occhio di riguardo verso l’islam) trascurando quelli altrettanto ingombranti presenti nel cristianesimo e nel cattolicesimo in particolare. L’uso del burqa, che a torto o a ragione viene considerato come uno strumento di sopraffazione della donna, è poi così diverso dalla strisciante costrizione all’astinenza sessuale prima del matrimonio? Demonizzare la sessualità dipingendone ogni espressione con i toni dell’immoralità non è forse una forzatura della libertà, anche quella di chi non si riconosce in una certa visione del mondo? Quali sono le condizioni socio-culturali che portano una parlamentare a dichiarare pubblicamente di indossare il cilicio? E soprattutto, in tutto ciò, qual è la responsabilità della Chiesa cattolica? Vero è che il modo di vivere la religiosità è proprio di ogni individuo, tuttavia le persone che si riconoscono in una determinata mentalità non fanno altro che conformarsi più o meno strettamente a una condotta pratica e morale stabilita dall’alto, più che dall’Altissimo. Non sarà stata la CEI a dettare l’editoriale del signor Volpe, ma è Benedetto XVI che nel suo libro, pur faticosamente ammettendo che “vi possono essere singoli casi giustificati” per l’utilizzo del profilattico, si affretta a precisare come “questo non è il modo vero e proprio per vincere l’infezione dell’HIV“, di fatto dettando la linea ai missionari che operano fra le popolazioni decimate dall’AIDS. Ironia della sorte, il capo dell’istituzione che da secoli tenta di controllare le masse anche attraverso la strumentalizzazione del naturale istinto alla sessualità, scrive che “è veramente necessaria una umanizzazione della sessualità”. La rozzezza con cui viene calpestata la natura umana in nome di un’ispirazione divina stride con l’attenzione dedicata alle questioni terrene legate allo sterco del demonio.

Una religiosità malata non compromette “solo” la laicità dello Stato, tutt’ora irrealizzata in Italia, ma il grado di civiltà della popolazione. Se, come cantava Samuele Bersani, “le previsioni meteo sono prese pari pari dalla Bibbia”, contare gli anni ogni 31 dicembre serve a poco.

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“Panariello non esiste” – Teatro Arcimboldi di Milano

[stextbox id=”custom” big=”true”]Un nuovo autore su Camminando Scalzi.it

Vi presentiamo Alan Valenza , 27 anni da Milano. Appassionato di sport, in particolare calcio e tennis, ama leggere libri gialli e da 10 anni scrive. Ha iniziato col giornale della scuola pe rpoi proseguire con giornali a tiratura provinciale e regionale. Ha inoltre avuto un’esperienza in tv e una in radio come opinioniosta.[/stextbox]

Giorgio Panariello è tornato. Dopo un’assenza di 3 anni dai teatri italiani torna con uno spettacolo tutto nuovo.  Uno spettacolo dal titolo un po’ particolare, che viene spiegato da Panariello nel primo monologo e che, nonostante sia un comico, fa capire come sia anche un artista che negli spettacoli mette quel poco di malinconia che contraddistingue tutti i grandi comici.

Lo spettacolo è composto da un mix di monologhi sull’attualità (in questo momento non si può tralasciare la politica), e riproposizioni di vecchi personaggi che il pubblico conosce già. Si parte da Merigo, l’uomo sempre ubriaco che perde il suo amato vino; si passa dal dj della discoteca Kiticaca di Orbetello; si arriva al vecchio sempre più solo che ripensa alla vita che sta passando e, con la giusta dose d’ironia, fa capire alla propria famiglia che lui è stato qualcuno nonostante ora sia vecchio.

Il più di questo spettacolo è di sicuro l’orchestra live presente sul palco che compare per la prima volta dopo dieci anni, quando sul palco c’era la Band di Paolo Belli. Con loro, Panariello può rivivere il suo Renato Zero, può cantare canzoni proprie che il grande pubblico non conosce.

Di sicuro possiamo dire che Panariello è tornato senza deludere le aspettative. Le battute sono tutte nuove. Non ha riciclato niente ed è forse per questo che ci ha messo un po’ per tornare nei teatri. Il tour proseguirà in tutta Italia.

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Alan Valenza

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