Nel loro nome chiedo sia fatta giustizia

Non c’è cosa più spaventosa che percepire, sotto di sé, il pavimento oscillare e sentire le persone al proprio fianco che, con gli occhi inumiditi, implorano Dio che tutto finisca bene, cioè che le pareti smettano di muoversi da una parte all’altra. Da sempre ci hanno insegnato, in modo austero e freddo, che l’unica cosa che non dobbiamo fare – soprattutto noi alunni, quando inaspettatamente il terremoto decide di spezzare la nostra terra – è abbandonarsi al panico. Ammetto però di non essere affatto capace di mantenere la calma, in particolar modo non l’ho saputo fare il 20 e il 29 maggio, quando potenti scosse hanno violentemente agitato l’Emilia, la mia terra; non è che mi paralizzo davanti a tale potenza naturale, anzi, ho dei buoni riflessi: alla prima vibrazione cerco subito riparo. Il problema è che il terrore, che viene partorito non appena sento il pavimento ballare, inibisce ogni mia briciola di coraggio e preclude la mia possibilità di vivere tranquillamente. È logico rispondere di avere paura davanti a questa situazione incontrollabile – per tal motivo trovo schifosamente deficienti quei giornalisti che domandano ai terremotati cosa hanno provato o come stanno dopo una scossa di terremoto – e se ora qualcuno mi chiedesse come sto, ammetterei disinvoltamente di avere ancora paura, un po’ perché ho la certezza che qui, come in molti angoli d’Italia, gli edifici sono costruiti senza criteri antisismici, e un po’ perché non so quale buon futuro mi si prospetta davanti, soprattutto in seguito alla dichiarazione rilasciata da Squinzi che, dinanzi alle macerie e ai capannoni semi-distrutti, ha detto che gli edifici sono costruiti a regola d’arte, e in seguito alla falsa solidarietà di Napolitano che ha spiegato che soltanto noi Emiliani saremo in grado di sistemare le cose: evidentemente voleva affermare in maniera chiara e definitiva che dallo Stato non arriverà nessun aiuto. Ma si sapeva senza che lo dichiarasse pubblicamente.

Da buona emiliana, spero soltanto che lo sciame sismico si sia definitivamente placato e che, con coraggio e fortuna, riusciremo a sistemare ciò che il terremoto ha annientato. Come molti altri emiliani sono molto delusa, arrabbiata e infelice. Sono delusa dallo Stato perché, come sempre, è assente dinanzi a tali calamità naturali, e perché trova ogni pretesto per salvarsi il culo ogniqualvolta che è necessario. Sono arrabbiata perché c’è chi, come Napolitano, ha lasciato che la situazione rimanesse solo nelle mani nostre, poiché falsamente convinto che noi possiamo fare tutto, anche ricominciare daccapo. Sono infelice perché per colpa dell’italianità – ossia del prendere tutto alla leggera, non eseguire controlli e non ammodernarsi in modo consapevole e giusto – sono morte ventisette persone, molte delle quali erano operai. Nel loro nome io scrivo questo articolo, per affermare quel che disse Lennon – “lavoro è vita” – e per denunciare che nel duemiladodici non possono crollare case, palazzine, capannoni, industrie poiché costruite in tutti i modi fuorché a regola d’arte. In nome di Paolo Siclari, Mauro Mantovani, Enea Grilli, Eddy Borghi, Vincenzo Iacono, Hou Hongli, Iva Contini, Daniela Salvioli, Enzo Borghi, Sergio Cobellini, il parroco don Ivan Martini, Gianni Bignardi, Mohamad Azarg, Kumar Pawan, delle altre vittime, degli sfollati, dei ferraresi, dei modenesi, dei reggiani e dei mantovani, io accuso il Papa di essere un avido individualista che ha speso oltre 13.000.000 di euro per la sua visita a Milano durante i primi di giugno, quando era pienamente consapevole che una parte di quel denaro poteva essere risparmiata e consegnata alle terre colpite dal sisma; accuso inoltre Napolitano di essere il peggior esempio di rappresentanza statale che io abbia finora incontrato lungo i miei diciotto anni di vita, e che oltre a essere avaro, è pure disgustosamente indifferente: cosa ha fatto di effettivo per l’Emilia, oltre a esprimere la sua più sentita vicinanza alla mia terra? E infine, accuso i media che invece di mettere in chiaro i reali motivi per cui l’Emilia è stata colpita da infiniti sismi e di narrare la reale gravità della situazione che lega la mia terra a un incontrollabile panico sociale, sposta l’attenzione sui centri storici che vanno a pezzi, sui sismologi che boriosamente sparano al vento le loro assurde teorie (c’è chi dice che s’è aperta una nuova faglia, chi rammenta che la mia terra è sempre stata sismica, eccetera), creando una situazione di terrore e distogliendo l’attenzione degli italiani dai nodosi problemi di natura politico-economica. Nel nome di chi è morto perché il soffitto gli è cascato in testa, io voglio che venga fatta giustizia, e cioè che, partendo da questa lugubre ma non irrimediabile realtà, venga abbandonato l’assurdo modo italiano che utilizziamo nel fare le cose; che quindi vengano effettuati più controlli, che nascano grandi innovazioni, che si acquisiscano idee moderne, più efficaci in campo architettonico e lavorativo. Voglio che l’Italia esca dal medioevo e dalle barbarie sociali per tuffarsi in una realtà più panoramica e sicura per tutti noi. Ciò che frena queste mie utopie sono l’incoerenza e la fragilità proprie del nostro Paese che lo limitano a bloccarsi a ogni ostacolo, a ogni cataclisma, a ogni imbattibile apparenza: tali debolezze rendono invincibile tutto ciò che, con un po’ di consapevolezza e coraggio, si può combattere.

“Pardunànd uń lèder as cundàna chi è unest” (“perdonando troppo chi sbaglia, si fa ingiustizia all’onesto”): noi emiliani non abbiamo bisogno di sentirci dire dai governanti che ci sono vicini col pensiero, che in futuro ci manderanno aiuti, o che ci sarebbe potuto capitare qualcosa di peggiore. Abbiamo bisogno che l’Italia cambi faccia per sempre. Abbiamo bisogno che venga fatta giustizia in nome di chi, andando al lavoro, ora non c’è più.

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I nuovi italiani e le vecchie idiozie

Le parole di qualche giorno fa del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano hanno riacceso la polemica sulla possibilità di acquisizione della cittadinanza da parte degli stranieri nati in Italia. Lo stesso instaurarsi di una polemica sull’argomento dimostra non tanto la consistenza della questione (evidente agli occhi di chiunque non si rifiuti di vedere), quanto il grado di barbarie che caratterizza l’attuale classe politica italiota.
È facile comprendere che, nella mente di chi promette le “barricate” contro l’attuazione della proposta, il principale impulso sia l’anacronistico e peraltro inutile rifiuto dell’immigrazione e, più in generale, del “diverso” (che brutta parola). È un istinto, questo, che purtroppo alberga in alcuni strati della popolazione di cui la Lega è solo una ridicola espressione ma che, banalmente detto, non c’entra nulla. Qui non si tratta di discutere se accogliere o meno gli extracomunitari sul nostro territorio, conducendo battaglie sul kebab e magari agitando lo spettro della pubblica sicurezza minacciata dagli assalti dei saraceni. Per capire la natura e l’entità della questione, forse è bene dare qualche numero. I dati Istat relativi al 1° gennaio 2010 certificano una popolazione di 4.235.059 di stranieri residenti in Italia. Fra questi, circa 573.000 sono nati nel nostro paese. Sono quelli che compongono la cosiddetta “seconda generazione”, ossia i figli di genitori stranieri nati nel paese di residenza. In termini meno tecnici, per fare solo alcuni esempi, sono tutti i bambini figli di stranieri che affollano i reparti di maternità dei nostri ospedali o i compagni di classe dei bambini italiani, figli degli immigrati. In realtà, non è solo di bambini che stiamo parlando. Vista l’origine temporale del fenomeno dell’immigrazione in Italia, esiste un’intera generazione di persone nate nel nostro paese, educate nelle nostre scuole, cresciute nelle nostre città, che in virtù o a causa dell’attuale sistema di assegnazione della cittadinanza, basato quasi esclusivamente sullo “ius sanguinis” (per cui, in buona sostanza, è italiano chi è figlio di italiani, salvo alcuni casi particolari), non risultano italiani. Chi desideri più informazioni, compresa la differenza tra “ius sanguinis” e “ius soli”, può trovarle in due articoli riassuntivi  de Il Post e Il Sole 24 Ore . Un caso balzato agli onori della cronaca qualche tempo fa è quello di Mario Balotelli, nato a Palermo da genitori ghanesi, cresciuto in provincia di Brescia, il quale ha dovuto attendere la maggiore età affinché gli fosse concessa la cittadinanza italiana. È del settembre 2011 l’ultimo rapporto Istat sulla popolazione straniera residente in Italia. Da esso risulta che nel solo 2010 i nati di seconda generazione ammontano a 78.082, in continua crescita rispetto agli anni precedenti (sebbene il tasso di incremento rispetto al 2009 sia inferiore a quello fatto segnare tra il 2008 e lo stesso 2009, probabilmente a causa della situazione economica generale): per dare un’idea delle proporzioni, corrispondono al 13,9% del totale delle nascite di tutti i residenti in Italia; italiani compresi, dunque.
Si potrebbe far notare che da soli, questi nuovi “non-italiani” compensano quasi l’intero saldo naturale (ossia la somma algebrica di nascite e decessi in un anno) negativo di noi “non-stranieri”, pari a -98.502 individui, ma, pur essendo questo un dato demografico interessante, non costituisce un argomento a favore della causa. Chi sostiene la necessità di un adeguamento del sistema di assegnazione della cittadinanza italiana non lo fa a fini utilitaristici: riconoscere l’effettiva italianità di tutte queste persone è giusto a prescindere della convenienza socio-economica che ne deriverebbe. Napolitano ha usato il termine “follia” per descrivere il paradosso di fronte al quale ci troviamo. Negare la cittadinanza italiana a chi ci è cresciuto a fianco, discriminandolo sulla base del colore della pelle e delle tradizioni non tanto sue quanto della sua famiglia alle spalle, equivale a una confessione di cecità nei confronti della storia del mondo e di ignoranza del concetto stesso di cittadinanza. Quanti oggi si dichiarano difensori della purezza degli autoctoni, evidentemente non paghi delle tragedie scaturite da tale concetto, in realtà confondono la nazionalità con il folklore, in buona e in mala fede. Anche volendo assecondare in parte i loro ragionamenti, ammettendo che i figli degli immigrati non assimilino al 100% gli usi e i costumi italiani (risulta comunque difficile non giudicare le contaminazioni culturali come un generale arricchimento), è sufficiente ciò per non essere italiani? Si badi, fra gli usi e i costumi non si intendono la lingua e il senso di appartenenza alla comunità, entrambi requisiti necessari ma pressoché automaticamente acquisiti nel corso della crescita e dello svolgimento della vita sociale (chi ricorda lezioni di grammatica e/o italianità in famiglia negli anni dell’infanzia scagli la prima pietra), considerato, tra l’altro, che nel 2008 il 6,4% degli studenti nelle scuole di ogni ordine e grado era composto da 574.676 studenti genericamente definiti stranieri (elaborazioni Istat su dati del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca). Scavando nelle argomentazioni di chi si dichiara contrario, si scopre che le obiezioni spesso riguardano “pietre miliari” dell’italianità come la cattolicità, le idee politiche o le abitudini quotidiane. Non è un caso che l’ipotesi di rimozione del crocifisso dagli edifici pubblici abbia suscitato una simile ridda di voci urlanti, accidentalmente provenienti dalle stesse bocche, contro lo sfregio dell’identità nazionale.
Si mantenga pure l’attuale legislazione in materia di cittadinanza. Si aggiunga anche un test genetico a tutti i nuovi nati allo scopo di verificare, e scremare di conseguenza, la presenza di eventuali ascendenze “impure”. Non lamentiamoci però se all’estero ci accartocciamo sempre di più nella macchietta del mangiaspaghetti. È quello che ci ostiniamo a difendere strenuamente.

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Napule è 'na carta sporca, ma nisciuno se ne importa

Il 30 giugno, come è noto, c’è stato il tanto atteso via libera al decreto sui rifiuti per la città di Napoli. Dopo il lungo, acceso e – consentitemelo – ridicolo battibecco tra la Lega e il PdL, il Consiglio dei ministri ha dato il nulla osta al provvedimento, nonostante il voto sfavorevole del partito del Carroccio. A posteriori, molte sono state le critiche mosse sia dal neo sindaco De Magistris, che ha tacciato il decreto di essere deluente, sia del Presidente della Repubblica Napolitano, che lo ha definito “non risolutivo”. In realtà il decreto, a mio parere, è in parte utile, ma non sufficiente. In cosa consiste tale criticato decreto?

Il decreto consta di tre soli articoli, e consiste nel fatto che permetterà alla Campania di trattare direttamente con le singole regioni per risolvere il problema dei rifiuti. Si eviterà quindi di passare per la lunga e a volte troppo complessa conferenza unificata delle regioni. Prevede, inoltre, l’ampliamento dei poteri dei commissari nominati dal Presidente della regione Campania per i siti di conferimento locali e, nell’ultimo articolo, parla di “destinazioni prioritarie” dei rifiuti, individuate nelle regioni limitrofe alla regione Campania.

In virtù di tale provvedimento la regione Campania ha già fatto partire verso sette regioni italiane (Sicilia, Puglia, Marche, Emilia Romagna, Toscana, Lombardia e Friuli Venezia Giulia) la richiesta di nulla osta per il trasferimento dei rifiuti. Questo, per ora, dimostra soltanto come il provvedimento non sia inutile, ma non dimostra ancora la sua risolutività. Per la serie “staremo a vedere”, la bontà del decreto appena approvato andrà del tutto verificata e avremo tempo per giudicarne pregi e difetti.

In tutto ciò la Lega non si è voluta schierare dalla parte di coloro che hanno proposto tale provvedimento. Qualora ci fossero state motivazioni e critiche costruttive non avrei voluto commentare l’atteggiamento del partito di Bossi. Il problema reale è che il voto contrario non è stato determinato da ragioni di merito; non è stata cioè criticata l’inutilità dello stesso o il fatto che questo non sia risolutivo. Il provvedimento non è stato votato perché la Lega ha reputato inutile intervenire in una città incapace di risolvere il problema della “monnezza”. In parole povere il problema dei rifiuti di Napoli sarebbe colpa dei napoletani.

Fondamentalmente con il voto contrario la Lega, ben sapendo di non ostacolare il varo del provvedimento, ha voluto semplicemente ribadire la sua posizione. Non si può non sottolineare la gravità delle dichiarazioni rese per l’occasione dal Senatùr, a parere di chi scrive sin troppo sottovalutate quanto anacronistiche e fuorvianti. «I napoletani non hanno imparato la lezione. Noi il problema dei rifiuti lo abbiamo già risolto una volta e ora i rifiuti sono ancora per strada, vuol dire che i napoletani non imparano la lezione».

Queste parole hanno offeso la mia persona e in particolare la mia morale di onesto cittadino. Non sono napoletano, ma non serve essere napoletani per sentirsi feriti dall’ennesima dimostrazione di come i governi, di destra o di sinistra che siano, e più in generale il potere, tendano a scaricare sui più deboli il proprio degrado morale (e la propria insensibilità), figlio di condotte che da anni hanno contribuito a infangare la nostra Italia e in particolare Napoli. Qualunque persona, qualunque cittadino onesto è in grado di capire che la colpa non può essere dei napoletani; i napoletani sono le vittime di tutta questa ennesima vergogna italiana. Consentire dichiarazioni di questo genere significa compiere un altro passo verso la rovina e la decadenza dello Stato e di chi lo rappresenta. Se è vero che oggi più che mai “Napul’è na carta sporca”, dato che è ancora sommersa dai rifiuti, è ancora più vero che “nisciuno se ne importa”, perché nessuno ha interesse a prendersela a cuore, e la cosa più triste è che c’è ancora chi racconta che la colpa è dei napoletani, quando tutti sappiamo che i napoletani sono le sole vittime di questa “monnezza morale”.

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Pm Cancro della democrazia

Ormai non c’è più limite al peggio. Non passa giorno che l’asticella della normalità non venga spostata qualche centimetro più avanti. All’udienza del processo Mills, il premier Silvio Berlusconi ha definito i pm “cancro della democrazia” (fonte | Repubblica.it). Mentre il presidente Napolitano invitava ad abbassare i toni, a chiudere le polemiche e i continui attacchi ai giudici nel giorno della memoria delle vittime del terrorismo, a Milano va avanti lo show propagandistico di Berlusconi fuori dalle aule del processo. Il Premier addirittura auspica la creazione di una commissione d’inchiesta “per verificare se ci sia un’associazione con fine a delinquere” (fonte | Repubblica.it).

Attacchi continui alla magistratura malvagia, unica indiziata dei mali di questo Paese. Attacchi che salgono gradualmente di tono, che equiparano un organo dello Stato istituito per far rispettare il diritto ad una malattia terribile e terminale. Il messaggio è chiaro, curare questo cancro, questa metastasi. La scelta dei termini utilizzati in queste dichiarazioni serve a colpire la massa, serve a dare un’immagine fortemente negativa del lavoro dei PM che, per l’appunto, non fanno altro che svolgere il proprio lavoro. Eppure vengono attaccati quotidianamente, insultati, delegittimati. Cosa si fa con il cancro? Lo si cura, lo si elimina, si cerca di estirparlo, prima che sia troppo tardi. Prima che porti alla morte del malato. Il solo pensiero fa accapponare la pelle, eppure in Italia la cosa passa quasi in sordina, non c’è indignazione, sembra quasi che le forze ormai siano finite, terminate. Chi si azzarda a contestare, a parlare, a dire la sua in maniera forse irruenta, viene trascinato di peso dalle forze dell’ordine, con un’aggressività onestamente ingiustificata (video qui). “Non si può più neanche parlare in questo paese.” Una frase che colpisce. Non è vero, caro il mio contestatore. Si può parlare, ma non tutti possono farlo. Tu non puoi urlare “fatti processare”, ma qualcun’altro può dire “i PM sono il cancro.” Paradossi tutti italiani che riempiono il cuore di amarezza.

Sono cadute le braccia a tutti, la voglia di combattere sta finendo, e continuiamo a sorbirci comizi pseudo-politici e propaganda elettorale spicciola dove tutto è permesso, dove lo Stato attacca sé stesso, rigetta i suoi organi principali. Un Premier che trasforma il suo essere imputato in un punto di forza o di debolezza degli avversari. Non si riesce a sconfiggerlo democraticamente, e allora i PM eversivi fanno di tutto per danneggiarlo. È questa l’immagine che passa, la realtà delle cose lontana dalla realtà dei fatti. Non fa più scandalo un Premier che è imputato in diversi processi ancora in carica al suo posto al Governo, lo scandalo diventano i PM che vogliono sovvertire il voto popolare (quella famosa maggioranza assoluta, che poi tanto assoluta non è), il voto democratico.

Ma sono davvero i PM il vero pericolo della nostra democrazia? O forse di quest’ultima non è rimasto più niente, è stata ormai fatta a brandelli? Chi è il vero cancro del nostro Paese?


Il Flop Federalista

Per tanti anni è stato un oggetto misterioso, un concetto astratto, una scatola vuota senza un contenuto chiaro, promessa e al tempo stesso minaccia. Stiamo parlando del federalismo, tornato di moda nell’ultimo ventennio e imprescindibile caposaldo elettorale della Lega Nord. Ma proprio quando questa oscura materia sembrava prendere forma ecco arrivare gli intoppi. Il primo passo concreto era stato mosso nel maggio del 2009 con l’approvazione della Legge Delega 42 con la quale il Parlamento dava al governo potestà legislativa riguardo il cosiddetto “federalismo fiscale”. Ma che cos’è questo oscuro concetto?

Detto in breve, si tratta di un regime fiscale che punta a mantenere una proporzionalità diretta tra le imposte riscosse in un certo territorio e le imposte utilizzate nell’area stessa. Questo principio, in verità è già contenuto nella costituzione, per l’esattezza all’articolo 119 che recita testualmente: “I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno risorse autonome. Stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio”.

La legge 42 dava al governo la delega per fornire agli enti locali gli strumenti e il coordinamento per attuare il federalismo fiscale. Il primo di questi strumenti è stato il d.lgs 852010, comunemente chiamato “federalismo demaniale”. Con questa legge il governo trasferiva agli enti locali una vasta tipologia di beni demaniali e ne disciplinava la gestione e l’alienazione. In soldoni, gli enti locali diventavano responsabili e gestori di edifici, terreni, strutture dismesse e uffici precedentemente amministrati dalla pubblica amministrazione. Il federalismo fiscale vero e proprio è stato per lungo tempo materia di un’apposita commissione bicamerale, definita “bicameralina”, un organo consultivo con il compito di valutare e correggere i decreti attuativi.

Tutto il resto è storia di questi giorni.

Sul decreto attuativo del federalismo municipale, la legge che avrebbe dato autonomia impositiva ai comuni e avrebbe trattenuto sul territorio parte dell’IRPEF e dell’IVA riscossi si è arenato in bicamerale. Nonostante questo, il Consiglio dei Ministri, forzando i regolamenti ha licenziato il decreto che è stato prontamente respinto dal Presidente Napolitano in quanto irricevibile “non essendosi con tutta evidenza perfezionato il procedimento per l’esercizio della delega previsto dai commi 3 e 4 dall’art. 2 della legge n. 42 del 2009 che sanciscono l’obbligo di rendere comunicazioni alle Camere prima di una possibile approvazione definitiva del decreto in difformità dagli orientamenti parlamentari“.

Il no di Napolitano ha avuto l’effetto di mettere nuovamente in subbuglio una maggioranza risicata e che puntava proprio sul federalismo per ricompattarsi. Se da un lato il Presidente del Consiglio minimizza definendo il stop del Quirinale come una mera questione procedurale, La Lega è in fibrillazione. La base mostra segni di insoffereza nei confronti dell’alleato e allo stesso tempo pretende il tanto promesso federalismo. La battuta d’arresto del secondo decreto attuativo rischia, nel migliore dei casi, di rallentare e di molto l’iter verso il federalismo fiscale e nel peggiore dei casi di far cadere l’intero governo. L’autonomia impositiva degli enti locali, costituisce la base fondamentale su cui, in futuro, dovrà reggersi la futura Italia federale, uno stato completamente ristrutturato nel suo insieme che, secondo le stime più ottimistiche, vedrà la luce solo nel 2020.

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Meridiano Zero – La nave Italia affonda.

Ci si è completamente dimenticati del popolo. Noi stessi, cittadini con un’opinione, ormai nicchiamo, facciamo spallucce, perché “tanto è così”, perché il mondo gira in questo modo e che ci vuoi fare, perché loro sono i potenti e noi solo pecore e via così.

Il popolo è sovrano di questa nazione e pare che se ne siano dimenticati tutti, dai politici che non eleggiamo più direttamente (e così ecco le veline e le pompinare in parlamento) al popolo stesso che non rivendica ciò che è suo.

Un Governo, indipendentemente dallo schieramento di appartenenza, ha tutto il diritto di fare il suo lavoro e in linea generale non apprezzo i criticoni del primo giorno. Sono liberale in questo. Ma quando un Governo implode su sé stesso e inizia a perdere i pezzi, e a cedere, a dire “non è più sostenibile” è pure uno come Fini, è lampante che sia l’ora di schiacciare forte sul tasto reset e fare tabula rasa di quel che rimane; invece il Parlamento viene usato trasversalmente come il giardino di casa propria, da destra a sinistra: è assurdo che Napolitano (ex comunista e mai stato simpatizzante di Berlusconi) si appelli al dovere istituzionale del presidente della Camera (un mese fa) per far votare la sfiducia oggi, dando tutto il tempo a Berlusconi per fare i conti necessari a strappare un 314 a 311 con 2 astenuti; è diventata un’oligarchia che si rimbalza il joystick del paese, un po’ a me e un po’ a te e tutti contenti e i franchi tiratori (in questo caso con fucili caricati a salve) a pararsi il culo (http://www.domenicoscilipoti.it/ già online le motivazioni del voto di fiducia, non male per un sito normale) e a pienarsi le tasche a suon di consulenze da 100.000 euro.

E ora? Passerà Natale, ma il Governo non ha i numeri per governare seriamente e, esattamente come 16 anni, è tenuto per le palle da Bossi che avrà carta bianca prima di far staccare la spina al moribondo.

E’ una nave che sta affondando e io, onestamente, vorrei tanto scendere.

Il lodo (Alfano) che esce dalla porta e rientra dalla finestra

La legge è uguale per tutti? Una domanda banale, per la quale ci si aspetterebbe una risposta ancora più banale. Invece, sembra essere diventata la questione filosofica più complicata in assoluto (almeno in Italia).

La questione non è più banale da quando Berlusconi è salito al governo. Evidentemente lui è più uguale degli altri.

Ecco la  notizia di oggi: il Pdl ha messo a punto un nuovo disegno di legge – in sostituzione del Lodo Alfano – costituito da tre articoli, che prevede uno scudo giudiziario per il Presidente della Repubblica, per il Presidente del Consiglio e per i ministri. Rispetto al Lodo, sono stati esclusi dallo scudo le figure del presidente della Camera e quello del Senato per rispondere all’obiezione della Corte Costituzionale secondo la quale, a quel punto, lo scudo sarebbe dovuto essere esteso anche ai parlamentari.

Il gioiellino è stato firmato da Maurizio Gasparri e dal (presidente) vicario dei senatori Gaetano Quagliarello.

L’ennesimo tentativo di leggina ad personam, perlomeno, non tenta di nascondere – a partire dal nome – lo scopo per cui nasce. “Scudo”: appena penso a questa parola mi vengono in menteLo scudo e il Cavaliere immagini di combattenti, validi eroi che si difendono dagli attacchi nemici, da draghi; gentiluomini che mettono a rischio la propria vita per il bene dell’umanità. E cos’altro è il nostro caro presidente del Consiglio, se non un valoroso Cavaliere combattente, costretto a difendersi dagli attacchi di chi gli vuole male?

Il ddl in questione prevederebbe che il procedimento giudiziario possa andare avanti, obbligando invece il Magistrato a informare la camera di competenza (Camera o Senato) e chiedere a questa l’autorizzazione a procedere, che può essere negata entro 90 giorni dall’avvio delle indagini. Detto in parole povere: mettiamo che io sia indagata per un’ipotesi di reato. Il procedimento nei miei confronti comincia, si raccolgono prove e si fanno le indagini del caso. Il Magistrato che si occupa del mio caso, intanto, avverte mia madre e le chiede gentilmente se può continuare ad indagare. Ovviamente mia madre, che mi vuole bene, se vede davanti a sé porsi la possibilità di fare in modo che io non abbia fastidi di alcun genere cerca di evitarmeli, quindi risponde al Magistrato: “la ringrazio tanto per la sua proposta, ma preferisco che mia figlia non venga indagata”. Allora, il Magistrato non può far altro che ringraziare e allontanarsi con la coda fra le gambe, aspettando che io abbia voglia di farmi processare.

È assolutamente assurdo. Non vedo come – a meno che non siano malate – delle menti riescano a pensare a qualcosa del genere. Ovviamente si parla solo di sospensione del processo fino al termine del mandato, non di annullamento, ma ponendo ad esempio il caso remoto che Berlusconi continui a governare fino al termine del suo mandato e che, per assurdo, venga poi eletto Presidente della Repubblica… Beh, fate voi i conti.

Le informazioni al riguardo sono ancora poche, ho appreso la notizia dall’ANSA. Ma l’esperienza mi dice che  le cose possono solo essere peggiori di quello che sembrano all’inizio, sicuramente non saranno migliori.

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Il decreto "salva liste", il ritorno del popolo viola e la Rivoluzione dei fiori

[stextbox id=”custom” big=”true”]L’articolo di oggi è scritto da “millecose“, la nostra nuova collaboratrice. Vi invitiamo a seguire anche il suo interessante blog che trovate all’indirizzo http://millecose.wordpress.com/ Buona lettura! [/stextbox]

Chi ci tiene ad informarsi (soprattutto tramite la rete), sarà rimasto forse disorientato per gli avvenimenti caotici avvenuti in questi giorni, relativi alla presentazione delle liste in Lazio e ai problemi burocratici  in Lombardia per la lista di Formigoni.
Ma cosa è successo di preciso? Procediamo con ordine.

Entro le 12 del 27 febbraio si sarebbero dovute presentare le liste per le elezioni regionali ma, inspiegabilmente, la lista del Pdl in Lazio non ha presentato i documenti entro i termini concessi.
Contemporaneamente – o quasi – in Lombardia la lista per Formigoni non viene ammessa per riscontrata irregolarità di oltre 500 firme.

Cosa succede all’interno del Pdl? Possibile che il partito più forte (e più ricco, e più organizzato, e più ecc, ecc.) in Italia si perda in un bicchiere d’acqua per questioni di carattere burocratico? Comunque sia, la cosa non ci riguarderebbe se solo i Pdlibertini si fossero limitati ad accettare  le conseguenze delle loro azioni. Invece no: mentre un qualsiasi cittadino vede ogni giorno respingersi legittime domande  relative ad invalidità, pensione, concessione di una casa popolare; mentre si vede costretto a pagare due volte nello stesso bimestre la luce o il gas a causa di un cavillo burocratico o di qualche modulo compilato parzialmente o in maniera errata, in nome della legge e della Santa Burocrazia, loro (i Libertini) fatta la legge trovano l’inganno (o almeno ci provano). Da qui il decreto “salva-liste” (per salvare la lista in Lombardia) che dovrebbe consentire il corretto svolgimento delle consultazioni elettorali per il rinnovo degli organi delle Regioni a statuto ordinario fissate per il 28 e 29 marzo 2010 tramite interpretazione autentica delle disposizioni del procedimento elettorale e il ricorso per salvare la lista in Lazio.

La mano violaIl Presidente Napolitano, con non poche perplessità iniziali, firma. Il popolo viola si mobilita per sabato prossimo (13 marzo, ndR), per celebrare il funerale del diritto in piazza Navona. Milioni di persone si mobilitano su facebook, il gruppo “5 marzo 2010. Oggi c’è stato un golpe” (http://www.facebook.com/group.php?v=wall&ref=mf&gid=358735789264) conta, ad oggi, più di 35.000 iscritti. Per il 20 Marzo già più di 1.000 persone hanno aderito alla “Rivoluzione dei fiori”, durante la quale mazzetti di crisantemi saranno portati all’Altare della Patria a Roma e alle sedi delle prefetture nelle altre città.

Mentre il Pdl, secondo sondaggi, perde credito anche presso i propri elettori, il Tar del Lazio si pronuncia: respinto il ricorso del Pdl per le candidature di Roma e provincia. I giudici hanno rinviato al 6 maggio prossimo (quindi a elezioni avvenute) l’udienza per discutere il merito del ricorso (fonte: Repubblica.it).

Sarà valsa la pena non ammettere di aver sbagliato? Avrebbero fatto meglio ad accettare l’errore? Solo il tempo lo dirà.

Ricerca ed ipocrisia nel sistema Italia

Ha destato clamore ed un acceso dibattito la lettera di Pier Luigi Celli, direttore generale della Luiss, pubblicata giorni fa su “La Repubblica”. I Tg ci bombardano quotidianamente con notizie di scontri e intrighi politici, processi e leggi ad personam riguardanti Berlusconi, conflitti tra le istituzioni, manifestazioni di piazza, arresti per corruzione… ma la lettera di Celli apre uno squarcio tra la mediocrità di tutti i giorni, capta repentinamente la nostra attenzione, colpisce i nostri umori penetrando nelle nostre speranze. Che sembrano affossarsi definitivamente.

“Figlio mio, stai per finire la tua Università; sei stato bravo. Non ho rimproveri da farti. Finisci in tempo e bene: molto più di quello che tua madre e io ci aspettassimo. È per questo che ti parlo con amarezza, pensando a quello che ora ti aspetta. Questo Paese, il tuo Paese, non è più un posto in cui sia possibile stare con orgoglio.”

(lettera integrale | via Repubblica)

Non vorrei in questa sede affrontare eventuali speculazioni di pensiero sull’autore e sui motivi che lo hanno spinto a scrivere, ma aprire un dibattito sul tema da lui lanciato.

Quale futuro spetta ai giovani laureati?

Le previsioni non sono per nulla rosee: l’Italia è un paese che paga dazio per l’enorme debito pubblico ereditato dalle generazioni precedenti, per gli sperperi e la corruzione che hanno contraddistinto tutte le politiche economiche di questo paese. Siamo un paese anziano, la spesa pensionistica incide profondamente sul bilancio della previdenza sociale. Risulta evidente che i margini per investire sullo sviluppo siano piuttosto esigui, impegniamo risorse per la ricerca meno di tutti in Europa, lo 0,9% del Pil. Il tetto minimo fissato nel vecchio continente è del 3%.  Oltre alla scarsa sensibilità istituzionale nel reperire fondi c’è da sommare il grado di affiliazione come criterio selettivo per lavorare nelle università (ma non solo). Allo stato attuale, alla luce di tutto, possiamo dedurre tre possibilità d’inserimento nel lavoro per i neo-laureati attinenti al titolo di studio:

–       Nessuna possibilità

–       Precarietà maggiore rispetto ai “notabili”

–       Fuga all’estero

Dopo tanti anni di studi e sacrifici, la terza ipotesi è concretamente allettante. Il presidente della Repubblica Napolitano ha invitato i giovani a non andare via dall’Italia.

“Non andatevene, l’Italia può crescere”

(link | via Repubblica)

Perché il posto lo offre Lei? Perché i baroni dell’università senza giovani si ritroverebbero disoccupati? Caro Presidente, ma Le pare il modo di umiliare la Ricerca con l’elemosina mediatica, con programmi come Telethon? Ci ritroviamo al solito modo di fare le cose all’italiana: ricordando che le chiacchiere stanno a zero, finché non si aumenteranno risorse e non si provvederà a scardinare il clientelismo in nome di un principio virtuoso di meritocrazia, gli inviti a restare sono proposte di una vita di umiliazioni e di stenti e tanti ancora emigreranno, tantomeno pochi arriveranno dall’estero.

I giovani potrebbero concretamente far ripartire l’Italia mettendosi a lavorare in proprio, le risorse umane non mancano, il mondo ci invidia, ma poi finireste per prendervi voi i meriti, politici di una casta come tante altre in Italia. Allora tenetevi questo (bel) Paese.