Non c’è cosa più spaventosa che percepire, sotto di sé, il pavimento oscillare e sentire le persone al proprio fianco che, con gli occhi inumiditi, implorano Dio che tutto finisca bene, cioè che le pareti smettano di muoversi da una parte all’altra. Da sempre ci hanno insegnato, in modo austero e freddo, che l’unica cosa che non dobbiamo fare – soprattutto noi alunni, quando inaspettatamente il terremoto decide di spezzare la nostra terra – è abbandonarsi al panico. Ammetto però di non essere affatto capace di mantenere la calma, in particolar modo non l’ho saputo fare il 20 e il 29 maggio, quando potenti scosse hanno violentemente agitato l’Emilia, la mia terra; non è che mi paralizzo davanti a tale potenza naturale, anzi, ho dei buoni riflessi: alla prima vibrazione cerco subito riparo. Il problema è che il terrore, che viene partorito non appena sento il pavimento ballare, inibisce ogni mia briciola di coraggio e preclude la mia possibilità di vivere tranquillamente. È logico rispondere di avere paura davanti a questa situazione incontrollabile – per tal motivo trovo schifosamente deficienti quei giornalisti che domandano ai terremotati cosa hanno provato o come stanno dopo una scossa di terremoto – e se ora qualcuno mi chiedesse come sto, ammetterei disinvoltamente di avere ancora paura, un po’ perché ho la certezza che qui, come in molti angoli d’Italia, gli edifici sono costruiti senza criteri antisismici, e un po’ perché non so quale buon futuro mi si prospetta davanti, soprattutto in seguito alla dichiarazione rilasciata da Squinzi che, dinanzi alle macerie e ai capannoni semi-distrutti, ha detto che gli edifici sono costruiti a regola d’arte, e in seguito alla falsa solidarietà di Napolitano che ha spiegato che soltanto noi Emiliani saremo in grado di sistemare le cose: evidentemente voleva affermare in maniera chiara e definitiva che dallo Stato non arriverà nessun aiuto. Ma si sapeva senza che lo dichiarasse pubblicamente.
Da buona emiliana, spero soltanto che lo sciame sismico si sia definitivamente placato e che, con coraggio e fortuna, riusciremo a sistemare ciò che il terremoto ha annientato. Come molti altri emiliani sono molto delusa, arrabbiata e infelice. Sono delusa dallo Stato perché, come sempre, è assente dinanzi a tali calamità naturali, e perché trova ogni pretesto per salvarsi il culo ogniqualvolta che è necessario. Sono arrabbiata perché c’è chi, come Napolitano, ha lasciato che la situazione rimanesse solo nelle mani nostre, poiché falsamente convinto che noi possiamo fare tutto, anche ricominciare daccapo. Sono infelice perché per colpa dell’italianità – ossia del prendere tutto alla leggera, non eseguire controlli e non ammodernarsi in modo consapevole e giusto – sono morte ventisette persone, molte delle quali erano operai. Nel loro nome io scrivo questo articolo, per affermare quel che disse Lennon – “lavoro è vita” – e per denunciare che nel duemiladodici non possono crollare case, palazzine, capannoni, industrie poiché costruite in tutti i modi fuorché a regola d’arte. In nome di Paolo Siclari, Mauro Mantovani, Enea Grilli, Eddy Borghi, Vincenzo Iacono, Hou Hongli, Iva Contini, Daniela Salvioli, Enzo Borghi, Sergio Cobellini, il parroco don Ivan Martini, Gianni Bignardi, Mohamad Azarg, Kumar Pawan, delle altre vittime, degli sfollati, dei ferraresi, dei modenesi, dei reggiani e dei mantovani, io accuso il Papa di essere un avido individualista che ha speso oltre 13.000.000 di euro per la sua visita a Milano durante i primi di giugno, quando era pienamente consapevole che una parte di quel denaro poteva essere risparmiata e consegnata alle terre colpite dal sisma; accuso inoltre Napolitano di essere il peggior esempio di rappresentanza statale che io abbia finora incontrato lungo i miei diciotto anni di vita, e che oltre a essere avaro, è pure disgustosamente indifferente: cosa ha fatto di effettivo per l’Emilia, oltre a esprimere la sua più sentita vicinanza alla mia terra? E infine, accuso i media che invece di mettere in chiaro i reali motivi per cui l’Emilia è stata colpita da infiniti sismi e di narrare la reale gravità della situazione che lega la mia terra a un incontrollabile panico sociale, sposta l’attenzione sui centri storici che vanno a pezzi, sui sismologi che boriosamente sparano al vento le loro assurde teorie (c’è chi dice che s’è aperta una nuova faglia, chi rammenta che la mia terra è sempre stata sismica, eccetera), creando una situazione di terrore e distogliendo l’attenzione degli italiani dai nodosi problemi di natura politico-economica. Nel nome di chi è morto perché il soffitto gli è cascato in testa, io voglio che venga fatta giustizia, e cioè che, partendo da questa lugubre ma non irrimediabile realtà, venga abbandonato l’assurdo modo italiano che utilizziamo nel fare le cose; che quindi vengano effettuati più controlli, che nascano grandi innovazioni, che si acquisiscano idee moderne, più efficaci in campo architettonico e lavorativo. Voglio che l’Italia esca dal medioevo e dalle barbarie sociali per tuffarsi in una realtà più panoramica e sicura per tutti noi. Ciò che frena queste mie utopie sono l’incoerenza e la fragilità proprie del nostro Paese che lo limitano a bloccarsi a ogni ostacolo, a ogni cataclisma, a ogni imbattibile apparenza: tali debolezze rendono invincibile tutto ciò che, con un po’ di consapevolezza e coraggio, si può combattere.
“Pardunànd uń lèder as cundàna chi è unest” (“perdonando troppo chi sbaglia, si fa ingiustizia all’onesto”): noi emiliani non abbiamo bisogno di sentirci dire dai governanti che ci sono vicini col pensiero, che in futuro ci manderanno aiuti, o che ci sarebbe potuto capitare qualcosa di peggiore. Abbiamo bisogno che l’Italia cambi faccia per sempre. Abbiamo bisogno che venga fatta giustizia in nome di chi, andando al lavoro, ora non c’è più.