Questa non è una barzelletta

Non si sa se ridere o piangere. La candidatura di Silvio Berlusconi alle prossime elezioni politiche come leader del PdL è una notizia che non dovrebbe fare felici neppure i suoi più strenui sostenitori. Sia che lo si veda come un grande statista che come un cancro dell’Italia, la sua figura occupa la vita politica e sociale del paese da vent’anni. In qualunque democrazia che aspiri a definirsi degna di questo titolo, un tale prolungato predominio non è mai sintomo di buona salute. Non è “solo” il ricambio generazionale che manca, ma anche il naturale evolversi di idee e metodi. Il fossilizzarsi di una figura di potere per tanto tempo comporta un parallelo incancrenirsi del progresso di una nazione. Se poi la figura in questione, volendo essere clementi, non ha brillato per efficacia, lungimiranza e capacità politica se non quando occupato a risolvere questioni attinenti alla sua smisurata sfera di interessi privati (cioè la quasi totalità del tempo), la prospettiva di vedere prolungarsi la durata del suo governo assume i caratteri di un incubo.

Soffermandosi sulle dichiarazioni rilasciate a corollario dell’annuncio, per una volta non si può che essere d’accordo con Berlusconi. Il motivo ufficiale della decisione è “salvare il PdL”, che altrimenti “sprofonda”. Ora, se questa non è un ammissione di ciò che i suoi oppositori sostengono da tempo, poco ci manca. Semplicemente, il PdL non è un partito ma un insieme di gente a cui il leader è allo stesso tempo creditore e debitore. La successiva frase è un boomerang affilato: “Se alle prossime dovessimo scendere per assurdo all’8%, che senso avrebbero avuto diciotto anni di impegno politico?”. Già. Se l’assenza di Berlusconi comporta un tale sgretolamento del consenso, in cosa consiste quanto fatto dal 1994 a ieri se non, come detto, curare i propri interessi e la propria incolumità giudiziaria? Al contempo, queste poche parole costituiscono una pietra tombale sulla stessa dignità politica dei numerosi soggetti che come cortigiani hanno popolato la corte del sultano e, malauguratamente, anche le istituzioni, primo fra tutti il delfino Alfano, a dire il vero mai credibile (e creduto) nel ruolo. Infatti, uno dei paladini di Berlusconi anche in tempi recenti, Giorgio Stracquadanio ha annunciato il suo abbandono del PdL perché “il partito non esiste” e “Berlusconi è al tramonto”.

Un sondaggio Ipr per Repubblica.it ha mostrato come la candidatura di Berlusconi, a dire il vero, non offra vantaggi rispetto a quella, ormai decaduta, di Alfano. Che significa? Che anche gli stessi elettori ancora legati al centrodestra da lui “creato” non sono più sensibili come un tempo al fascino del loro idolo, a dire il vero profondamente minato dagli scandali sessuali e dalle oggettivamente terribili condizioni in cui i suoi numerosi mandati hanno lasciato l’Italia.

Soprassedendo alla mancanza di pudore (tradotto, con che faccia si candida?), possiamo permetterci altri anni di conflitto di interessi, barzellette, Tremonti, “sono stato frainteso”, legittimo impedimento, “rivoluzione liberale”, presidenti operai, olgettine, “un milione di posti di lavoro”, controllo dell’informazione, pericoli rossi, delegittimazione della magistratura, etc?

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Berlusconi si arrende: fra poco è finita

La giornata di ieri entra di diritto nel film dei momenti salienti dell’epoca berlusconiana. Poco prima dei titoli di coda. Se i fatti lasciano poco spazio alle interpretazioni, diversi scenari si aprono per l’immediato futuro. In questo senso, la spada di Damocle dell’incertezza continua a pendere sulle nostre teste e sui giudizi dei mercati finanziari nei confronti del nostro paese.

Arresosi di fronte allo sfaldamento delle sue truppe, Berlusconi è riuscito in un capolavoro politico tanto geniale quanto potenzialmente deleterio per il paese. Le sue dimissioni arriveranno formalmente dopo l’approvazione della legge di stabilità, destinata a tradurre in azioni concrete le richieste dall’Europa. Visti i numeri del voto sul rendiconto, il contributo delle opposizioni risulterà indispensabile. Anziché compiere il responsabile, comunque tardivo, passo indietro, invocato da più parti della sua stessa ex maggioranza, il premier tenta di scaricare il cerino della responsabilità sulle opposizioni, indirettamente (neanche troppo) chiamate a fornire i loro voti per evitare di dilatare ulteriormente la crisi di credibilità in cui versa l’Italia. L’impressione è che questa mossa possa essere il primo atto di una futura campagna elettorale. Infatti, è plausibile che la base di partenza per intavolare il dialogo fra le forze politiche sul maxiemendamento alla legge di stabilità sia costituita dalla lettera estiva della Banca Centrale Europea e dalla più recente lista di promesse di Berlusconi all’Unione Europea. Se così sarà, le opposizioni, in particolare PD e IdV, potrebbero trovarsi davanti alla richiesta di votare provvedimenti definiti fin adesso “macelleria sociale” e certamente invisi al loro elettorato, primo fra tutti la sostanziale abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Non è un caso se l’Idv ha già annunciato la sua intenzione di votare contro a meno che le misure non siano ridiscusse. Anche nel caso in cui le negoziazioni portassero a un accettabile compromesso, Berlusconi potrebbe uscire di scena in un certo senso nobilitato, come l’uomo di governo immolatosi per la salvezza del paese, anziché come il macigno che ha trascinato l’Italia sul fondo. Perfino le date prospettate da PdL e Lega per l’iter parlamentare della legge lasciano trasparire la volontà di dilatare il più possibile gli scampoli di vita del governo. Tutto ciò di certo non giova al paese. Se lunedì la borsa di Milano volava e gli interessi sui titoli di Stato diminuivano, sull’onda delle voci di possibili dimissioni, l’incertezza seguita alla votazione di ieri ha fatto schizzare lo spread oltre la quota record di 570 punti e sta causando il tracollo del Ftse Mib. Le reazioni dei mercati dimostrano come sia la figura di Berlusconi la causa della grave turbolenza finanziaria del Paese, ancor più che la messa in opera degli annunciati provvedimenti per il risanamento del debito e il rilancio dell’economia.

Al di là dell’ovvia constatazione che la permanenza al potere del Premier e del suo esecutivo danneggia il paese, nella speranza che questa lunghissima anomalia italiana si risolva in fretta, allo stato attuale è difficile prevedere realisticamente se sarà l’ipotesi del governo di larghe intese a prevalere o se per la prima volta voteremo in inverno. Se fosse la prima opzione a prevalere, il nuovo esecutivo avrebbe comunque vita breve, dovendosi appoggiare al voto degli stessi che fino a ieri formavano la carovana di Berlusconi, il quale peraltro avrebbe gioco facile a gridare al ribaltone. È possibile che sia l’ipotesi del voto anticipato a prevalere, con l’unico rammarico di non avere il tempo di cancellare la vergognosa legge elettorale in vigore, al fine di evitare che il prossimo parlamento sia, come l’attuale, composto da prezzolati nominati invece che da rappresentati eletti dal popolo. Sarebbe un ottimo inizio per una nuova fase della storia repubblicana italiana, dopo un periodo di oscurità durato diciassette anni.

 

 

PD: Partito Democratico o Premiata Ditta?

La serietà della crisi economica e le sue ripercussioni sulla disastrata situazione italiana stanno ulteriormente aggravando la caduta di consensi per la maggioranza. Con un governo in debito d’ossigeno e aggrappato a equilibrismi politici estemporanei, un’opposizione normale di un qualsiasi paese democratico avrebbe buon gioco a incamerare i favori della popolazione, stanca e delusa dall’incapacità e dalla miopia della classe dirigente. Un’opposizione normale, appunto. Di una tale entità in Italia mancano le tracce. Tralasciando il ruolo dei due partiti-spalla, IdV e SEL, la principale forza politica del centro-sinistra, il Partito Democratico, appare preda di sé stessa e delle sue congenite tendenze masochistiche.
L’apertura di un’indagine a carico dell’ex-ministro Scajola (ci chiediamo se di questo, almeno, sia consapevole) è quasi oscurata dall’altrettanto incresciosa vicenda legata a colui che fino a pochi giorni fa era l’uomo forte del PD lombardo e il braccio destro del segretario del PD Bersani, Filippo Penati. I dettagli che stanno emergendo, e che minacciano di scatenare un precipitoso effetto domino all’interno del partito, disegnano un sistema di malaffare che sembra uscito dalle cronache giudiziarie dei primi anni novanta. Al livello politico, quello che lascia interdetti è l’assoluta mancanza di trasparenza e di chiarezza da parte dell’establishment del partito. Le stesse persone che, giustamente, mostravano indignazione e cavalcavano (non troppo, a dire il vero) le malefatte del premier, adesso balbettano frasi di circostanza di fronte ai microfoni. Una forza politica che intenda anche solo fingere di essere affidabile non può in alcun modo permettersi il lusso di far trascorrere dei giorni prima che il segretario prenda una posizione netta nei confronti del ricorso alla prescrizione da parte di un papavero del gruppo dirigente. Se è vero che la rinuncia alla prescrizione è una scelta personale, il pronunciamento di un partito nei riguardi di un principio alla base di una sana etica pubblica non è un optional. Tanto più in un paese come l’Italia, in cui, purtroppo, il rispetto della legge si configura ogni giorno di più come una virtù anziché come un requisito di base. Il susseguirsi di cinquant’anni di inciuci all’ombra della balena bianca e del ventennio berlusconiano, inframezzati dalla debitamente accantonata parentesi di Tangentopoli, pesano come un macigno sulla credibilità di chiunque si presenti sulla scena politica. Nell’attesa di nuovi sviluppi che illuminino più chiaramente la faccenda, le colpe di Penati non possono ricadere su tutto il partito, ma la responsabilità politica di chi lo ha spinto in alto nella gerarchia di potere interna non può essere accantonata. Anche quando Bersani non fosse a conoscenza di quanto succedeva, la folgorante carriera di questo dirigente evidenzia una totale mancanza di meccanismi che garantiscano la trasparenza e l’onestà di chi, in prospettiva, si candida ad occupare ruoli di potere nelle istituzioni. Con una sana dose di cinismo politico, il partito avrebbe comunque potuto, se non approfittare della situazione, quantomeno rigirare la frittata, mostrandosi compatto su posizioni di assoluto rigore. Prendiamo atto delle rapide dimissioni di Penati dai suoi incarichi istituzionali e della sua decisione di rinunciare alla prescrizione (almeno stando alle dichiarazioni), tardivamente auspicata dalla maggior parte dei pezzi grossi del PD. Tuttavia l’indecisione e il ritardo dimostrati nel rigettare qualunque sospetto di complicità non contribuiscono di certo a rafforzare la fiducia da parte dell’opinione pubblica.

Il caso Penati non è l’unica spina nel fianco. La cronica capacità del PD di non intercettare la volontà e gli umori della sua stessa base elettorale contribuisce ad aggravare lo stato confusionale, come dimostra un altro tema all’ordine del giorno, squisitamente politico: la raccolta firme per il referendum abrogativo del porcellum, la vergognosa legge elettorale in vigore, scritta da Calderoli e da lui stesso chiamata “porcata”. Tutto il centro-sinistra, PD compreso, esprime da tempo l’intenzione di abrogarla e procedere al varo di una nuova legge che garantisca almeno un minimo di democraticità alle prossime elezioni. Non appena, però, un’iniziativa di alcuni “prodiani”(con Arturo Parisi in testa) apre la prospettiva di promuovere un referendum per cancellare l’assurdo meccanismo di nomina dei parlamentari e tornare temporaneamente al mattarellum, nella speranza che il prossimo Parlamento partorisca un provvedimento migliore, ecco che ciò che era logico diventa tutt’altro che scontato. In assenza, come al solito, di una presa di posizione netta del partito (che non può che essere favorevole), vari nomi importanti dell’establishment del PD aggiungono il loro nome alla raccolta firme in maniera del tutto soggettiva, ma non per questo meno “pesante”, seguendo l’esempio del fondatore, Romano Prodi. Di fronte a un fatto compiuto, anziché ratificare, seppur tardivamente, la decisione apparentemente maggioritaria, il segretario sfodera un capolavoro politico racchiuso nella seguente dichiarazione: “Io non firmo. […] Appoggio l’iniziativa, ma non la sottoscrivo perché quella elettorale è una legge che deve passare dal Parlamento”. Dietro la scelta di Bersani non può non esserci una corrente del partito che evidentemente preferisce non sporcarsi le mani facendo opposizione sul campo, convinta di poter agire a livelli più “nobili”, e che considera più proficuo il corteggiamento verso altre forze politiche che la sintonia con il proprio elettorato. Inutile far notare, infatti, come questa decisione sia perfettamente il contrario di ciò che potrebbe avvicinare il PD all’enorme bacino potenziale di elettori che sarebbero pronti a concedere il proprio voto, ma che, al contrario dei dirigenti democratici, hanno le idee chiarissime.

 

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Referendum: storia dei SÌ e dei NO

Tra circa un mese si terrà un referendum su alcuni argomenti molto importanti. I quesiti saranno quattro: il primo riguarderà il “legittimo impedimento”, il secondo sarà incentrato sul nucleare e gli ultimi due quesiti riguarderanno la privatizzazione dell’acqua pubblica.

Come sempre, non mancano polemiche di vario genere e la classe politica si divide in favorevoli e contrari. Quando il popolo viene chiamato a votare, è un momento di grande democrazia e la storia del nostro paese di consultazioni popolari. Il primo referendum è stato quello “istituzionale” del 2 giugno 1946 quando il popolo italiano fu chiamato a votare per la monarchia oppure la repubblica. La maggioranza della gente si dichiarò favorevole a quest’ultima con circa dodici milioni di voti contro i dieci in favore della monarchia. Da qui nacque la Repubblica e non mancarono incidenti e scontri nelle piazze dopo il risultato elettorale. Per questo referendum non era previsto il quorum di validità, cioè il raggiungimento della soglia del 50% + 1 dei votanti.

Sono stati tre i referendum per cui non era previsto il quorum:

Nel 1989 sul conferimento del mandato costituente al parlamento Europeo: vinsero i sì con l’88%.

Nel 2001 sulla modifica del titolo V della Costituzione: i favorevoli furono circa il 64,2%

Nel 2006 sulla modifica della parte seconda della Costituzione. Stavolta vinsero i contrari con il 53,6% dei votanti.

I referendum abrogativi di determinate leggi sono 62.

Uno dei più importanti è quello sul divorzio nel 1974. In pratica, si trattava di votare l’abrogazione della legge Fortuna-Baslini del 1970 con la quale era stato introdotto in Italia il divorzio. Vinsero i NO con il 59,3%

Un’altra consultazione elettorale da ricordare è quella riguardante l’abolizione della pena dell’ergastolo. Era il 1981 ed anche stavolta i NO prevalsero con il 77,4%.

Nello stesso anno il popolo italiano fu chiamato a votare per l’abrogazione di alcune norme riguardanti l’interruzione di gravidanza, ma i NO vinsero anche in questo caso con l’88,4%.

Nel 1985 i NO vinsero con il 54,3% sull’abolizione della norma che comportava un taglio dei punti della scala mobile. Il referendum fu promosso dal PCI e trovò la forte opposizione del PSI.

Come detto, il prossimo 12 giugno saremo chiamati a decidere anche sul nucleare, cosa che il popolo italiano ha “già fatto” nel 1987 (per usare una semplificazione, ndR). In questo caso la maggioranza si espresse con il SÌ per l’80,6%.

Ci sono poi casi di consultazioni popolari dal carattere esclusivamente politico, tipo quella del 1993 quando il popolo decise sull’abrogazione della legge elettorale per introdurre il sistema maggioritario: i SÌ furono l’82,7%.

Ci sono poi i referendum non validi per il mancato raggiungimento del quorum: tra questi i principali sono quello del 1995 sull’abolizione dei poteri speciali riservati al Ministero nelle aziende privatizzate; quello del 1997 sull’abolizione del sistema di progressione delle carriere dei magistrati; quello del 1999 che riguardava l’abolizione della quota proporzionale nelle elezioni della Camera dei Deputati; quello del 2005 sulla procreazione assistita.

Il referendum resta, comunque, uno strumento di democrazia molto importante, con il popolo chiamato a decidere su questioni di una certa rilevanza. Certe volte, però, i quesiti vengono appositamente formulati dalla politica in un modo molto tecnico per cui non sempre è facile comprendere il significato del referendum. La storia è piena di referendum fatti fallire appositamente dalla politica che, dopo una consultazione “sorprendente”, ha fatto leggi per aggirare il verdetto popolare.

[stextbox id=”custom” big=”true”]Non perdetevi il nostro SPECIALE REFERENDUM, dedicato ai referendum su acqua, nucleare e legittimo impedimento che dovremo votare a breve.[/stextbox]

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