Cronaca di una giornata di rivolta (parte 2)

[stextbox id=”custom” big=”true”] Pubblichiamo oggi la seconda parte dell’articolo di Alessandro Grassi sulla manifestazione NO-TAV in Val Susa. Trovate la prima parte dell’articolo a questo link[/stextbox]

Arrivo a casa la sera dalla Val Susa e mi fiondo su internet per leggere della giornata a cui ho partecipato, ma subito la rabbia mi prende: i giornali principali si schierano senza se e senza ma, riproducendo in pieno il volere bipartisan che appoggia la TAV. Dal PD al PDL uniti contro i NO-TAV, così come da Repubblica al Giornale la differenza è poca.

C’erano terroristi? Non credo proprio. Quel che ho visto è la popolazione di una valle che supportata da attivisti e attiviste o cittadini e cittadine ha cercato per l’ennesima volta di far sentire le proprie ragioni. Una popolazione che con la propria attività politica ha già dimostrato che costruire un sistema differente e fondato sulla partecipazione dal basso – come è quello dei comitati NO-TAV – è possibile.

Quando sui giornali si parla di violenza lo si fa in maniera sempre semplicistica e tutta la complessità del reale viene ridotta alla semplice e tremenda domanda: “Siete con me o siete contro di me?” spesso nascosta dalla più politically correct: “Siete violenti o siete pacifici?”.

È così che queste dicotomie dividono con un taglio netto l’esistente, spartendo e distribuendo le categorie del discorso politico dominante senza appello o da una parte o dall’altra. Abbiamo così forze dell’ordine, Stato, democrazia, legittimità, rappresentanza, partiti, informazione, obiettività tutti schierati dal medesimo lato, ovviamente quello della non-violenza, della giustizia e del buon senso, mentre chiunque si opponga a questa divisione netta tra bene e male, chiunque cerchi di complicare la questione per esempio rompendo la catena che lega democrazia a rappresentanza, informazione a giornali, giornali a obiettività, forze dell’ordine a legittimità o qualsiasi delle altre possibili combinazioni, automaticamente ricade – nel discorso pubblico dominante esercitato dai soggetti che incarnano e che promuovono quella catena di termini – nell’infausto lato sbagliato della barricata. Quello dei violenti, dei facinorosi, terroristi per l’appunto o forse peggio idealisti, utopisti, gente che non conosce il mondo, che non parla del reale, sovversivi, black bloc. Il black bloc, realtà fittizia creata dai giornali e dalla disinformazione di Stato, diventa il soggetto che incarna tutto quanto di negativo può esserci.

Il gioco della disinformazione è sottile. La logica è questa: per prima cosa esistono un bene e male nettamente distinti, eternamente definiti in teoria ma in pratica definiti da soggetti che ricalcano su di sé la categoria bene. Come dire: se un poliziotto comanda dirà che il bene è la polizia. Oppure se chi comanda dice che la polizia è il bene allora automaticamente inizierà a dire di essere la polizia. Il movimento è doppio, si muove in sensi diversi contemporaneamente e in questo doppio movimento rafforza e definisce reciprocamente i due poli attraverso cui si articola, legandoli sempre più strettamente: nell’esempio polizia e bene. Al contempo affermerà che tutto ciò che è male non è lui e che tutto ciò che non è lui è male. A seconda di una priorità descrittiva o normativa. Per cui il non-poliziotto, il violento (perchè lui ovviamente ha deciso di definirsi come non-violento) l’illegittimo (il legittimo è solo lui, legittimato da se stesso secondo un circolo vizioso), tutto questo è il black bloc. Un’etichetta pronta da applicare a chiunque si opponga. Ma il black bloc non è un semplice dato inerte, si sta facendo disinformazione, l’ottica normativa è dominante.

Si tratta di quella forma di assoggettamento che passa attraverso la soggettivazione. Il black bloc non può essere presentato come un semplice dato descrittivo, un semplice “diverso da sé”, esso viene dotato da chi lo definisce di una forza autonoma, di soggettività propria che afferma sé stessa. Ecco quindi che il black bloc è un soggetto vivo che fa cose, fa cose che hanno a che fare con la politica, quindi che fa parte in qualche modo di un’organizzazione, di un gruppo organizzato che, data la ferrea applicazione delle dicotomie che organizzano il discorso, ha come scopo dichiarato la sovversione e quindi la violenza, la violenza a prescindere, sia ben inteso. Ebbene li ho visti coi miei occhi: i vecchi della Val Susa sono sicuramente dei Black Bloc. Hanno rotto troppe catene di parole, troppi legami ferrei. Bastava essere là per capire che dietro quanto facevano c’era un chiaro disegno sovversivo. È indiscutibile che se l’ordine del discorso è quello del potere, senza ombra di dubbio i NO-TAV sono sovversivi.

I dati poi sono incontrovertibili, è proprio come scrive Repubblica: i manifestanti nel bosco applicavano tattiche militari studiate con cura: quando la polizia caricava, scappavano indietro e poi quando la polizia si fermava andavano avanti. Tutto sommato è bello scoprire di essere dotati di un innato addestramento militare.

Eppure è semplice complicare i discorsi e spezzare le catene di parole se si fa attenzione a quanto ci circonda. Certo ci si avventura su un sentiero sconosciuto ma non certo più pericoloso di quelli che ho percorso sotto il lancio di lacrimogeni.

Quindi, forse, porsi delle domande senza paura, come i Valsusini, è la cosa più importante. Dopotutto se lanciare un sasso è sicuramente un gesto violento, non è altrettanto evidente che lanciare un lacrimogeno urticante, arma chimica a tutti gli effetti, sia più violento? Un manganello non implica violenza? La militarizzazione non è violenza? L’astrazione può proseguire e con essa aumenta anche il grado di violenza fisica: la precarietà non è violenza?

La violenza è un problema? Di sicuro, di qualsiasi genere essa sia. Ma non tutto è indiscriminatamente uguale. Le variabili da considerare sono infinite. Chi comincia, chi non comincia, come si comincia, come si continua, da che posizione si esercita violenza, cosa porta a esercitare violenza, eccetera eccetera. Risposte chiare e distinte non ne ho, ma sarebbe bene che tutti si ponessero certe domande prima di lanciare giudizi sconsiderati, perchè poi ci potremmo accorgere che il prezzo pagato sarà troppo alto.

Cosa voglio dire? Se i NO TAV, indubbiamente cittadini che agiscono secondo quanto credono sia giusto fare per l’interesse loro e di tutti, sono dei terroristi, allora cosa ci perdiamo? Cosa assecondiamo? La risposta è che avvaliamo la volontà conservativa di un potere che tende, attraverso i discorsi e la forza bruta a stringere sempre più le maglie del controllo fino a identificare qualsiasi spinta al cambiamento come una minaccia da stigmatizzare col marchio della sovversione. Ci perdiamo la possibilità di cambiare.

Dopotutto la conflittualità è normale, anche quella tra Stato e cittadini, ma se lo Stato sceglie di risolvere questa conflittualità manu militari, se lo Stato decide che è pronto a scontrarsi con la popolazione costi quel che costi, senza mezze misure, allora come si fa?

Sì gli anziani della Val Susa sono sovversivi, ma che male c’è? Per Bacco, essere sovversivi come loro, essere rivoluzionari quando è diventato negativo?! Non sarà mica questo il mondo che tutti desiderano!

Chiedersi se i NO TAV sono diventati un movimento violento dopo domenica senza un’attenta riflessione sull’uso dei termini significa entrare automaticamente nel discorso dominante che lega violenza a black bloc, a illegalità, a ingiustizia, a illegittimità e a qualsiasi attributo che il buonsenso potrebbe farci ripudiare. Eppure i NO TAV son brava gente che si preoccupa per la valle. Se preoccuparsi della valle e dell’ambiente in cui si vive e dei costi sociali ed economici di certe opere è da sovversivi, da terroristi rivoluzionari beh… Forse anche io sono un black bloc. Forse nella mia solitudine faccio parte di un’organizzazione e nemmeno me ne sono accorto.

Di nuovo il movimento del pensiero è scontato, perchè farsi quella domanda: “sono diventati violenti?” automaticamente implica una sola possibile risposta: “sì, sono diventati violenti” perchè se la violenza coincide con l’illegittimità che coincide con la illegalità tout-court, che coincide con tutto ciò che non è Stato e in questo caso polizia, allora evidentemente i NO TAV rientrano nella categoria. Non solo, tutto ciò implica automaticamente anche la soluzione pratica: “Sì, sono violenti, sono antidemocratici, non possono essere tollerati”. E cosa succede se non possono essere tollerati? Mandiamo la polizia a menarli legalmente. Ma, paradosso, questo lo decidiamo solo dopo che la polizia ha già fatto tutto. Meglio della guerra preventiva di Bush. Qui la prevenzione è massima: prima si fa la guerra ma solo dopo si decide di farla. Perchè comunque sono dei violenti: la prova che sono violenti è che dopo che è stata mandata la polizia a militarizzare la zona e lanciare lacrimogeni, loro hanno reagito. Se non fossimo persone di buon senso verrebbe quasi da meravigliarsi!

Son andato in Val Susa per capire, per farmi un’idea di quanto stava succedendo. Ho trovato uno scenario da “imperialismo”. Una popolazione, che poteva essere africana, piuttosto che indocinese, si è trovata nel mezzo di giochi più grandi di essa, gestiti da cricche di potere e da movimenti economici che non guardano in faccia a nessuno. Loro hanno detto di non essere d’accordo, la soluzione è stata l’azione militare. Il diritto al dissenso non può rimanere un semplice palliativo, deve avere un corrispettivo pratico. L’insorgere delle persone contro l’oppressione di cui si son sentite oggetto è un gesto nobile e ammirevole quanto la preoccupazione che dimostrano per il territorio e per la riproducibilità e sostenibilità dell’organizzazione sociale. A Chiomonte si è visto il volto oscuro dell’organizzazione Statale di cui facciamo parte. Non è questione di dire se lo Stato sia un bene o un male a priori, ma di capire nello specifico cosa di negativo possa fare per poter evitare che lo faccia. La cosa che conta è che in questo momento un potere che a parole dovrebbe garantire diritti e libertà porta sofferenza e oppressione. È diventato un potere violento. E la violenza, ci hanno insegnato, non può essere tollerata.

In Val Susa hanno deciso di opporsi a tutto questo. È una storia lunga quella dello spirito ribelle della valle, dagli eretici contro la Chiesa ai partigiani contro il nazismo. Se abbiano mai perso non si può dire. I Valdesi ancora ci sono e i partigiani hanno cacciato i nazisti da tempo. Sono sempre loro e ora li chiamano NO-TAV. È su un cavalcavia che leggo una scritta che è un ammonimento per tutti coloro che vogliono imporre la propria legge con la forza: “Benvenuti in Vietnam”. Il problema per ognuno di noi che non siamo chiamati direttamente a partecipare al loro movimento è come al solito chiedersi “che fare?” oppure, ora che sappiamo cosa si dice quando si parla di violenza, ora che sappiamo che le catene di parole possono essere spezzate, smontate e rimontate e che certe catene implicano certi discorsi, ora, solo ora, possiamo accogliere la domanda che ci viene posta quando ci viene chiesto se si è a favore o contrari alla violenza, ora sì possiamo chiederci “da che parte stare?”.

Benvenuti in Vietnam.

 

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Cronaca di una giornata di rivolta (parte 1)

[stextbox id=”custom” big=”true”]Un nuovo autore su Camminando Scalzi
Pubblichiamo oggi la prima parte dell’articolo di Alessandro Grassi alla sua prima collaborazione con la blogzine. L’articolo è accompagnato dalle foto scattate da Alessandro in Val Susa.[/stextbox]

Hanno proprio ragione i valligiani di Susa a scrivere sulle proprie magliette “la paura qui non è di casa”.

Poche cose riescono a suscitare un consenso bipartisan così vasto come la linea TAV Torino-Lione, tanto da indurre lo Stato a schierare 2000 agenti (duemila! Quanti sono i carabinieri in Afghanistan?). Loro, il popolo della valle, hanno contro tutti i poteri che contano, ma paura non ne hanno. Così come non ne hanno avuta i manifestanti, autoctoni e non, che hanno assediato quella che un tempo era la Libera Repubblica della Maddalena e ora è zona militare occupata dalle forze dell’ordine. Domenica hanno legittimamente provato a liberarla, ma sapevano che sarebbe stato impossibile. L’obiettivo dichiarato – “dare un segnale forte” e “assediare” le recinzioni – però, è stato raggiunto.

Poiché i giornali mainstream faticano a riportare le dinamiche della protesta, questo è il mio racconto della giornata di rivolta che ha animato una valle intera nel nord-ovest italiano.

Sono arrivato a Susa sabato mattina e da subito mi son accorto che l’aria che si respirava era diversa, ma non era solo l’assenza dello smog romano e il bel paesaggio naturale che mi circondava. La solidarietà degli abitanti della valle ai manifestanti forestieri la sperimento in prima persona. Appena arrivato sono tutti felici di dare informazioni e una signora spontaneamente si offre di dare un passaggio a me e ad altri ragazzi fino al presidio NO TAV di Venaus. In macchina ci racconta dello sgombero della Maddalena, della violenza dei poliziotti e della propria decisione a non lasciare costruire la TAV. Tutti sapevano che l’indomani sarebbe successo “qualcosa di grosso”, che ci sarebbe stata l’ennesima battaglia in una lunga serie che ha visto questo territorio come teatro.

Domenica mattina mi sveglio presto al presidio. Faccio colazione e rimedio un passaggio da due emiliani fino a Exilles, uno dei tre concentramenti da dove partirà un corteo. Dovrebbe essere lo spezzone più numeroso e quello più istituzionale e pacifico. Da Exilles ci si dirige verso Chiomonte (da dove parte un altro corteo che confluisce). È in questo corteo che l’incontro surreale con una anziana signora, che potrebbe essere una predicatrice eretica di secoli remoti, preannuncia che sarà dura. Regge un bastone con in cima un crocifisso e nell’altra mano una statua della Madonna e mi  dice che protestare contro la TAV “è giusto”, perchè la Madonna vuole pace e amore e giustizia divina, che ci sono dei diritti da rispettare e la TAV non li rispetta. Poi precisa: “anche l’apocalisse è pace e amore”. Non so in che senso lo intendesse ma ora è difficile pensare che non fosse un presagio di quanto poi è successo.

Durante il corteo incontro altri Valsusini di tutte le età, in testa ci sono sindaci e bambini. È bello parlare con loro, ci tengono alla loro valle e alla loro lotta. Sono cinque chilometri nel punto in cui la valle è più larga: due statali, un fiume, una linea ferroviaria sottoutilizzata e un’autostrada già poco desiderata, un’altra ferrovia ad alta velocità per portare le merci da Lisbona a Kiev, costosa e inutile, non la vogliono. Per non parlare dei costi sostenuti da tutto lo Stato e dalla mancanza di evidenti benefici che dovrebbero costituire l’interesse nazionale.

Il corteo prevede la discesa fino a Chiomonte per sfilare davanti alla centrale elettrica (dove c’era la barricata che proteggeva la Libera Repubblica della Maddalena), io però mi sfilo prima e al bivio per Ramats salgo i monti deciso a imboccare uno dei sentieri che porta giù alle recinzioni che circondano il cantiere dei lavori. Dal corteo si staccano in molti. Arrivo in cima a Ramats, alla frazione Sant’Antonio, dove ci sono già tanti manifestanti che si preparano per scendere. Indossano caschi e tengono maschere antigas intorno al collo. “Violenti organizzati”, diranno le malelingue, giornalisti che forse nemmeno erano presenti, ma come biasimare quelli attrezzati dopo lo sgombero della settimana prima? Tutti sapevano che le forze dell’ordine ci avrebbero sommerso di gas lacrimogeni; non quelli normali: il CS, vietato in guerra, che ti toglie il respiro, brucia la pelle e ti entra in gola fino a farti vomitare. Di lì a poco anche io avrei pregato in ginocchio per avere una maschera.

I sentieri per scendere al cantiere sono due, uno più lungo e leggermente più largo e uno più esposto e più stretto. Decido di prendere il secondo, perché da lì si riesce a vedere il cantiere e l’autostrada (chiusa al traffico dalla mattina). Mentre scendo l’elicottero svolazza intorno alle montagne con il suo incessante rumore che proseguirà per tutto il giorno. Scendere il sentiero è emozionante, non mi era mai capitato un corteo “di montagna” e non si può certo rinunciare a questa esperienza. All’inizio non ci sono alberi intorno e infatti riesco a vedere l’imponenza dello schieramento dei carabinieri più in basso. C’è anche la forestale, la finanza e i cacciatori della Sardegna, corpo speciale capace di muoversi tra i monti, chiamato apposta per la situazione. Mano a mano che si scende però si capisce che non si tratta di una piacevole scampagnata tra i boschi.  Il sentiero è tortuoso e si addentra nel bosco, inizio a sentire puzza di lacrimogeno e i botti si ripetono costantemente. Gli scontri, giù al cantiere, sono iniziati dalla mattina. Altri due concentramenti, da Giaglione e da Ramats, si sono diretti attraverso la vegetazione all’assalto delle recinzioni. La polizia è sotto assedio già da diverse ore quando arrivo. Siamo incolonnati e ci avviciniamo a un bivio da dove si può scendere per la recinzione. Da lì salgono manifestanti con gli occhi gonfi e le facce impaurite; tutti che dicono “non scendete se non avete le maschere, ci sono i poliziotti che appena vedono qualcuno avvicinarsi sparano lacrimogeni”. Tutti ripetono questa cosa e si decide allora di proseguire e scendere alle recinzioni più avanti. Cammino ancora un po’ dietro gli altri in fila indiana, si sale e poi si prosegue per un bel pezzo alla medesima altezza, infine si scende. Di nuovo lo stesso scenario, ma questa volta sono in tanti a risalire, tanti quanti quelli che scendono. Di nuovo lo stesso mantra: “non scendete”. Mi sembra di andare incontro all’orrore del colonnello Kurtz discendendo un sentiero tortuoso invece che risalendo un fiume. Si respira aria di lacrimogeni invece che di napalm.

La quantità di gente che cammina per i sentieri è impressionante. Migliaia, tra quelli che salgono e quelli che scendono a dare il cambio agli assedianti stremati. Le raccomandazioni di coloro che salgono, che già hanno visto e respirato la potenza delle forze armate, valgono a poco. Alcuni si fermano ed esitano ma molti continuano. Una colonna infinita muove decisa e quando i cori fanno tremare la foresta al grido “giù le mani dalla val Susa!” il cuore si ferma nel petto.

I lacrimogeni iniziano a fare effetto e penso di essere ormai prossimo al cantiere ma in realtà solo più tardi mi accorgo di essere ancora molto in alto e che i lacrimogeni riescono ad arrivare in quel punto perchè sparati direttamente dall’elicottero che continua a volare sopra le nostre teste.

Ci si addentra sempre di più. A volte ci si ferma per aspettare che l’aria si pulisca dai gas e poi si procede. Si scende e alla fine si arriva a uno spiazzo dove avvengono gli scontri.

Qui, mi dicono, la mattina c’era la polizia, ma è stata respinta. Le recinzioni sono state tagliate e parte del cantiere è stato anche riconquistato. Poi la polizia ha ripreso terreno ma non è in grado di dissolvere la forza dei manifestanti. Si limitano a sparare lacrimogeni a raffica, senza sosta per tutta la mattinata, anche se nel pomeriggio, probabilmente mossi dal timore di rimanere senza, ne riducono l’uso. Non so se è a causa dell’abitudine o meno, ma anche l’effetto dei lacrimogeni sembra diminuire, tanto da farmi pensare che forse gli ultimi non erano del medesimo tipo dei primi che erano veramente intollerabili.

Scendendo dal sentiero, superando gente intossicata o che si riposa mangiando un panino negli spiazzi prima di tornare a manifestare, il fondo del sentiero è ancora parte del bosco e delimitato da alte rocce. Tra queste una strettoia è il punto per accedere al cantiere e fronteggiare la polizia. Lì si concentrano i manifestanti e da lì arrivano i lacrimogeni sparati ad altezza uomo direttamente addosso alle persone, oppure lanciati alle spalle in modo che a volte ci si ritrova con la polizia davanti e il gas dietro. Si tratta di proiettili a grappolo che una volta toccato terra si dividono in diverse cartucce che saltano tutto intorno. Per fortuna molti manifestanti sono attrezzati con guanti spessi abbastanza da poter prendere in mano le cartucce e lanciarle indietro oppure abbastanza svelti da coprirle con terra e foglie.

Dai manifestanti in risposta vengono lanciati sassi alla polizia, non si fatica a ritrovare materiale nel sottobosco. Le forze dell’ordine non si tirano certo indietro dal rispondere allo stesso modo: lanciano pietre dall’alto dell’autostrada. Forse proprio a questo si riferisce Maroni quando parla di “tentato omicidio”.

A un certo punto mentre questo caos mi circonda, le urla della gente e i botti degli esplosivi rimbombano, e una scena quasi surreale mi si presenta davanti agli occhi. Dal monte scende una banda mentre la rivolta imperversa. Sono vestiti di rosa acceso, con paillette luccicanti, la cosa più fuoriluogo che potesse comparire. A quel punto anche i carabinieri che cantano la canzone di Topolino o Mary Poppins che scende dal cielo con un ombrello sarebbero stati normali. I musici attaccano a suonare i loro tamburi, ma dura poco. Ci sono i feriti e il loro suono copre anche le urla di chi chiede un medico, quindi vengono fatti smettere. I manifestanti sono tutti pronti a soccorrersi a vicenda, i feriti vengono medicati e portati via dal campo di battaglia.

Si continua così, si alternano avanzate dei manifestanti con scariche più dense di lacrimogeni che costringono tutti ad allontanarsi. Avanti e indietro in continuazione. La polizia fatica evidentemente a tenere a bada i manifestanti. A un certo punto, forse pensando a una azione risolutiva, decide persino di avanzare con una ruspa. Poi segue una violenta carica, ma mentre osservo da una posizione laterale, si capisce subito che è una brutta idea. La polizia mette in fuga i manifestanti nello spiazzo e si trova così al centro di una sassaiola proveniente dalle posizioni sopraelevate in cui costringe i NO-TAV. L’unica soluzione che rimane loro è quella della fuga, disordinata e per questo pericolosa, tanto pericolosa che uno “sbirro” viene catturato. Subito viene circondato e spogliato delle armi. Poi viene lasciato andare. Si accende un dibattito, molti avrebbero voluto tenerlo per trattare il rilascio dei fermi.

Il fatto che i manifestanti siano in possesso di una pistola delle forze armate non lascia tranquilli i rappresentanti dello Stato e quindi si aprono persino delle trattative per riavere indietro l’arma. Trattative che scemano nel nulla. Scopro solo il giorno dopo che la pistola sarà restituita, senza caricatore, la sera stessa. Nel frattempo i manifestanti sono stanchi e la pausa dai lacrimogeni della polizia permette loro di riflettere sul da farsi. Nel mentre arriva la notizia che cinque camionette sarebbero arrivate e avrebbero caricato le persone su alla frazione di Sant’Antonio. La decisione presa è quella di risalire per dare una mano, forse anche mossi dal desiderio di cambiare un po’ teatro per uscire dalla evidente situazione di stallo che si è creata. Inizia così la risalita. Una faticosissima risalita su per i sentieri, accompagnati dal rumore dell’elicottero. La stanchezza è molta. Quando arriviamo in cima la polizia se n’è andata, ancora non so se la carica ci sia effettivamente stata. Ma a quel punto per me la giornata finisce e decido che è ora di trovare il modo di tornare a casa. Altri si spostano, cercando di evitare i blocchi stradali che, si vocifera, siano sparsi per tutta la valle. Nel mentre gli scontri continuano alla centrale elettrica, dove un gruppo di manifestanti distaccatosi dal corteo principale si è scagliato contro le recinzioni.

Il tempo di trovare un passaggio su un camper di generosi anarchici e di raggiungere una stazione qualsiasi da dove prendere un treno per Torino.

…continua…

Un finale lento e doloroso

Sembra proprio che l’eutanasia in questo Paese non sia concessa nemmeno ai governi. L’Italia di oggi ricorda tristemente un malato terminale tenuto in vita da macchinari vecchi e malfunzionanti…

La votazione di fiducia di martedì 14 dicembre è stato uno degli episodi più imbarazzanti della recente storia politica italiana. Da una parte un governo composto da soggetti in rotta di collisione, che si insultano e si rimbalzano colpe e responsabilità. Dall’altra parte un’opposizione incapace di riconoscere la necessità di andare al voto, proprio ora, proprio in questo momento di crisi.

Sentirsi dire che sarebbe deleterio per il Paese aprire le urne in un periodo così critico, significa dimostrare di non essere in grado di rappresentare né una valida opposizione né un’accettabile maggioranza. Significa dimostrare di non essere capaci di ascoltare quelle folle di persone che stanche e disperate continuano a scendere in piazza, e che oramai cominciano a dubitare dell’efficacia delle manifestazioni pacifiche, aprendo un varco verso una deriva violenta. Aldilà dei cosiddetti Black bloc e degli infiltrati, non dovrebbe stupire che dopo anni di scioperi, occupazioni, cortei e salite sui tetti, qualcuno cominci a stancarsi della fastidiosa indifferenza della classe politica. Non c’è nulla di costruttivo nel dare fuoco ad una camionetta della finanza, ma sicuramente non è stato il fatto più scandaloso accaduto in questa memorabile data…

Il vero scandalo sta in un governo che gioisce di una fiducia che non porterà a nulla. La maggioranza non ha i numeri per votare le agognate riforme di cui tutti parlano, e il perenne rischio di una sconfitta lascerà inevitabilmente il Paese nello stallo, mentre il cancro dell’establishment politica attuale si diffonderà, come una metastasi, fino a divorare anche quel poco di “sano” che è rimasto in questa malata società.

Il vero scandalo sta nell’aver sottratto la speranza di un futuro ad un generazione sfinita da un pesante 26% di disoccupazione (dato Confindustria), dall’impossibilità di richiedere un mutuo, costruirsi una famiglia o addirittura ambire alla pensione.

Il vero scandalo sta in quegli abitanti dell’Aquila che ancora oggi si ritrovano a vivere senza la propria casa, senza la propria città, e senza la propria vita.

Il vero scandalo sta in quel manipolo di politicanti che si scannano per accaparrarsi l’appoggio di quelle raccapriccianti espressioni del genere umano che sono disposte a vendersi per soldi sporchi o per una comoda poltrona.

Sono riusciti a votare persino ad Haiti e in Afghanistan. Forse ce la possiamo fare anche noi!

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Rifiuti, l’emergenza infinita

Chi pensava che il problema dei rifiuti a Napoli e in Campania fosse stato risolto in via definitiva nel 2008 con l’apertura della discarica di Chiaiano (articolo) e nel 2009 con l’inaugurazione del termovalorizzatore di Acerra è rimasto profondamente deluso: oggi, soltanto a Napoli, escludendo la provincia, sono in strada duemila tonnellate di rifiuti, il termovalorizzatore di Acerra funziona soltanto in parte e, ovviamente, le proteste dei cittadini esasperati non mancano. Il 28 ottobre il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi dichiarò che il problema era stato risolto al 90%, che entro tre giorni le strade di Napoli sarebbero state ripulite e per le vie della città non ci sarebbe più stata l’immondizia. Tuttavia i tre giorni sono passati da un pezzo e la situazione è peggiorata.  Bisogna poi aggiungere il danno d’ immagine della città di Napoli che, a fatica, stava cercando di risollevarsi dopo l’ultima emergenza. I turisti sono in fuga, gli albergatori sono in crisi e le autorità locali fanno a scaricabarile sulle responsabilità.

Come detto, non mancano le proteste: dopo giorni di scontri e guerriglia a Terzigno e Boscoreale, due paesi dell’hinterland napoletano, le proteste ora si sono spostate a Giugliano, Taverna del Re, dove si sono registrati momenti di tensione tra manifestanti e forze dell’ordine: un manifestante ha dichiarato di essere stato aggredito da un poliziotto con una testata. Le proteste della gente sono comprensibili. Ci sono sicuramente anche persone che agiscono in maniera violenta aggredendo gli autisti degli autocompattatori, ma la gran parte dei manifestanti si comporta in maniera pacifica, in particolare le donne definite dagli organi di stampa “mamme vulcaniche”, preoccupate esclusivamente per la salute dei propri figli. Non si può continuare a vivere in queste condizioni e le promesse non mantenute da parte degli organi competenti fanno aumentare l’esasperazione della gente. Anche il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Guido Bertolaso, attento conoscitore delle vicende napoletane, aveva dichiarato che l’emergenza fosse terminata, ma il piano di governo è scaduto e la situazione a Napoli e provincia continua ad essere incandescente. Anche nel salernitano ci sono stati attimi di tensione.

Alcuni presidenti di regioni come la Puglia e la Calabria si sono detti disposti ad accogliere l’immondizia partenopea. In passato i rifiuti vennero mandati in Germania, ma è difficile credere che ciò possa di nuovo accadere. Intanto, tra il dire e il fare, Napoli continua ad essere sulle prime pagine di tutti i giornali (anche all’estero) per questa eterna emergenza mai risolta e le promesse continuano a non essere mantenute: per quanto tempo ancora questa situazione potrà durare ?

Calcio, Italia-Serbia. Decisamente…avevano qualcosa in serbo

Al “Luigi Ferraris” di Genova è andata in scena una delle peggiori partite di sempre della nazionale italiana. Stavolta però non è colpa di Pepe (leggi articolo). No, stavolta è colpa di un gruppo di tifosi, o meglio, pseudo-tifosi serbi che hanno messo a ferro e fuoco la città. Cosa c’è dietro? Una protesta contro la nazionale battuta dall’Estonia? Forse, il fatto di prendersela col portiere Stojkovic lo avallerebbe, ma in realtà tutto sembra essere legato al passaggio dalla Stella Rossa al Partizan. Protesta contro la federazione serba che ha esonerato Antic? Chissà, sicuramente era meglio un altro modo. Oppure c’era veramente dietro la malavita organizzata come sostengono i giornali a Belgrado? Potrebbe essere benissimo. Più che altro è meglio mettere in chiaro i punti basilari della storia.

Partiamo da Ivan Bogdanov, “l’uomo nero” o “Ivan il terribile” come l’hanno ribattezzato. Sicuramente non uno stinco di santo come ha detto sua mamma (“Mio figlio è l’uomo più tenero del mondo, non c’entra niente coi disordini. Paga il suo altruismo”) ma neanche il mostro che hanno dipinto. Pensare che viene anche da un quartiere agiato di Belgrado! Più che altro sembra essere un normalissimo delinquente di paese che ha avuto visibilità. Certo che mettere un passamontagna lasciando scoperte le braccia piene di tatuaggi riconoscibili non ne sottolinea la genialità.

Andiamo avanti. La Uefa? Ridicola. Platini e Blatter dimostrano ancora una volta la loro totale idiozia, obbligando le squadre a scendere in campo (era ovvio che non si poteva) ma il loro essere una schifosa mafia è oramai risaputo (leggi articolo sulla Fifa). Ridicola la federazione italiana che conferma di valere zero, chinando il capo e dichiarando al mondo “Stiamo qua perché ci hanno messo, scusate”. Ancora più ridicola la federazione serba, che vuole rigiocare la partita dopo essersi scusata ed aver poi capito che era meglio adottare la strategia “paraculo”. Agnellini smarriti i giocatori serbi, che salutano la curva per calmarla mentre erano spaventatissimi. Osceni i commentatori RAI, che minuto per minuto hanno partorito una serie di stronzate vomitevoli degne del peggior populismo e che mi ha fatto veramente incazzare (quasi come se fossi stato serbo). La Polizia Italiana? Eh visto che Genova mi ricorda più che altro Bolzaneto direi che va bene così…difficile quando le mazzate gratuite sono sotto gli occhi di tutti e non le puoi occultare eh? Ah se ci fosse ancora Cossiga… Diciamo che meritano un 6,5 dai.

I ministeri degli interni di Serbia ed Italia giocano a scarica barile ed è difficile dire se effettivamente i serbi avessero segnalato cose importanti e se sono stati cestinati. Le colpe sicuramente sono di entrambi, ma la questione è troppo buia per chi non è dentro gli “oscuri edifici”. Cosa ci si aspetta adesso dalla Uefa? La radiazione della Serbia? Ahahahahahaah! Siamo seri dai. Pronostichiamo tre giornate a porte chiuse ed il 3-0 a tavolino per noi. Questo se andrà bene. Bene a noi, sia chiaro, perché da quei buffoni aspettatevi veramente di tutto!