Campagna di obbedienza civile per il referendum sull'acqua

È passato quasi un anno da quando, il 12 e 13 giugno del 2011, ben 26.130.656 cittadini italiani hanno barrato “sì” sul secondo quesito referendario che faceva riferimento alla “determinazione della tariffa del servizio idrico integrato”.

Il 20 luglio 2011 la pubblicazione del Decreto del Presidente della Repubblica n°116 sanciva ufficialmente l’abrogazione della norma che consentiva ai gestori di caricare sulle nostre bollette anche la componente della “remunerazione del capitale investito”: una cifra pari a circa il 7% della sommatoria degli investimenti effettuati nel periodo di affidamento al netto degli ammortamenti. Una voce che incide fra il dieci e il venticinque percento del valore complessivo delle bollette e che nessun gestore si è ancora degnato di cancellare, con tanti cari saluti a quel 95,8% di votanti che ha espresso parere favorevole riguardo alla soppressione di tale contributo.

È per questo motivo che dal gennaio 2012 il Forum dei Movimenti per l’Acqua ha lanciato la “Campagna di Obbedienza Civile”, invitando i cittadini a pagare le bollette relative ai periodi successivi al 21 luglio 2011 applicando una riduzione pari alla componente di costo della “remunerazione del capitale investito”. Una campagna in cui non si “disobbedisce” a una legge ingiusta, ma semplicemente si applica una legge esistente con l’obiettivo di ottenerne l’applicazione da parte dei gestori del servizio idrico.

Un’azione collettiva sostenuta dagli svariati comitati per l’acqua disseminati sul territorio nazionale, che si occupano di guidare i cittadini in questa mobilitazione per l’affermazione di un diritto sancito legalmente. Un’attività che prevede un preciso iter burocratico, come l’invio della diffida all’AATO (Autorità Ambito Territoriale Ottimale) e di un reclamo all’ente gestore, con procedure che dovrebbero garantire ai cittadini di non incappare in azioni giudiziarie o sanzioni di alcun genere.

Una campagna a cui tutti possiamo prendere parte, consultando il sito www.acquabenecomune.org e scoprendo il proprio sportello informativo di riferimento in base al comune di residenza. Perché il referendum è uno dei pochi strumenti di democrazia diretta che ci è rimasto e perché, come afferma lo slogan dei Movimenti per l’acqua: il nostro voto va rispettato!

 

 

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Il centrosinistra e il gol a porta vuota

Una vignetta dell’Independent di qualche giorno fa ben descrive la situazione italiana in questo momento. Le redini del paese sono nelle mani di una persona che se ne disinteressa totalmente. L’ha sempre fatto, a dire il vero, ma in questo momento è palese che il suo unico cruccio è quello di divincolarsi dalla morsa in cui si è stretto da solo.  Ciò nonostante, il nostro Nerone gode ancora della fiducia di molti pretoriani incuranti di gettare al vento quei pochi scampoli di dignità che fossero loro eventualmente rimasti dopo le ignominie di cui si sono resi protagonisti pur di difendere il loro scranno nelle aule che contano. Magari sganasciandosi dalla risate al grido “Forza Gnocca”, in pieno spirito pre-adolescenziale, molto più che istituzionale. Considerata anche la situazione internazionale, l’aria che si respira porta con sé l’odore della pioggia imminente, che promette di rivelarsi un diluvio.

Per questa ragione, siamo costretti ad occuparci dell’opposizione. Infatti, la cosa di cui l’Italia avrebbe più bisogno è un’alternativa credibile e seria alla follia autodistruttiva, in grado di costringere politicamente il buffone al governo (definizione del Sunday Times) a farsi da parte insieme al resto del suo circo di animali, trasformisti e ballerine. È impietoso, oltre che inutile, sottolineare come di una tale entità si senta disperatamente la mancanza. Delle vicissitudini estive del Partito Democratico ci eravamo già occupati. Purtroppo dobbiamo tornarci. Lo strabiliante (oppure no) esito della raccolta firme per il referendum abrogativo del porcellum suona come una sorta di schiaffo nei confronti di un partito che pretende di incarnare l’alternativa a Berlusconi & Co. ma che balbetta quando c’è da sottoscrivere e appoggiare una causa sposata da 1.210.466 cittadini, senza contare tutti i potenziali SÌ che il quesito potrebbe ricevere alle urne. Potrebbe, non potrà, poiché l’ombra della forzatura antidemocratica si staglia sulla prospettiva del voto referendario. C’è da augurarsi che nessuno dei luminari politici del PD proponga un negoziato con la maggioranza in materia di legge elettorale, mettendosi (nuovamente) di traverso sulla strada del referendum e aprendo la via a una seconda degenerazione democratica a pochi mesi dalle elezioni, degna erede della legge Calderoli. In questo senso, Enrico Letta non ha mancato di sparare un colpo, auspicando una modifica della legge elettorale in Parlamento. L’intellighenzia del PD, evidentemente, non ha compreso a fondo il modus operandi dell’attuale maggioranza, nonostante le numerose dimostrazioni offerte. Inutile sottolineare come i dissidi interni, questa volta dovuti alla faccenda referendaria, siano sfociati nell’ennesima richiesta di dimissioni del segretario.

Al di là delle continue diatribe intestine, che pure contribuiscono al mantenimento del caos, è l’inerzia politica il principale ostacolo del partito. Molti osservatori hanno sottolineato l’analogia dell’attuale fase storico-politica con l’epoca di Tangentopoli. Allora la “gioiosa macchina da guerra” del centrosinistra si preparava a far man bassa di voti alle elezioni, salvo subire una bruciante sconfitta ad opera dell'”uomo nuovo” di Arcore. Per quanto oggi la situazione sia diversa, il centrosinistra si trova nuovamente con la palla al piede di fronte a una porta sguarnita. I sondaggi mostrano un discreto vantaggio nei confronti del centrodestra, con il Terzo Polo che, al momento, non sembra in grado di spostare in modo decisivo gli equilibri. Il 45% di indecisi dovrebbe far riflettere, a questo proposito. C’è un enorme bacino di elettori disgustati dalla politica allo stesso tempo nulla e imbarazzante della compagine governativa, ma che non subiscono il fascino di un’alternativa indecisa che stenta a proporre un programma di governo. In fondo, le intenzioni di voto per il PD e il PdL non differiscono drammaticamente. Evidentemente gli elettori di Silvio Berlusconi sono restii ad abbandonare il loro punto di riferimento, incuranti dello scempio perpetrato dal gran visir. D’altra parte, il PD non appare in grado di strappare consensi approfittando del naufragio del transatlantico del centrodestra.

Eppure i numerosi segnali che la parte civile della nazione invia alla politica da un anno a questa parte sono eloquenti. Il modello sperimentale del centrosinistra che ha trionfato alle elezioni amministrative di primavera è stato frettolosamente accantonato per far posto alle innumerevoli e confuse proposte di grande ammucchiata con i centristi, vicari della Chiesa in Parlamento, che peraltro nicchiano. Anche volendo, pericolosamente, dare per scontata una vittoria alle prossime elezioni politiche, gli errori di un passato non troppo lontano, con coalizioni troppo eterogenee, dovrebbero servire da monito. Senza una decisa svolta di metodo e, inevitabilmente, di persone, cosa succederebbe di fronte a temi come i diritti civili o la laicità dello stato? Come si può chiedere ai cittadini la fiducia per governare un paese stanco di Berlusconi accanto a figure che a Berlusconi offrono un appoggio per le sue porcherie, ultima fra tutte la legge bavaglio?

Nella tragicità della situazione italiana, la prospettiva di una maggioranza che non inneggi ai genitali femminili e non usi il dito medio per rilasciare dichiarazioni politiche rappresenterebbe già un significativo passo avanti. Tuttavia, accontentarsi di un panorama del genere significherebbe rassegnarsi a un’involuzione sociale e morale dell’intero paese, non senza conseguenze anche da un punto di vista economico per le tasche dei cittadini. La nostra storia recente determina l’urgenza di un cambiamento di paradigma politico, non solo di sigle al potere. Visto il grado crescente di partecipazione “dal basso” alla vita politica dell’Italia, l’attuale classe politica è tenuta a prendere atto del proprio fallimento e a lasciare spazio a nuovi volti e, soprattutto, nuovi metodi. Il centrosinistra, in particolare, non ha più scuse. Non può sbagliare un altro gol.

PD: Partito Democratico o Premiata Ditta?

La serietà della crisi economica e le sue ripercussioni sulla disastrata situazione italiana stanno ulteriormente aggravando la caduta di consensi per la maggioranza. Con un governo in debito d’ossigeno e aggrappato a equilibrismi politici estemporanei, un’opposizione normale di un qualsiasi paese democratico avrebbe buon gioco a incamerare i favori della popolazione, stanca e delusa dall’incapacità e dalla miopia della classe dirigente. Un’opposizione normale, appunto. Di una tale entità in Italia mancano le tracce. Tralasciando il ruolo dei due partiti-spalla, IdV e SEL, la principale forza politica del centro-sinistra, il Partito Democratico, appare preda di sé stessa e delle sue congenite tendenze masochistiche.
L’apertura di un’indagine a carico dell’ex-ministro Scajola (ci chiediamo se di questo, almeno, sia consapevole) è quasi oscurata dall’altrettanto incresciosa vicenda legata a colui che fino a pochi giorni fa era l’uomo forte del PD lombardo e il braccio destro del segretario del PD Bersani, Filippo Penati. I dettagli che stanno emergendo, e che minacciano di scatenare un precipitoso effetto domino all’interno del partito, disegnano un sistema di malaffare che sembra uscito dalle cronache giudiziarie dei primi anni novanta. Al livello politico, quello che lascia interdetti è l’assoluta mancanza di trasparenza e di chiarezza da parte dell’establishment del partito. Le stesse persone che, giustamente, mostravano indignazione e cavalcavano (non troppo, a dire il vero) le malefatte del premier, adesso balbettano frasi di circostanza di fronte ai microfoni. Una forza politica che intenda anche solo fingere di essere affidabile non può in alcun modo permettersi il lusso di far trascorrere dei giorni prima che il segretario prenda una posizione netta nei confronti del ricorso alla prescrizione da parte di un papavero del gruppo dirigente. Se è vero che la rinuncia alla prescrizione è una scelta personale, il pronunciamento di un partito nei riguardi di un principio alla base di una sana etica pubblica non è un optional. Tanto più in un paese come l’Italia, in cui, purtroppo, il rispetto della legge si configura ogni giorno di più come una virtù anziché come un requisito di base. Il susseguirsi di cinquant’anni di inciuci all’ombra della balena bianca e del ventennio berlusconiano, inframezzati dalla debitamente accantonata parentesi di Tangentopoli, pesano come un macigno sulla credibilità di chiunque si presenti sulla scena politica. Nell’attesa di nuovi sviluppi che illuminino più chiaramente la faccenda, le colpe di Penati non possono ricadere su tutto il partito, ma la responsabilità politica di chi lo ha spinto in alto nella gerarchia di potere interna non può essere accantonata. Anche quando Bersani non fosse a conoscenza di quanto succedeva, la folgorante carriera di questo dirigente evidenzia una totale mancanza di meccanismi che garantiscano la trasparenza e l’onestà di chi, in prospettiva, si candida ad occupare ruoli di potere nelle istituzioni. Con una sana dose di cinismo politico, il partito avrebbe comunque potuto, se non approfittare della situazione, quantomeno rigirare la frittata, mostrandosi compatto su posizioni di assoluto rigore. Prendiamo atto delle rapide dimissioni di Penati dai suoi incarichi istituzionali e della sua decisione di rinunciare alla prescrizione (almeno stando alle dichiarazioni), tardivamente auspicata dalla maggior parte dei pezzi grossi del PD. Tuttavia l’indecisione e il ritardo dimostrati nel rigettare qualunque sospetto di complicità non contribuiscono di certo a rafforzare la fiducia da parte dell’opinione pubblica.

Il caso Penati non è l’unica spina nel fianco. La cronica capacità del PD di non intercettare la volontà e gli umori della sua stessa base elettorale contribuisce ad aggravare lo stato confusionale, come dimostra un altro tema all’ordine del giorno, squisitamente politico: la raccolta firme per il referendum abrogativo del porcellum, la vergognosa legge elettorale in vigore, scritta da Calderoli e da lui stesso chiamata “porcata”. Tutto il centro-sinistra, PD compreso, esprime da tempo l’intenzione di abrogarla e procedere al varo di una nuova legge che garantisca almeno un minimo di democraticità alle prossime elezioni. Non appena, però, un’iniziativa di alcuni “prodiani”(con Arturo Parisi in testa) apre la prospettiva di promuovere un referendum per cancellare l’assurdo meccanismo di nomina dei parlamentari e tornare temporaneamente al mattarellum, nella speranza che il prossimo Parlamento partorisca un provvedimento migliore, ecco che ciò che era logico diventa tutt’altro che scontato. In assenza, come al solito, di una presa di posizione netta del partito (che non può che essere favorevole), vari nomi importanti dell’establishment del PD aggiungono il loro nome alla raccolta firme in maniera del tutto soggettiva, ma non per questo meno “pesante”, seguendo l’esempio del fondatore, Romano Prodi. Di fronte a un fatto compiuto, anziché ratificare, seppur tardivamente, la decisione apparentemente maggioritaria, il segretario sfodera un capolavoro politico racchiuso nella seguente dichiarazione: “Io non firmo. […] Appoggio l’iniziativa, ma non la sottoscrivo perché quella elettorale è una legge che deve passare dal Parlamento”. Dietro la scelta di Bersani non può non esserci una corrente del partito che evidentemente preferisce non sporcarsi le mani facendo opposizione sul campo, convinta di poter agire a livelli più “nobili”, e che considera più proficuo il corteggiamento verso altre forze politiche che la sintonia con il proprio elettorato. Inutile far notare, infatti, come questa decisione sia perfettamente il contrario di ciò che potrebbe avvicinare il PD all’enorme bacino potenziale di elettori che sarebbero pronti a concedere il proprio voto, ma che, al contrario dei dirigenti democratici, hanno le idee chiarissime.

 

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Referendum: ce l'abbiamo fatta

Ci hanno provato in tutti i modi: hanno sminuito la campagna, non li hanno accorpati con le elezioni amministrative, hanno invitato all’astensionismo, hanno fatto decreti per spostare in là di qualche anno il nucleare, l’informazione elettorale televisiva che rasenta lo zero assoluto, date sbagliate annunciate nei TG nazionali, esponenti politici che parlano ad urne ancora aperte, ormai non sapevano più cosa inventarsi.

Eppure il quorum è stato raggiunto, l’Italia ha risposto in maniera meravigliosa alla chiamata dei referendum, il momento più importante per i cittadini, il momento in cui possono decidere del proprio futuro. La vittoria è nostra, vostra, di tutte le persone che si sono rimboccate le maniche da mesi, dei comitati elettorali, dei social network e dei blog che ancora una volta hanno dimostrato tutta la loro potenza, la potenza che viene dal basso, la potenza del popolo, la vera democrazia. Il boicottaggio verso questi referendum è stato palese, selvaggio, in alcuni casi ai limiti della legalità, tutto all’italiana, come siamo abituati ormai da tempo. Ma la gente si è stancata, i cittadini si sono stancati di tutto questo. Lo avevano già dimostrato nella tornata elettorale delle amministrative. “Il vento sta cambiando” dicevamo. Oggi possiamo dire che il vento è cambiato. Il popolo italiano può ammirarsi e amarsi oggi, perché è riuscito in un’impresa storica, perché ha urlato a squarciagola che non vuole il nucleare, non vuole l’acqua privatizzata, non vuole il legittimo impedimento. E i politici dovranno darne conto adesso.

Ci siamo ripresi con la democrazia, con la forza delle parole, con l’impegno della gente comune quel pezzo di decisioni sul nostro futuro, un futuro che appartiene soltanto a noi e ai nostri figli. Ciò che colpisce di più non è tanto la valutazione politica dietro al voto (che pure andrà fatta), la vittoria non è stata “contro Berlusconi.” Anzi, colpisce quanto poco si sia parlato dell’Imperatore dimezzato in vacanza in Sardegna in questi giorni, a nessuno importava. Questa vittoria è prima di tutto una vittoria del cittadino libero, una vittoria di un popolo che vuole riprendere in mano le sorti di un Paese che sta andando allo sbando. È il ritorno alla politica dal basso, all’attivismo, ai movimenti che non si sono schierati dietro nessuna bandiera, movimenti lontani dai partiti. Semplici ragazzi e ragazze, nonni, maestre, operai, chiunque si è attivato per la campagna. Ed ancora una volta bisogna sottolineare l’immensa potenza della rete, di internet, dei social network. Le campagne sui referendum sono state un’infinità (anche noi abbiamo dedicato un ampio speciale, come sapete, se ci seguite sempre.) Sono partite dal semplice Facebook, da Twitter, e si sono sparse a macchia d’olio nella real life, con volantini, gente con i cartelli, il passaparola.

Ricorderemo questo Referendum come un’enorme festa della democrazia, il giorno in cui il popolo italiano ha dimostrato che non si è addormentato, che non si è rassegnato, che ci crede ancora. Sarà compito adesso della classe politica cogliere il segnale da questa stupenda vittoria. Il Governo è in ogni caso giunto al capolinea, questo ormai sembra chiaro, poco importa che trascini le sue stanche membra ancora per qualche anno o meno. L’epoca del berlusconismo è finita. Ne abbiamo avuto assaggio alle scorse elezioni, e oggi abbiamo la conferma scritta in calce che è proprio così. Il tappo è saltato, l’Italia vuole un cambiamento forte e deciso.

E se non ci aiuta la politica, abbiamo dimostrato che possiamo benissimo farcela da soli.

Ci siamo ripresi il nostro presente, così come ci siamo ripresi il nostro futuro.

 

Nestlé: "Privatizziamo l'acqua e quotiamola in borsa"

Mentre l’Italia si prepara a decidere se accettare che la gestione dei servizi idrici venga assegnata a società private, la multinazionale svizzera Nestlé mette le mani avanti e propone di istituire una Borsa internazionale dell’acqua.

Lo ha dichiarato all’agenzia di stampa Reuters il presidente della società Peter Brabeck, sottolineando che una scelta di questo tipo “così come per altre materie prime, contribuirebbe a regolare il problema della carenza di questo bene prezioso”. La multinazionale svizzera, già da tempo soggetta a una campagna internazionale di boicottaggio per la sua politica sul latte in polvere per l’infanzia (www.ribn.it/), sostiene infatti che le leggi del mercato renderebbero più efficace e funzionale lo sfruttamento delle risorse idriche. “Quando la domanda aumenta – ha spiegato il presidente Brabeck – il mercato reagisce e la gente comincia a usare la risorsa in maniera più efficiente”.

La Nestlé proporrebbe dunque di trasformare l’acqua in una merce a valenza economica e quotarla in borsa, e la cosa non stupisce, considerando anche gli interessi economici che questa società già ha nel mercato delle risorse idriche.

Il gruppo presieduto da Peter Brabeck è, come risaputo, leader mondiale nell’industria di trasformazione degli alimenti e delle acque minerali. Già nel 2005 la Nestlé Waters vendeva 19 miliardi di litri d’acqua all’anno in tutto il mondo, con un fatturato di oltre 5,7 miliardi di euro, come si legge nella “Piccola guida al consumo critico dell’acqua” di Luca Martinelli, edita da Altreconomia.

Molte delle marche di acque minerali vendute in Italia appartengono al gruppo Nestlé Waters, con incassi elevatissimi e spese di canone veramente irrisorie: Levissima (produce oltre 900 milioni di litri annui pagando un canone di appena 464 mila euro); Vera e Vera Santa Rosalia (produzione di oltre 800 milioni di litri all’anno con un canone di circa 3 milioni e 400 mila euro); San Pellegrino (produce oltre 400 milioni di litri con canone di circa 200 mila euro annui), Panna (produzione di oltre 200 milioni di litri e un canone di circa 46 mila euro ), Pejo (produce circa 110 milioni di litri con canone di circa 26 mila euro annui), Lora di Recoaro (produzione di 122 milioni di litri per 292 mila euro) e San Bernardo (150 milioni di litri prodotti con canone annuo di circa 100 mila euro).

Questo è ciò che accade per le acque minerali che vengono imbottigliate e vendute nel mercato internazionale. Con la sua recente proposta la Nestlé vorrebbe delegare alla logica di mercato il compito di stabilire i prezzi delle risorse idriche quotando tale “prodotto” in borsa, come è già avvenuto per altri beni come grano e petrolio, con le conseguenze che oggi sono sotto gli occhi di tutti.

La proposta della multinazionale ha peraltro già trovato consenso nella regione canadese di Alberta, dove il presidente Brabeck ha spiegato di voler “risolvere” il problema della concorrenza, tra agricoltori che necessitano d’acqua per i raccolti e le compagnie petrolifere che utilizzano ingenti quantità di risorse idriche per estrarre il petrolio dalle sabbie bituminose, come spiega la testata giornalistica Agora Vox. Il governo di Alberta avrebbe dunque scelto di distinguere tra diritti alla terra e diritti all’acqua, in modo che il possesso della terra non dia automaticamente diritto all’acqua che vi scorre. Un episodio che può servire a dimostrare quanto consenso potrebbe trovare la proposta della Nestlé.

L’unico potere rimasto a noi cittadini, in questa complessiva degenerazione, è dunque di scegliere quale messaggio dare il 12 e 13 giugno, quando saremo chiamati a rispondere ai due quesiti referendari che ci interrogano sulla possibilità di assegnare la gestione delle nostre risorse idriche a enti pubblici o imprese private. Sarà il caso di rifletterci?

La truffa non è riuscita: si vota per il nucleare

I tristi presagi della vigilia si sono rivelati errati. Contro le aspettative, la Corte di Cassazione ha dato ragione ai comitati promotori del referendum sull’energia nucleare, confermando la validità del quesito. Il 12 e il 13 giugno, quindi, potremo ritirare ai seggi tutte e quattro le schede. In un articolo del nostro speciale sui referendum ci siamo già occupati del quesito sul nucleare, spiegando le ragioni per votare sì e il tentativo che era in atto di scippare i cittadini del diritto di esprimere la loro opinione. Gli avvenimenti dell’ultima settimana rendono necessarie alcune precisazioni.

Il decreto omnibus convertito in legge il 25 maggio scorso prevede l’abrogazione delle norme oggetto del referendum, ma contiene un cavallo di Troia. L’ultimo comma, infatti, permette al governo, tra un anno, di adottare una nuova strategia energetica nazionale, lasciando aperta la porta per il ricorso all’energia nucleare. Per di più, è esplicitamente dichiarato che “il Consiglio dei Ministri tiene conto delle valutazioni effettuate a livello di Unione europea e a livello internazionale sulla sicurezza delle tecnologie disponibili, degli obiettivi fissati a livello di Unione europea e a livello internazionale in materia di cambiamenti climatici, delle indicazioni dell’Unione europea e degli organismi internazionali in materia di scenari energetici e ambientali”. Tradotto, aspettiamo i risultati degli stress test che l’UE si accinge a compiere sulle centrali europee e poiché quasi tutte saranno verosimilmente dichiarate sicure ne approfitteremo per procedere con la costruzione delle nostre. Poco importa se nel frattempo la Germania ha deciso di spegnere tutti i suoi impianti entro il 2022, a prescindere dai risultati degli stress test, e di diventare il leader continentale nelle energie rinnovabili. Da un lato, quindi, il decreto omnibus sembra accogliere le istanze referendarie, ma dall’altro non fa che aggirarle, rinviando la questione di dodici mesi, quando i referendum saranno un ricordo. Per questo motivo la Cassazione ha deciso che il quesito viene ammesso ma modificato. Non si voterà più per abrogare le leggi che prevedevano la costruzione delle centrali nucleari, visto che in un certo senso ci hanno già pensato il governo e il parlamento, ma per cancellare i commi 1 e 8 dell’articolo 5 del decreto omnibus convertito in legge, che lasciano la possibilità di ritornare sulla faccenda l’anno prossimo. Il testo esatto del quesito non ci è noto al momento, ma il significato sarà il seguente: “Volete che sia annullata la possibilità di ricorrere all’energia nucleare fra un anno?”. In un certo senso, lo schiaffo al governo e alla maggioranza è doppio. Non solo il referendum rimane in piedi, contrariamente alla loro volontà, ma viene materialmente trasferito sul loro tentativo di raggirare la sovranità popolare. L’unico problema, adesso, è ristampare tutte le schede con il nuovo quesito. La cosa non dovrebbe preoccupare particolarmente per quanto riguarda lo svolgimento della consultazione in Italia, ma gli italiani all’estero hanno già cominciato a votare sulle vecchie schede, che ora non sono più valide.

In ogni caso, la decisione della Corte consente di nutrire ancora la speranza di raggiungere il quorum, impresa tuttora difficile. Benché gli altri tre quesiti siano ugualmente importanti, il nucleare è sicuramente il tema che più di altri tocca l’interesse della popolazione. Se il quesito fosse stato abolito, l’affluenza alle urne a giugno sarebbe stata probabilmente più bassa. Era proprio questo l’obiettivo del governo, infatti. Il fulcro della questione, com’è noto, è il quarto questito, quello sul legittimo impedimento, che più di tutti gli altri ha una valenza politica e si configura come un plebiscito pro o contro Silvio Berlusconi. Per chi non fosse convinto, bastano le parole di Maurizio Lupi a poche ore dal verdetto della Cassazione per rivelare che la strategia della maggioranza è palesemente quella di incentivare l’astensionismo e di premunirsi nell’auspicabile caso in cui dovessero affermarsi i sì: “Decideremo oggi una libertà di voto da parte degli aderenti al Pdl perché non vogliamo caricare di importanza politica il referendum. Io personalmente non andrò a votare”. Su una cosa ha ragione: materie come acqua e nucleare non hanno colore politico e sui questiti che le riguardano non si deve votare tendendo conto dei partiti che hanno promosso le leggi in questione. Tuttavia, non si potrebbero ignorare le conseguenze politiche di un’eventuale abrogazione della tanto voluta legge ad personam sul legittimo impedimento. Dopo l’esito delle elezioni amministrative, un pronunciamento dei cittadini a favore di un futuro pulito, senza scorie radiottive, in cui l’acqua è un bene prezioso e non una fonte di guadagno e in cui la legge è uguale per tutti sarebbe l’ennesimo colpo al potere di Berlusconi.

Gli altri articoli sul Referendum:

 

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Verso i referendum – parte 4: il legittimo impedimento

Siamo arrivati alla quarta puntata dello speciale di Camminando Scalzi sui referendum del 12 e 13 giugno. Dopo quelli sull’acqua e il nucleare, è la volta del quarto quesito, sul legittimo impedimento, forse il più importante, sicuramente quello che promette di provocare le maggiori conseguenze politiche in caso di vittoria dei sì. Questa osservazione, da sola, rende l’idea del livello di degenerazione della concezione della politica in Italia. Per definizione, infatti, l’idea più nobile di politica è l’amministrazione della cosa pubblica, ordinata al bene della collettività. Nel nostro paese, invece, per molte persone politica è diventato sinonimo di potere irresponsabile, malaffare e intrallazzi. E così la gestione dell’acqua pubblica e la costruzione di centrali nucleari diventano argomenti politicamente meno influenti rispetto ai processi del Presidente del Consiglio.
Prima di spiegare il quesito, cerchiamo innanzitutto di inquadrare la faccenda. Dopo la bocciatura del lodo Alfano da parte della Corte Costituzionale, Berlusconi ha urgentemente bisogno di un nuovo scudo per ripararsi dai processi (tre, all’epoca) che gli pendono sul capo. Per questo motivo, all’inizio del 2010 viene proposto il provvedimento sul legittimo impedimento, trasformato nella legge 51/2010 nell’aprile dello stesso anno (paradossi italiani: tra i firmatari spicca il nome di Michele Vietti, successivamente eletto vicepresidente del CSM).

Il legittimo impedimento in sé non è un’invenzione del PdL. Il codice di procedura penale prevede che un imputato possa richiedere il rinvio di un’udienza processuale che lo riguarda, in caso di “assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento”. D’altronde, non si può costringere qualcuno che abbia problemi di salute o altro ad essere presente in tribunale. In caso di legittimo impedimento, l’udienza (e il processo) salta e viene rinviata a nuova data. Quello che la legge approvata dalla maggioranza di centro-destra introduce è un’estensione del concetto di legittimo impedimento. Nello specifico, la legge 51/2010 sancisce in due brevi articoli che per il presidente del Consiglio e per i ministri, ove imputati in un processo, costituisce legittimo impedimento lo svolgimento delle loro funzioni previste dalla legge, nonché qualsiasi attività preparatoria o connessa. Praticamente, il presidente del Consiglio, se deve preparare un meeting o una riunione, ha il diritto di non presentarsi di fronte al giudice, rinviando il processo, mentre un autista degli autobus, se ha un’udienza in un giorno lavorativo, ci deve andare comunque. Ma come nei migliori varietà, il bello deve ancora arrivare. Nella legge non è prevista la possibilità del giudice di rifiutare l’impedimento proposto, per cui se esso sia legittimo o meno lo decide l’imputato. La parte migliore è il comma 4 dell’articolo 1: “Ove la Presidenza del Consiglio dei Ministri attesti che l’impedimento è continuativo e correlato allo svolgimento  delle funzioni di cui alla presente legge, il giudice rinvia il processo a udienza successiva al periodo indicato, che non può essere superiore a sei mesi”. Significa che il premier può farsi da solo un certificato attestante che per sei mesi lui è troppo impegnato per venire al suo processo, quindi si rinvia tutto. Poiché l’articolo 2 stabilisce che la legge ha validità per i diciotto mesi successivi alla sua entrata in vigore, di fatto il premier può rinviarsi i processi per un anno e mezzo. Anche quelli già in corso, ovviamente, come sancito dal comma 6 dell’articolo 1. Altrimenti a che serve?

In un colpo solo si è riusciti nel miracolo di mettere nero su bianco che la legge non è uguale per tutti o, se si preferisce, che il presidente del Consiglio è più uguale degli altri. Il tutto giustificato dalla necessità “di consentire al Presidente del Consiglio dei ministri il sereno svolgimento delle funzioni attribuitegli dalla Costituzione e dalla legge”, come scritto nella prima stesura del provvedimento. In barba a quanti pensano che un capo di governo toccato da un processo abbia il diritto di difendersi dalle accuse con tutte le proprie forze e il dovere di farlo fuori dalle istituzioni, che non devono subire, insieme ai propri cittadini, la vergogna di una figura su cui grava il sospetto di non svolgere le proprie funzioni con la disciplina e l’onore previsti dalla Costituzione.
Il giorno dopo aver ammesso il referendum sull’abrogazione della legge sul legittimo impedimento, nel gennaio di quest’anno, la Corte Costituzionale si è pronunciata sull’eccezione di costituzionalità sollevata dal tribunale di Milano nell’ambito del processo Mills, finito in ripostiglio proprio grazie alla legge in questione. La Consulta ha cassato il già citato comma 4 dell’articolo 1, per evidenti contraddizioni con l’articolo 3 della Costituzione, mantenendo valido il resto del testo ma aggiungendo il potere discrezionale del giudice nell’accettare la validità dell’impedimento. Il provvedimento ne è uscito fortemente ridimensionato (e infatti i processi di Berlusconi sono ricominciati), ma pur sempre valido. Resta ancora in piedi il diritto del premier, negato ai cittadini comuni, di autocertificare la propria indisponibilità, pur se da sottoporre al parere del giudice. È per questo motivo che il referendum è rimasto valido, nonostante la parziale bocciatura della legge. E per lo stesso motivo il governo ha deciso di silenziare l’intera questione referendaria sperando nel mancato raggiungimento del quorum, facendo perfino marcia indietro su tematiche, quali la privatizzazione del servizio idrico e il ritorno all’energia nucleare, per cui lo stesso governo si era impegnato fino a poco tempo fa. È un segnale della scala di priorità di questa classe dirigente, per la quale divincolarsi dalla legge è più importante che amministrare la vita di un paese.
Qualsiasi cosa si pensi degli altri tre quesiti, è quantomai importante andare a votare SÌ almeno per questo. Un’affermazione del quesito referendario rappresenterebbe una vittoria dell’idea di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. Una vittoria della democrazia.

 

Gli altri articoli sul Referendum:

 

 

 

Referendum: storia dei SÌ e dei NO

Tra circa un mese si terrà un referendum su alcuni argomenti molto importanti. I quesiti saranno quattro: il primo riguarderà il “legittimo impedimento”, il secondo sarà incentrato sul nucleare e gli ultimi due quesiti riguarderanno la privatizzazione dell’acqua pubblica.

Come sempre, non mancano polemiche di vario genere e la classe politica si divide in favorevoli e contrari. Quando il popolo viene chiamato a votare, è un momento di grande democrazia e la storia del nostro paese di consultazioni popolari. Il primo referendum è stato quello “istituzionale” del 2 giugno 1946 quando il popolo italiano fu chiamato a votare per la monarchia oppure la repubblica. La maggioranza della gente si dichiarò favorevole a quest’ultima con circa dodici milioni di voti contro i dieci in favore della monarchia. Da qui nacque la Repubblica e non mancarono incidenti e scontri nelle piazze dopo il risultato elettorale. Per questo referendum non era previsto il quorum di validità, cioè il raggiungimento della soglia del 50% + 1 dei votanti.

Sono stati tre i referendum per cui non era previsto il quorum:

Nel 1989 sul conferimento del mandato costituente al parlamento Europeo: vinsero i sì con l’88%.

Nel 2001 sulla modifica del titolo V della Costituzione: i favorevoli furono circa il 64,2%

Nel 2006 sulla modifica della parte seconda della Costituzione. Stavolta vinsero i contrari con il 53,6% dei votanti.

I referendum abrogativi di determinate leggi sono 62.

Uno dei più importanti è quello sul divorzio nel 1974. In pratica, si trattava di votare l’abrogazione della legge Fortuna-Baslini del 1970 con la quale era stato introdotto in Italia il divorzio. Vinsero i NO con il 59,3%

Un’altra consultazione elettorale da ricordare è quella riguardante l’abolizione della pena dell’ergastolo. Era il 1981 ed anche stavolta i NO prevalsero con il 77,4%.

Nello stesso anno il popolo italiano fu chiamato a votare per l’abrogazione di alcune norme riguardanti l’interruzione di gravidanza, ma i NO vinsero anche in questo caso con l’88,4%.

Nel 1985 i NO vinsero con il 54,3% sull’abolizione della norma che comportava un taglio dei punti della scala mobile. Il referendum fu promosso dal PCI e trovò la forte opposizione del PSI.

Come detto, il prossimo 12 giugno saremo chiamati a decidere anche sul nucleare, cosa che il popolo italiano ha “già fatto” nel 1987 (per usare una semplificazione, ndR). In questo caso la maggioranza si espresse con il SÌ per l’80,6%.

Ci sono poi casi di consultazioni popolari dal carattere esclusivamente politico, tipo quella del 1993 quando il popolo decise sull’abrogazione della legge elettorale per introdurre il sistema maggioritario: i SÌ furono l’82,7%.

Ci sono poi i referendum non validi per il mancato raggiungimento del quorum: tra questi i principali sono quello del 1995 sull’abolizione dei poteri speciali riservati al Ministero nelle aziende privatizzate; quello del 1997 sull’abolizione del sistema di progressione delle carriere dei magistrati; quello del 1999 che riguardava l’abolizione della quota proporzionale nelle elezioni della Camera dei Deputati; quello del 2005 sulla procreazione assistita.

Il referendum resta, comunque, uno strumento di democrazia molto importante, con il popolo chiamato a decidere su questioni di una certa rilevanza. Certe volte, però, i quesiti vengono appositamente formulati dalla politica in un modo molto tecnico per cui non sempre è facile comprendere il significato del referendum. La storia è piena di referendum fatti fallire appositamente dalla politica che, dopo una consultazione “sorprendente”, ha fatto leggi per aggirare il verdetto popolare.

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Verso i referendum – parte 3: il nucleare

Terzo appuntamento dello speciale di Camminando Scalzi sui referendum del 12 e 13 giugno. Nell’articolo di oggi parliamo del terzo quesito, quello sul nucleare. È indispensabile fare una premessa. Nel seguito si parlerà spesso di “produzione di energia”. Purtroppo, l’ignoranza scientifica imperante produce delle storpiature nel linguaggio corrente e, cosa ancora peggiore, in quello giornalistico, che fanno sì che marchiani errori o lacune culturali diventino concetti assodati per il grande pubblico. L’energia non si produce, si trasforma. Detto ciò, andiamo avanti, sperando che il sacrificio di una volta serva a rendere la faccenda più chiara e a non generare confusione.
In seguito ai tristi avvenimenti giapponesi, l’argomento ha suscitato discussioni e dibattiti ancora più accesi rispetto a quelli, pur intensi, dei mesi precedenti. Si è (ri)cominciato a parlare di nucleare, infatti, nel 2008, quando l’appena insediato governo Berlusconi IV propose il ritorno alla produzione di energia nucleare sul territorio italiano. Cominciamo col dissipare un dubbio ricorrente: perché si riparla di energia nucleare se nel 1987 un altro referendum ne aveva già sancito il divieto? La domanda è di per sé fuorviante. Il referendum del 1987 era, esattamente come quello del mese prossimo, di tipo abrogativo. Mirava, ossia, a cancellare una serie di norme che disciplinavano la materia nucleare. Per sua stessa natura, un referendum abrogativo non può imporre un divieto, per il quale occorrerebbe proporre una legge, ma solo cancellare dei provvedimenti esistenti. In particolare, in seguito alla netta affermazione dei sì, furono aboliti il diritto dello Stato di scavalcare un rifiuto di un comune alla costruzione di una centrale nucleare sul suo territorio, l’erogazione di un compenso economico per gli enti locali interessati dalla presenza di una centrale e la possibilità per l’Enel di costruire centrali all’estero. La costruzione di nuove centrali o il mantenimento delle esistenti furono quindi, di fatto, resi impossibili, ma non vietati per legge. Esattamente la stessa cosa che succederebbe adesso nel caso in cui fosse raggiunto il quorum e prevalessero i sì.
Veniamo al quesito su cui siamo chiamati a esprimere un parere. Il testo che troveremo sulla scheda è chilometrico. Propone sostanzialmente l’abrogazione di tre provvedimenti legislativi emessi dal governo attualmente in carica. Il primo è la legge 133/2008, “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e perequazione tributaria”, che fissa fra gli obiettivi urgenti la “realizzazione nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia nucleare” (frase che il quesito propone di cancellare). È stata la prima scintilla che ha fatto scoppiare la vicenda. La seconda norma interessata dal referendum è la legge 99/2009, “Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia”. Oltre ad altri provvedimenti concernenti vari argomenti, la norma conferisce al governo la delega per la localizzazione degli impianti nucleari e la definizione dei compensi per le popolazioni che li accolgono. Per impianti non si intendono solo le centrali, ma anche i depositi delle scorie (la cui gestione viene affidata alla Sogin, una società costituita nel 1999 per gestire lo smantellamento delle vecchie centrali). Inoltre, viene disposta la determinazione delle procedure per le autorizzazioni e dei requisiti necessari. Viene anche istituita l’Agenzia per la sicurezza nucleare. La terza norma soggetta al quesito referendario è il decreto legislativo 31/2010, che, per dirla in parole povere, definisce i punti già previsti dalla legge 99/2009 dandone attuazione.
È utile soffermarsi sugli argomenti a favore del sì e del no. I fautori del ritorno all’energia atomica affermano che le centrali nucleari sono l’unico strumento che garantisce una produzione massiccia e continua di energia, resa necessaria dall’enorme fabbisogno energetico, peraltro in continua crescita. Ciò è probabilmente vero, ma non rappresenta la soluzione del problema. Il fotovoltaico e l’eolico sono, per loro natura, tipologie di energia la cui produzione non può che essere discontinua: i pannelli solari funzionano sostanzialmente di giorno, le pale eoliche quando c’è vento. Per questa ragione non forniscono energia 24 ore su 24, 7 giorni su 7, e di conseguenza occorrono fonti energetiche diversificate e sfruttate in parallelo, affinché il fabbisogno sia costantemente coperto. Peccato, però, che la maggior parte della domanda di energia si verifichi proprio durante il giorno, ossia nel pieno del funzionamento dei pannelli solari. In tal modo, il solare diventa il maggior concorrente delle fonti tradizionali, in virtù anche di un altro fattore: la capillarità. I pannelli solari si prestano a un’installazione in piccola scala, destinata alla produzione di energia per il consumo personale. Ognuno potrebbe produrre l’energia che gli serve, attingendo pochissimo alla rete elettrica o, addirittura, riversandovi il surplus di energia sviluppata e non consumata. Qui però si apre il discorso delle smart grid, che meriterebbe una trattazione a sé. Per di più, il nocciolo della questione (visto che siamo in tema di nucleare…) non è il prezzo dell’energia prodotta. Quest’affermazione può sembrare assurda, ma il dibattito sull’opportunità o meno del ritorno all’atomo ha visto l’intervento di innumerevoli parti, ognuna delle quali ha citato studi condotti da vari organismi, col risultato di aver prodotto una selva di numeri. Non solo la contrapposizione di voci discordanti appare come uno sterile pareggio, ma vi sono argomenti più importanti per decidere cosa votare. O almeno così dovrebbe essere. Il prezzo dell’energia dovrebbe venire dopo la sicurezza della popolazione. Le conseguenze di un incidente a una centrale nucleare sono talmente catastrofiche da far passare in secondo piano qualsiasi altra considerazione. Affinché sia così, tuttavia, occorre che il valore della vita umana sia superiore a quello della moneta, cosa che, purtroppo, non è del tutto scontata per molta gente. Si parla molto della sicurezza e dell’affidabilità di una centrale nucleare. Non si parla altrettanto del significato del termine sicurezza. Per qualsiasi opera pubblica o, in ambito più generale, qualsiasi manufatto esiste una probabilità di malfunzionamento, basata su determinati fattori di sicurezza. Questo significa che non esiste nulla che sia assolutamente garantito immune da problemi. Il Titanic doveva essere inaffondabile… Chi è disposto a scommettere sull’infallibilità di un impianto nucleare a 20 km da casa sua? Non è allarmismo, è semplice valutazione del rischio, inteso come combinazione della probabilità del verificarsi di un problema e delle conseguenze del problema stesso.

C’è altro? Sì, un mucchio di scorie. Ogni reattore produce, oltre all’energia, anche una notevole quantità di scorie, alcune delle quali hanno un’emivita (il tempo per il quale il materiale radioattivo rimane tale) di migliaia di anni. Le scorie vanno custodite in discariche adatte, depositi sicuri e a tenuta stagna per tempi lunghissimi. Deserti e steppe a parte, luoghi del genere sono molto ardui da trovare. In Francia e in Germania il problema è stato solo aggirato, con depositi che hanno in realtà evidenziato gravi problemi. In particolare la miniera tedesca di Asse rischia di trasformarsi in una bomba ecologica.
Se proprio si vuole insistere sull’aspetto economico, basti ricordare che le centrali che verrebbero costruite in Italia sono del modello francese EPR (che non corrisponde, come spesso si sente blaterare, alla famosa quarta generazione), analoghe a quella in costruzione da anni in Finlandia, la cui consegna è già stata rinviata più di una volta e il cui prezzo, nel frattempo, è notevolmente lievitato rispetto a quello previsto. Seguendo i piani inizialmente prospettati dal governo italiano, le prime centrali vedrebbero la luce intorno al 2020. Non ha senso investire una tale quantità di denaro in un progetto che rischia di essere obsoleto dalla nascita. Non a caso in vari paesi europei, Germania in testa, si registra una vigorosa marcia indietro sul programma nucleare già in atto. Mentre gli altri si accingono a spegnere le loro centrali, noi progettiamo di accenderne. Il tutto, senza contare il rinvio di due anni recentemente imposto dal governo Berlusconi alla tabella di marcia italiana. Nel primo articolo dello speciale abbiamo già parlato del tentativo di annullare il referendum messo in atto dalla maggioranza. Si attende il verdetto della Corte di Cassazione, atteso per la fine del mese.
Nel caso in cui il quesito riguardante il nucleare fosse eliminato, restano comunque altri tre ottimi motivi per andare a votare, i due quesiti sull’acqua pubblica, di cui abbiamo già discusso, e quello sul legittimo impedimento. Ma questa è un’altra storia.

 

Gli altri articoli sul Referendum:

 

Verso i referendum – parte 2: l'acqua

Come promesso, vi presentiamo il primo di tre articoli per spiegare i quesiti dei referendum abrogativi dei 12 e 13 giugno. Iniziamo con i due quesiti riguardanti la gestione del servizio idrico. Più semplicemente, l’acqua pubblica.

Il primo dei due quesiti propone l’abrogazione dell’articolo 23 bis della legge 133/2008,approvata dall’attuale governo Berlusconi, nota come decreto Ronchi, dal nome dell’allora ministro per le politiche comunitarie autore del provvedimento. L’articolo in questione stabilisce che la gestione del servizio idrico non può più essere affidata a società interamente pubbliche. Essa deve essere affidata a privati tramite gara d’appalto, oppure direttamente a società a capitale misto pubblico e privato, in cui il privato sia vincitore di una gara d’appalto e possieda una quota non inferiore al 40%. In parole povere, significa che la gestione dei vari acquedotti viene privatizzata. L’effetto più importante è la trasformazione del servizio idrico da, appunto, servizio a prodotto. Di fatto, l’acqua non è più un bene erogato dal comune ma un bene commerciale, non diversamente dai servizi telefonici, o dalla corrente elettrica. Di fronte a queste critiche, i sostenitori del provvedimento obiettano che il bene rimane pubblico, poiché è solo la gestione a poter essere privata. L’argomento è francamente debole. Dal momento in cui un qualsiasi bene o servizio viene distribuito da un soggetto privato, pur non possedendo questi la proprietà formale, ne detiene comunque il controllo.
Non è solo una questione di chi sia il proprietario o di chi prenda le decisioni. La norma apre le porte allo sfruttamento commerciale dell’acqua come prodotto, con ampi margini di lucro. La differenza principale tra gestione pubblica e privata è infatti negli scopi. L’obiettivo di un ente pubblico è garantire un servizio senza perdite economiche. Quello di un privato è massimizzare il profitto. Occorre mettersi d’accordo su cosa sia l’acqua. Per i promotori del referendum, favorevoli all’abrogazione della legge, l’acqua è un bene comune inalienabile, fondamento della vita, la cui disponibilità deve essere garantita a tutti. Un privato, legittimamente, non può pensarla in questo modo a meno di suicidarsi commercialmente.
Altro argomento sostenuto dai fautori della legge e del no al referendum è la scarsa efficienza della rete di distribuzione dell’acqua nel nostro paese, frutto della gestione pubblica. In realtà è sbagliato parlare di scarsa efficienza. La situazione è disastrosa. La media delle perdite dall’intera rete nazionale è pari a circa il 30%. Per ogni litro d’acqua che esce dal rubinetto, circa 0,4 litri vanno persi. Ma cosa garantisce che i privati migliorino l’efficienza della rete, operando i necessari interventi? L’idea che il privato funzioni necessariamente meglio che il pubblico è un falso mito. Numerosi campi, dalla scuola alla sanità, dimostrano che le eccellenze risiedono spesso nel settore pubblico. Inoltre, non è affatto vero che i privati migliorerebbero la situazione degli acquedotti, semplicemente perché la manutenzione della rete rimane in mano pubblica, in virtù del fatto che l’acqua rimane formalmente un bene comune. È una situazione simile a quella della rete ferroviaria, in cui la gestione dell’infrastruttura è pubblica mentre l’erogazione del servizio di trasporto è affidata a società terze, anche private. Per lo stesso motivo se la manutenzione dell’acquedotto è pubblica ma la bolletta dell’acqua, molto banalmente, è privata, gli eventuali interventi sulla rete non possono che essere finanziati in modo indipendente dall’utenza effettiva. Che vuol dire? Che i lavori sull’acquedotto sono pagati dalle tasse, mentre sarebbe più corretto che fossero gli effettivi utilizzatori dell’acqua a pagare proporzionalmente al consumo. A questo proposito, è utile notare che le tariffe italiane sono generalmente basse rispetto alla media europea, proprio perché i necessari interventi manutentivi sulla rete non sono stati effettuati come necessario.

Il secondo quesito sull’acqua propone l’abrogazione di un comma dell’articolo 154 del Decreto Legislativo 152/2006, approvato dal terzo governo Berlusconi. L’articolo elenca i criteri di determinazione delle tariffe. Il referendum propone di cancellare, fra questi, quello “dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito”. Questa frase permette al gestore del servizio di includere nella bolletta un 7% che rappresenta un profitto aggiuntivo in virtù dell’investimento effettuato. Praticamente il gestore può permettersi di far pagare di più tutti solo per il suo guadagno, senza legami con il servizio erogato. Con questo provvedimento, precedente di due anni il decreto Ronchi, si aprì la strada alla possibilità di lucro sul servizio idrico di cui sopra. È tanto semplice quanto odioso.

Sia l’aspetto di manutenzione della rete quanto quello di vigilanza della tariffazione dovrebbero essere governati da un’agenzia di controllo. Simile a quella che pochi giorni fa il governo ha istituito, rafforzando l’attuale Commissione Nazionale per la Vigilanza sulle Risorse Idriche, trasformandola nell’Autorità per l’acqua. Le parole del sottosegretario Saglia hanno confermato il sospetto che la mossa non sia che un tentativo per gettare polvere negli occhi dell’opinione pubblica e scongiurare così il raggiungimento del quorum di tutti i referendum, legittimo impedimento, guarda caso, compreso. Ma questa è un’altra storia, che se avete letto la prima parte conoscete già.

P.S.: Nel frattempo la RAI ha cominciato a trasmettere gli spot informativi sui referendum. Meglio tardi che mai, verrebbe da dire.

Gli altri articoli sul Referendum:

 

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