Cronache di ordinario razzismo

Nel giro di pochi giorni, due fatti di cronaca hanno tristemente meritato gli onori delle prime pagine dei giornali. Con buona pace degli amanti dei plastici, in nessuno dei due casi c’è di mezzo un omicidio di una ragazza in una villetta. Forse proprio per questo, a entrambe le notizie, è concesso di risuonare nelle TV per non più di qualche volta, per poi addentrarsi nell’oblio. Stiamo parlando di quanto accaduto sabato a Torino e martedì a Firenze. Torino e Firenze, due fiori all’occhiello dell’Italia civile e colta. Evidentemente non immuni alla xenofobia e all’odio razziale. È bene fermarsi a riflettere su quanto accaduto senza trincerarsi dietro la generica definizione di “folle tragedia”.

Di razzismo se ne parla sempre troppo poco, specialmente in proporzione alla diffusione di questa piaga nella società. Fanno notizia per qualche ora i fischi rivolti negli stadi ai giocatori neri, ma in fin dei conti, deandreanamente (mi si passi il termine), ci si costerna, ci si indigna, ci si impegna e poi si getta la spugna, prima di tutto quella mediatica. È difficile, fa paura, ma è palese che del razzismo siamo tutti impregnati. Intere generazioni sono cresciute con l’incubo degli zingari che rubano i bambini, degli albanesi che rubano il portafoglio, dei marocchini che spacciano e degli extracomunitari che aggrediscono le donne la sera. Un discorso a parte meriterebbe l’analisi dell’utilizzo del termine “extracomunitari”, che dall’ambito squisitamente geopolitico ed economico è diventato un gradino di un’orribile scala di rispettabilità delle persone, non di rado uno degli ultimi. Sono interessanti  le dichiarazioni di Sandra (nome fittizio), la ragazza di Torino che ha inventato la balla dello stupro subito da parte dei rom. In un’intervista a Repubblica, ecco cosa risponde alla domanda sul perché abbia scelto proprio i rom del campo vicino a casa sua come finti aggressori: “Ho sbagliato. Ma il mio non è razzismo. Chiedete a chiunque in quartiere, quasi tutti hanno avuto un furto in casa. È normale che la gente sia esasperata, anche se non si può giustificare quello che è successo alle baracche dei rom, dove c´erano donne e bambini. Quando sono uscita dal garage (il luogo dove Sandra aveva passato il pomeriggio di giovedì insieme al fidanzato, di tre anni più grande, ndr) e ho incontrato mio fratello c´erano due ragazzi del campo in lontananza che scappavano. Io li ho visti, anche lui li ha visti, una parte della mia bugia è nata così”. L’equazione “straniero = delinquente” è scolpita nella mente. Nessuno intende giustificare o chiudere un occhio sui furti -se e quando commessi- ma se quello di Sandra non è razzismo, allora ci spieghi cos’è. Vogliamo chiamarlo “vendetta etnica”? Se non è zuppa è pan bagnato. Non si tratta di puntare l’indice contro di lei, che si spera possa almeno imparare qualcosa dalla vicenda. Tuttavia, è impressionante la facilità con cui la scintilla dell’odio si sia propagata, dalla mente di Sandra, alle torce della fiaccolata di protesta di sabato sera, per finire nel rogo del campo rom per opera degli immancabili criminali.

Diverso nei modi, ma della stessa natura, il caso di Firenze. Qui, in circostanze tragicamente più semplici, un pazzo ha deciso di sparare a vista ai senegalesi, iniziando in periferia per finire nel cuore del centro storico, prima di suicidarsi vistosi assediato dalla polizia. Il fatto che il folle criminale fosse un dichiarato neofascista, simpatizzante di Casa Pound, non restringe in alcun modo la gravità della vicenda e la cerchia di responsabilità morale. Fin troppo semplice ripararsi dietro il paravento dell’estremismo di Casseri, questo il nome dell’omicida-suicida. Piuttosto, è d’obbligo domandarsi come e perché certe indoli certamente non ordinarie possano condurre a comportamenti tali. È perfino superfluo sottolineare come il razzismo e la xenofobia abbiano trovato sempre più spazio negli ultimi anni nelle discussioni politiche, da quelle in Transatlantico a quelle al bar. Quando si arriva a proporre di sparare ai barconi, di riservare alcune carrozze della metropolitana agli stranieri, di istituire ronde di quartiere (proposta, questa, malauguratamente realizzata), in breve, di perseguire i più biechi istinti di discriminazione e intolleranza, senza che si registrino reazioni diverse dall’indignazione e dalla costernazione di cui sopra, è automatico che l’asticella della civiltà si muova verso il basso. La responsabilità materiale della morte dei senegalesi di Firenze, dell’incendio del campo nomadi di Torino, dei fischi allo stadio verso i giocatori neri, non grava certamente sulle spalle della Lega. D’altro canto, il movimento politico di Umberto Bossi & Co. è servito da apripista e cassa di amplificazione per il generale sdoganamento dell’intolleranza etnica e razziale. Troppe volte idee barbare e malsane sono state archiviate come folklore e frettolosamente accantonate nel mucchio delle fesserie senza conseguenze. La stessa sorte che probabilmente toccherà agli abietti commenti che fioccano sui forum di estrema destra in riferimento agli omicidi di Firenze. Magari qualcuno di questi animali finirà anche davanti al giudice, ma nella coscienza dell’opinione pubblica “questi sono fascisti, è un caso isolato”. Finita lì.

La goccia scava la roccia e oggi ci troviamo di fronte a una voragine di ignoranza che mina la civiltà e la modernità della nostra società. Per questo motivo, prima che i riflettori si spengano e i commenti si esauriscano, vale la pena chiedere: l’Italia si scopre razzista, o lo ha sempre saputo?

P.S.: Il titolo di questo articolo richiama volontariamente il nome di un sito di cui è caldamente consigliata la visita. Se la costruzione di una cultura di accoglienza trovasse la stessa rilevanza mediatica della bestialità, probabilmente non ci sarebbe bisogno di scrivere pagine come questa.

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Un rigurgito antirazzista

È risaputo. L’ufficio postale è frequentato da tante persone, senza selezione all’ingresso, e troppo spesso capita di dover sentire parole che l’udito ci impedisce di allontanare dai nostri pensieri.

Davanti all’ingresso un’auto della Polizia e una coppia in divisa. Un uomo e una donna che chiacchierano animatamente con un terzo arrivato, nascosto dietro un enorme paio di occhiali da sole.

“Io non sono razzista ma… – afferma il personaggio dalle lenti giganti – avete presente quegli undici che sono morti l’altro giorno alle coste di Lampedusa? Mi dispiace solo per il bambino”.

“Non devi dispiacerti neanche per il bambino – risponde convinta la donna in divisa. – Prima o poi anche quello sarebbe diventato adulto”. “Ah ah ah ah”, risponde il trio di risate.

Risus abundat in ore stultorum”, diceva sempre il mio professore di latino al liceo. “Grasse risate abbondano nelle bocche degli stolti”, ogni volta ripeteva affinché tutti capissero.

Ci deve essere qualcosa di sbagliato in persone che trovano la capacità di ridere davanti alla morte di undici persone, tra cui un bambino. Viene quasi voglia di diventare violenti…

Ripiego su un ostentato sguardo di disapprovazione e un morso alla lingua per impedirle di dare voce alle insolenti offese che mi ingombrano la mente. Non sarebbe un bel modo di chiudere la settimana essere accusata di oltraggio a pubblico ufficiale.

Un altro respiro profondo per scaricare la rabbia e una pedalata verso casa, tentando di convincermi che in fondo ognuno è libero di avere le proprie idee e di esprimerle quando e dove vuole. Che in fondo Umberto Bossi ha il diritto di liquidare una questione complessa come gli sbarchi a Lampedusa con un colorito “fuera da i ball”. E che in fondo la maggioranza delle persone non riuscirebbero mai a ridere della triste battuta di quella strana donna con la divisa blu. Spero.

 

Al-Sakkeh e Vanzhata: i figli degli emigranti

[stextbox id=”custom” big=”true”]Un nuovo autore su Camminando Scalzi.it

Mi chiamo Salvo Mangiafico Sono nato a Siracusa all’alba di un giorno di settembre del 1983. Ho trascorso i successivi 18 anni nella più classica della “provincia”, nel bene e nel male. Torino mi ha coccolato per i sei anni di università (vado orgogliosissimo dell’anno in più), prima di imbarcarmi su un aereo per il Wisconsin (un pezzo del mio cuore è rimasto a Madison, WI). Altri due anni al di là dell’oceano e adesso sono in Francia, a Lione.

Mi piace leggere, ascoltare musica, dare calci a un pallone, la buona tavola, la settimana enigmistica. Non mi piacciono i film doppiati. Non sopporto un mondo che vorrebbe costringermi ad apprezzare più un pezzo di carta con la filigrana che un sorriso di Elisa. Non mi avranno mai.[/stextbox]

La storia di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti viene spesso ricordata a memoria del difficile passato da emigranti degli italiani, di quando eravamo noi che chiudevamo la famosa valigia di cartone, abbandonavamo spesso per sempre i luoghi dove eravamo nati e cresciuti e sognavamo un futuro migliore; se non per noi, per i nostri figli. Ci trasferivamo in un paese sconosciuto, ci spaccavamo la schiena, spesso non riuscivamo a integrarci subito e cercavamo un rimedio alla nostalgia formando delle comunità di italiani in cui sentivamo il profumo delle nostre radici. Ovunque siamo andati abbiamo trasmesso al paese che ci adottava un po’ della nostra cultura, del nostro spirito, delle nostre usanze. Due i prodotti più famosi: la pizza e la mafia. L’Italia è famosa nel mondo per mille altre ragioni, ben più nobili, ma qui sto prendendo in considerazione le “specialità” italiane che abbiamo materialmente esportato con le nostre mani e il nostro lavoro. La Primavera del Botticelli, in un certo senso, si “vende” da sola. La sua fama si è propagata da sé… Botticelli non l’ha certo caricata su un carro e portata in giro per il mondo. Lo stesso vale per la letteratura, la musica, l’arte, tutte quelle cose che ci piace elencare quando vogliamo sentirci migliori degli altri. Senza l’emigrazione dei nostri padri, nonni e bisnonni, invece, la pizza e la mafia sarebbero probabilmente rimaste entro i nostri confini nazionali. Passi per la pizza, ma la criminalità non poteva essere un gran bel biglietto da visita. E infatti insieme all’ammirazione ci siamo creati anche una certa nomea, tanto da vederci rifiutati gli ingressi nei luoghi pubblici e gli affitti. Sacco e Vanzetti ci hanno rimesso anche la vita, per quella nomea. La loro è una storia di ingiustizia, discriminazione, in una parola: razzismo.

Quante sono le famiglie italiane che hanno visto partire qualcuno, a volte ritornato, a volte no? Penso che tutti abbiamo ascoltato di quel parente o amico di parenti che si è trasferito chissà dove. In un certo senso, siamo tutti figli o parenti di emigranti. Come popolo, ci ritroviamo un enorme bagaglio di storie, esperienze e vite, che abbiamo chiuso in soffitta. Oggi che le nostre città si riempiono di volti di gente fuggita dalla miseria, venuta da noi in cerca di serenità, noi ci sforziamo in tutti i modi di smentire la nostra fama di popolo caldo, accogliente e generoso. Volendo forzare un po’ la mano, è come se ci stessimo vendicando delle angherie subite ai nostri tempi, come se dicessimo “adesso tocca a voi”. Spesso le persone che arrivano da noi hanno un’ulteriore spinta, che noi non avevamo. Noi fuggivamo dalla povertà. Loro scappano anche dalle guerre o da situazioni politiche instabili.

In questa sede non ha senso la distinzione fra clandestini e regolari, perché voglio riflettere sul nostro atteggiamento come singoli e dei comportamenti che teniamo nella vita quotidiana. È inevitabile toccare argomenti che hanno a che fare con la politica, ma ciò che mi preme sottolineare sono le motivazioni che le spingono. Mentire a sé stessi non è impossibile, ma per lo meno richiede uno certo sforzo. Affittereste un vostro appartamento a uno straniero? Non c’è neanche bisogno di usare il termine “extracomunitario”, visto che mi riferisco anche a polacchi e rumeni. Però le badanti ci fanno comodo, vero? In nero, si intende. Una delle bestialità più frequenti è “la maggior parte di quelli che vengono qui poi lavorano in nero e non pagano le tasse”. Al di là delle statistiche del tutto soggettive, di chi è la colpa quando qualcuno è assunto in nero? L’ipocrisia a volte non ha limiti… Un altro argomento in voga è la mancata volontà degli immigrati di integrarsi. L’integrazione si realizza quando entrambe le parti ne hanno voglia e convenienza. Faccio un esempio legato a ciò che vedo qui in Francia. Com’è noto,  i flussi migratori in Francia sono frutto del passato coloniale di questo paese, il che fa sì che la grande maggioranza degli stranieri presenti oggi nel paese siano di origine maghrebina, prevalentemente tunisini e algerini. Esiste un problema di integrazione anche qui, ma guarda caso i casi problematici riguardano pressoché sempre persone che sono relegate nelle banlieues. Ne avevo sempre sentito parlare, ma quando ci sono andato sono rimasto colpito. Questi nuclei suburbani hanno un aspetto da romanzo di fantascienza post-atomico. Casermoni abitativi con decine, a volte centinaia di appartamenti, alle periferie delle città, vicino o nel pieno delle zone industriali. Progettati per essere ghetti. Esattamente come lo ZEN di Palermo o le Vele di Scampia. Esattamente con gli stessi problemi. Strano, vero?

L’ho detto e lo ripeto: l’integrazione si attua da entrambe le parti, non dipende esclusivamente da noi. Ma di sicuro noi non stiamo facendo la nostra parte. Le ronde non costituiscono propriamente una politica di integrazione, così come l’attenzione morbosa dei media nei confronti degli stranieri a ogni nuovo episodio di cronaca. Quando si parla di legge poi, l’atteggiamento è “colpirne uno per educarne cento”.

I meccanismi per assumere la cittadinanza italiana sono proibitivi. Il figlio di una coppia di stranieri, nato e cresciuto in Italia, educato nelle scuole pubbliche italiane, deve aspettare i 18 anni per essere riconosciuto come un italiano. È illogico, oltre che assurdo.

In fondo ci conviene che le cose siano così. Una persona debole non è nella posizione di far valere a pieno i suoi diritti, quindi è di fatto subalterna. L’effetto principale del reato di clandestinità (finché regge, vista l’entrata in vigore della direttiva europea n° 2008/115/CE) non è prevenire la crescita della schiera di “invisibili”, ma impedire loro di rivolgersi alle autorità in caso di soprusi. Infatti se da un lato fa ridere l’idea di fermare le migrazioni di popolazioni con una leggina, dall’altro dichiarare criminali i clandestini è il modo migliore per evitare che un lavoratore sfruttato assunto in nero denunci il suo sfruttatore alla polizia. Sulla stessa scia l’oscena proposta di obbligare i medici degli ospedali a denunciare i clandestini dopo averli curati al pronto soccorso.

A quando un Sacco o un Vanzetti nigeriano? E se fossero già in galera?

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La Normale Scuola di Saviano

22 gennaio 2010. Appuntamento alle ore 17 nella “Sala Azzurra” della Normale di Pisa. Il noto giornalista Roberto Saviano tiene un incontro dal titolo “Strategie e tattiche criminali internazionali”, il primo del ciclo di seminari che seguirà in primavera… Alle ore 16:15 una fiumana di persone ammassate impedisce la visuale delle marmoree scale della rinomata Scuola pisana. Gli 80 posti della sala adibita all’incontro sono già stati occupati dai pochi privilegiati a conoscenza della possibilità di prenotare. Le altre 4 aule in collegamento video riusciranno ad accogliere solo una minima parte dei tanti aspiranti caoticamente disposti in fila che inutilmente attendono di varcare la bramata soglia.

Normale di Pisa

Svanita la prospettiva di poter accedere a quell’elitario incontro per “potenti” ed “insigni” fortunati, una rapida pedalata mi riaccompagna sul divano di casa, dove lo streaming della diretta ha già cominciato a divulgare il discorso del celebre autore di “Gomorra”… I suoi tratti scuri e marcati, il suo onesto sguardo appassionato, il suo manifesto sorriso affabile e la timida gestualità di un uomo che nonostante il meritato successo ha custodito la semplicità di chi si emoziona per un complimento. La sua incantatrice esposizione narrativa e le tante parole che per oltre tre ore hanno rapito la mente dei tanti che hanno scelto di ascoltarlo. Non ama definirsi un eroe, ma certamente rappresenta un simbolo, di singolare talento giornalistico e spiccata integrità umana.

Roberto Saviano ha parlato di poche città, emblema dei luoghi in cui le radici delle mafie hanno attecchito prima di espandersi su tutto il territorio nazionale, e anche oltre. Perché non esiste sbaglio peggiore di pensare che tale questione sia confinabile nel solo “Meridione”.

Roberto Saviano ha parlato di Villa Literno, dove negli anni ’70 un’ondata di manodopera africana giunse nelle vaste campagne della provincia casertana per la raccolta dei pomodori. Dieci anni dopo… la rivolta, nello stesso stile della recente Rosarno. Nel 2008 la ribellione scoppia a Castel Volturno, a seguito di un regolamento di conti interno al Clan dei Casalesi. Assieme alla vittima predestinata Antonio Celiento, un pregiudicato affiliato al clan, persero la vita sei passanti innocenti. Sei giovanissimi immigrati africani vennero brutalmente assassinati in quella che successivamente venne chiamata “la strage di Castel Volturno”. Il giorno seguente al massacro donne, bambini e lavoratori scesero in strada per gridarlo a gran voce: “Mai più. Non osate!”. E’ l’urlo audace e convinto di coloro che hanno già rischiato tutto e non hanno più niente da perdere. L’ostinata determinazione di chi ha scelto quella terra nella ricerca di un futuro migliore, e non riesce ad accettare l’ingiusta condizione dei tanti italiani che oramai si sono adeguati a convivere con un Male troppo potente per essere debellato.

Territori ostili, dove i fori di proiettile sui cartelli stradali simboleggiano il chiaro segnale di una zona “dominata”, sotto controllo. Luoghi dove chi lavora nei campi viene spesso costretto ad ingerire pericolose misture di droghe ed alcol, per sopperire a condizioni di lavoro umanamente insostenibili. Zone dove si può essere assassinati per una denuncia, come il centinaio di lavoratori polacchi misteriosamente scomparsi in Puglia, dopo che tre connazionali ventenni, il 10 agosto 2005, decisero di smascherare i perversi meccanismi del caporalato pugliese.

Stavolta è toccata a Rosarno: l’attuale simbolo di una lotta che coloro che nascono in questi territori non riescono a fare. “L’immigrazione come potenzialità antimafia”, sostiene lo scrittore, perché chi nasce in certi territori è oramai rassegnato al fatto che in quelle zone o si convive o si va via, e non c’è nulla che si possa fare per sovvertire l’ordine prestabilito dalle mafie. Ma per gli immigrati la rivolta è lecita.

Loro vogliono stare lì, – prosegue Saviano – non vogliono andare via. Loro hanno scelto di crescere in un territorio migliore”.

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Dov'è finita la speranza?

A volte ci si sveglia la mattina e ci si sente semplicemente pessimisti. Inizia così questo 2010, e non so quanto sia poi diverso dal 2009 appena trascorso. Quello che si sente, che si tasta con mano, è che la Speranza la stiamo perdendo un po’ tutti.

Viviamo in un Paese in cui la democrazia viene costantemente calpestata giorno per giorno, senza che nemmeno ce ne rendiamo conto. Semplicemente uno non ci fa più caso. E’ un paese diventato ormai palesemente razzista (vedi i fatti di Rosarno), che si concentra tanto a criticare le parole di un calciatore di nome Balotelli che si è permesso di dire che il pubblico che lo insulta “fa schifo”. Pensate un po’, fa più scandalo questo, che il coro razzista e i buu ai giocatori di colore.

Viviamo in un Paese in cui un giovane ha pochissime speranze di fare quello che desidera nella vita. Un Paese in cui per quanto tu possa essere laureato a pieni voti, nessuno ti cerca, nessuno ti vuole. Ah no, qualcuno sì, i call center. Di quelli sembra non esserci mai penuria in Italia, rappresentazione tangibile di quell’incubo che sono i contratti a tempo determinato, che non ti permettono di organizzare un qualsiasi progetto di vita perché si sa, tra un anno sarò di nuovo in mezzo alla strada.

Viviamo in un Paese in cui l’arte e la creatività vengono in tutti i modi bistrattate, in cui un creativo ha possibilità pari a zero di mostrare le proprie capacità. Semplicemente, da noi, la cultura non esiste. Guardate un po’ alla Musica Italiana ad esempio… Sempre le stesse facce, sempre le stesse canzoni, incastrati come siamo tra un presunto gotha della canzone autoriale (mi viene in mente Vasco) e i mostri che vengono fuori dal reality show di turno, destinati, come le farfalle, a durare soltanto una stagione, e poi addio. Proponendo rigorosamente musica melodica di cinquant’anni fa, si intende. Per non parlare dell’aspetto televisivo, dove ci tocca barcamenarci tra fiction qualitativamente degne della peggior telenovela sudamericana, a fronte di produzioni internazionali che ormai poco si discostano da un prodotto di qualità cinematografica. Nel 2010 noi abbiamo sempre le stesse facce in televisione, un’intera schiera di attorucoli che si contendono il posto nella “nomeacasofiction 3, 4, 5, ventimila”.

Viviamo in un Paese in cui la televisione pubblica è in mano a pochi elementi, in cui la diversificazione non esiste, in cui la tanto decantata libertà di scelta offertaci dal mirabolante digitale terrestre non si riduce altro che ad una semplice moltiplicazione per dieci di tutto quello che già abbiamo. E’ un paese in cui la contro-informazione è vista di malocchio, continuamente attaccata, continuamente bistrattata: un dictat qua, una cancellazione di là, un editto bulgaro e così via.

Siamo un Paese in cui il Digital Divide la fa ancora da padrone, in cui ci sono zone ancora difficilmente raggiunte da internet, vera ultima frontiera di libertà di espressione e di informazione. La TV però, quella si prende dappertutto. Per carità, che non si perda l’occasione di indottrinarci nella giusta maniera.

Viviamo in un Paese in cui la classe politica è troppo impegnata a cercare di risolvere i propri problemi piuttosto che pensare a quelli della gente. A fare proclami su inutili e costosissime opere pubbliche che poi alla fine funzionano anche male (vedi Alta Velocità), mentre per fare un viaggio in treno intercity le persone se la devono vedere con il Signore, sperando di non morire assiderati/bolliti/malati. E guai a chiedere un risarcimento, guai a chiedere informazioni. Nella migliore delle ipotesi si viene trattati a pesci in faccia. Mancano le infrastrutture ferroviarie, e ci imbarchiamo in un progetto quale il ponte sullo stretto.

E certo non si occupa della gente, la classe politica; la gente comune, quella stessa gente che poi inevitabilmente continuerà a dare la vittoria allo stesso schieramento, sebbene nulla sia stato fatto, le pensioni scendano, non ci sia lavoro, non ci siano soldi, tutti si lamentino. Continua però imperterrita a votare da una sola parte (ma guai ad ammetterlo in giro eh!). D’altronde l’alternativa non esiste, stanno semplicemente facendo di tutto per rimanere ognuno al proprio posto, perché conviene così, perché dei problemi veri del Paese non frega niente a nessuno.

Viviamo in un Paese in cui ogni decisione etica deve passare per bocca di esponenti dello Stato Vaticano; gente, per capirci, che continua ad essere contro all’uso del preservativo, unico vero strumento di prevenzione di malattie che hanno fatto ecatombi nel mondo. Dove se una persona ormai ridotta ad un vegetale ha intenzione consapevolmente di andarsene da questo posto in cui siamo tutti di passaggio, deve affrontare inferni che sono solo in terra.

Viviamo in un Paese dalla memoria corta, dove tante emergenze vengono risolte con semplici proclami, una soluzione immediata che faccia tanta scena da mostrare nel salotto televisivo di turno, e poi tutti dimenticano. E le persone passano gli inverni nelle tende. Intere stagioni. Mesi. E poi anni. Ma insomma, in TV hanno detto che il problema è risolto, quindi possiamo dimenticarcelo.

Viviamo in un Paese in cui quei pochi che riescono a trovare un lavoro decente rischiano spesso la vita ogni giorno, per un salario da fame, solo per tenere su una famiglia e crescere dei figli, figli che rappresentano il nostro futuro. Un futuro che però non è mai stato tanto incerto come oggi. Fate un po’ il conto di quante notizie di incidenti mortali sul lavoro ci sono ogni anno… Ma è più importante chi esce dal Grande Fratello, quella sì che è una grande tragedia.

Viviamo in un Paese dove ogni discussione tra giovani riguardo al loro futuro finisce per essere intrisa di un malcelato sconforto, della consapevolezza che tutto quello che si è provato a costruire negli anni non servirà a niente. E ci si chiede un domani cosa fare, e sempre più spesso si sente paventare l’ipotesi di andare all’estero, di scappare da questo posto che sembra non funzionare più. Ma è davvero così?

Cosa saranno i prossimi dieci anni di questo nuovo millennio nessuno può dirlo, anche se le prospettive, al giorno d’oggi, sembrano tutt’altro che rosee. Le scelte rimangono poche. O si va via, si scappa il più lontano possibile, o si resta a combattere cercando di tenere in piedi i cocci di ciò che rimane della parola “Speranza”.

Banlieue italiane

Chi semina vento raccoglie tempesta, e c’era da aspettarselo che prima o poi anche l’Italia avrebbe conosciuto le rivolte delle banlieue francesi… Già nel dicembre 2008 Medici Senza Frontiere era intervenuta a Rosarno e nella Piana di Gioia Tauro e aveva denunciato le spaventose condizioni in cui vivevano i circa 1500 migranti che abitavano nella zona.
Nel rapporto “Una stagione all’inferno”, citato anche da Elisa Battistini su “Il Fatto Quotidiano” del 13 gennaio, MSF denunciava che il 62% di questi immigrati non disponeva dei servizi igienici e il 64% non aveva accesso all’acqua potabile.
Impiegati come forza lavoro nel settore agricolo, alloggiavano in una vecchia fabbrica in disuso e in un’altra struttura fatiscente, disumanamente accampati in precarie condizioni igieniche, con una paga che si aggirava intorno ai 25 euro per un’intera giornata di lavoro.
Il vaso oramai colmo d’acqua è dunque traboccato. Il ferimento di un paio di migranti con un’arma ad aria compressa è stata la goccia di troppo… quella che ha dato il via alla rivolta, alla violenza e allo sgombero che ne è seguito.

Lavorare come schiavi e vivere come bestie, mentre la politica italiana continua a trattare la questione “immigrazione” come se fosse un problema esclusivamente legato alla Sicurezza, spesso supportato da un sistema d’informazione che asseconda questo pregiudizievole punto di vista. Ma Rosarno, così come l’Italia intera, incapace di indignarsi per la completa soppressione dei diritti umani di quegli individui, non ha esitato a scandalizzarsi non appena quelle stesse persone hanno deciso di ribellarsi.

E adesso poco importa se “dietro le quinte” aleggia l’ombra delle cosche della ‘Ndrangheta. Se persino Maroni ha dovuto ammettere che la maggioranza di quei migranti aveva un regolare permesso di soggiorno. Se questa violenta sommossa non è stata altro che la conseguenza di troppi sbagli e dell’indifferenza generale in cui sono stati commessi.
I riflettori si spegneranno e le tante Rosarno d’Italia continueranno a percorrere la loro solita strada, incuranti del passato e di ciò che esso ha da insegnare…

Balotelli e l'ipocrisia razzista

Ci risiamo.
Anche ieri a Bordeaux si è sentito il coro: “Se saltelli muore Balotelli”, intonato nel settore dei tifosi della Juventus.
Dopo questo scorretto jingle, Buffon e Secco sono andati sotto la
curva a cercare di persuadere i 300 dal cantare, inutilmente.
Ci ha provato allora
lo speaker dello stadio ricordando che a Bordeaux il razzismo non è accettato (in quali città francesi quindi è accettato?).
Dopo essere stati rimproverati, i 300 tifosi si sono calmati, hanno ripreso fiato e hanno intonato:”Un negro non può essere
italiano”.
Lì scommetto che Secco ha pensato “Cazzo era meglio il primo coro”.
Punto 1 – Il primo coro non è razzista, è un coro
da stadio, vecchio quanto il “Devi Morire” intonato quando un
avversario rimane a terra infortunato.
Non ho mai sentito allo
stadio “Coraggio riprenditi”, o “Avversario facci un gol”.
Non è il rugby.
Punto 2 – Il secondo coro è razzista, ovvio. Ma finchè ci sono
Ministri della Repubblica Italiana che inneggiano all’inesistente
“Padania”, perchè stupirsi? Quelle persone sono state elette dal
popolo. Li rappresentano. Perchè stupirsi?
Prima di tutto, puniscano tutti i rappresentanti dei cittadini che si macchiano di razzismo, dai parlamentari -http://www.corriere.it/Primo_Piano/Politica/2006/01_Gennaio/15/calderoli.shtml –  ai comunali – http://www.camminandoscalzi.it/wordpress/il-white-christmas-di-brescia.html – . Solo così si può urlare allo scandalo dei cori razzisti negli stadi senza ipocrisia.
Questo deprecabile razzismo da stadio sta rovinando l’immagine di milioni di razzisti per bene. (Altan)

Ci risiamo.

balotelliAnche ieri a Bordeaux si è sentito il coro: “Se saltelli muore Balotelli”, intonato nel settore dei tifosi della Juventus.

Dopo questo scorretto jingle, Buffon e Secco sono andati sotto la curva a cercare di persuadere i 300 dal cantare. Inutilmente.

Ci ha provato allora lo speaker dello stadio ricordando che a Bordeaux il razzismo non è accettato (in quali città francesi quindi è lo è? ).

Dopo essere stati rimproverati, i 300 tifosi si sono calmati, hanno ripreso fiato e hanno intonato: “Un negro non può essere italiano”.

Lì scommetto che Secco ha pensato “Cazzo era meglio il primo coro “.

Punto 1 – Il primo coro non è razzista, è un coro da stadio, vecchio quanto il “devi morire” intonato quando un avversario rimane a terra infortunato.  Non ho mai sentito allo stadio un “coraggio riprenditi”, o “avversario facci un gol”.

Andiamo, non è il rugby.

Punto 2 – Il secondo coro è razzista, ovvio.

Moneta Lega CLP 003Espressione di una mancanza di cultura e civiltà che in Italia è dominante. Viviamo in una provincia che spera nella botta di culo.  O per dirla alla Diogene: Preferisco avere una goccia di fortuna che una botte di saggezza”.

Quello che penso sempre in questi casi è che finchè ci sono Ministri della Repubblica Italiana che inneggiano all’inesistente “Padania“, perchè stupirsi? Quelle persone sono state elette dal popolo. Li rappresentano. Perchè stupirsi?

Perchè non puniscono  tutti i rappresentanti dei cittadini che si macchiano di razzismo? Dai parlamentari http://www.corriere.it/Primo_Piano/Politica/2006/01_Gennaio/15/calderoli.shtml –  ai comunali – http://www.camminandoscalzi.it/wordpress/il-white-christmas-di-brescia.html – .

Se lo facessero, allora si potrà urlare allo scandalo dei cori razzisti negli stadi senza ipocrisia.

Questo deprecabile razzismo da stadio sta rovinando l’immagine di milioni di razzisti per bene. (Altan)

Il "White Christmas" di Brescia

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Una nuova collaboratrice su Camminando Scalzi.it

Si unisce a noi Erika Farris, autrice del blog “Isterika“. Erika nella vita è un’aspirante giornalista e oggi ci propone il suo primo articolo di attualità.
Buona lettura!

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Un bianco Natale senza immigrati – titola un articolo di Repubblica.it del 18 novembre – Per le feste il comune caccia i clandestini”.
A Coccaglio, in provincia di Brescia, il sindaco leghista e la sua amministrazione comunale hanno deciso di “Far piazza pulita”, giacché il “Natale non è la festa dell’accoglienza ma della tradizione cristiana”. Anche Monica la pensa come loro. Lei è mamma di due ragazzi e lamenta: “I miei figli hanno solo amici extracomunitari. Uno ha 14 anni, l’altro 12. Vanno in giro sempre con due romeni e due africani. A Coccaglio sono tantissimi. Io però non voglio che escano con questi. È razzismo questo?”.

immigrazioneRazzismo? Ma figuriamoci… Disprezzare qualcuno solo perché è romeno o africano sta alla base del processo d’integrazione, così come il “White Christmas” a caccia di neri, per debellare il pericoloso morbo di clandestinità tanto diffuso tra i cittadini di colore.
Ma cosa si intende con la parola clandestino? Come spiega Giuseppe Faso in Lessico del razzismo democratico, «si può essere senza “permesso di soggiorno” perché lo si aveva, e non si è riusciti a rinnovarlo; o perché si è entrati in Italia con un visto turistico, che poi è scaduto; oppure perché si è entrati in Italia di soppiatto. I primi due sono “irregolari”, quest’ultimo è “clandestino”. Cosa cambia? I primi due hanno dato “contezza di sé” presso un ufficio di polizia, il terzo no».
Ma il recente “Decreto Sicurezza” sancisce l’illegalità di questo status, dove irregolare è sinonimo di clandestino. Dove avere un documento scaduto equivale ad essere un criminale perseguibile dalla legge…

integrazioneGeoffrey è californiano, studia in Italia da circa 5 anni e il suo permesso di soggiorno va annualmente rinnovato, con un preavviso di 60 giorni. “Nessuno mi ha mai controllato, – afferma – ma mi è capitato più di una volta di avere il permesso scaduto, in attesa di un rinnovo che spesso arrivava a pochi giorni dalla scadenza. La burocrazia italiana è terribilmente lenta ed inefficiente”.

Fatjona è albanese e vive a Firenze da quasi 6 anni, dove lavora per pagarsi gli studi. “Ogni anno è la stessa storia – spiega. – Due mesi prima della scadenza del permesso presenti la domanda per rinnovarlo, ma non puoi mai sapere quando arriverà. In Italia è molto facile diventare clandestini”.

Maria è nata in Toscana 21 anni fa, ma è figlia di immigrati cinesi e neppure la sua condizione è troppo facile. “Non sono un’immigrata perché sono nata qui, – afferma – eppure mi definiscono migrante di seconda generazione. Mi sento come una persona senza radici: i miei tratti somatici mi caratterizzano come cinese, ma la lingua e la cultura che conosco mi rendono italiana, sebbene sino ai 18 anni io non avessi neppure il diritto di chiedere la cittadinanza”.

Persino il noto giornalista Gad Lerner, intervistato da Fabio Fazio durante la puntata di Che tempo che fa del 21 novembre, ha affermato di essere stato “clandestino” in più di un’occasione prima di ottenere la cittadinanza italiana, e sempre per disguidi burocratici.

Criminali senza crimine e clandestini senza clandestinità, in un Paese incoerente, opportunista e con una memoria troppo corta per ricordare il proprio passato…