La venganza de Mexico

Un confine militarizzato, per gente che scappa dalla fame e cerca di perseguire quello che un tempo era (ma forse lo è ancora oggi) il “Sogno americano“. Border-hopper, River-crosser eccetera. Così vengono chiamati quelli che provano a scavalcare le reti. Pochi ci riescono, molti vengono respinti…o peggio, ma non lo si dice. Per i messicani entrare negli Stati Uniti è difficilissimo, ci vogliono permessi quasi impossibili da ottenere (visti i requisiti) per la gente della working-class. Mia moglie (che è messicana) ha fatto prima a prendere il passaporto italiano, il che è tutto dire.

I messicani negli Stati Uniti restano messicani per sempre, sebbene in tanti diventino dei “pochos” (parola messicana che indica colui che valica il confine e si sente “gringo” dimenticando le sue radici e che stranamente è anche il soprannome di Lavezzi per sconosciuti motivi). Insulti, gag ridicole negli show televisivi, pregiudizi. E pensare che nel 2030 secondo le previsioni saranno di più i latini che i bianchi nella maggioranza degli stati del paese a stelle e strisce (nascono tanti bimbi ispanici, molti meno anglosassoni). Se non lo avete mai visto vi consiglio il film “Un giorno senza messicani”, film di Sergio Arau del 2004, che spiega perfettamente come stanno le cose e come starebbero se sparissero i messicani dagli States.

Ora, scusate la premessa, ma era necessaria per far capire quanto è stato importante per il Messico ed i suoi abitanti il successo nella finale di Gold Cup (che sarebbe il trofeo continentale del Nord America, il nostro Europeo in pratica). Il torneo si gioca ogni due anni negli Stati Uniti e la finale è sempre la stessa causa mancanza di competitori (Panama ed Honduras ci provano, ma il livello è quello che è). Quest’anno la squadra del “Chepo” De La Torre ha penato un po’ per arrivare in finale, ma gli statunitensi molto di più. In ogni caso quella che era l’atto finale più scontato ha avuto luogo sabato 25 giugno a Pasadena, in California, dove ovviamente la presenza di tifosi messicani era massiccia (sembrava giocassero in casa).

Il team azteca a mio parere è uno dei più forti di sempre (non in assoluto, in ambito messicano). Degli undici giocatori impiegati nella finale solo due non hanno mai giocato in Europa: il portiere Talavera (che gioca in quanto Corona, il miglior portiere del paese, è stato sospeso per una rissa in campionato) ed il centrocampista Castro (passato al Cruz Azul dove farà coppia con capitan Torrado). Gli altri sono nomi noti. Moreno (Az Alkmaar) e Salcido (Psv e poi Fulham), Marquez campione d’Europa due anni fa col Barcellona), Guardado del Deportivo La Coruña, Barrera del West Ham, Juarez del Celtic. In attacco Giovani Dos Santos (scuola Barcellona, poi Tottenham ed altri) assieme alla punta di diamante, Javier “Chicharito” Hernandez.

Eppure nella finale già nel primo tempo passano per due volte gli statunitensi, prima con Bradley (figlio dell’allenatore) e poi con il più odiato di tutti: Landon Donovan. Il numero dieci gringo spesso si è lasciato andare a frasi offensive contro i messicani (non semplici provocazioni) ed una volta addirittura orinò sul prato dello stadio Jalisco a Guadalajara). La vendetta però è pronta ad essere consumata. Prima dell’intervallo è due a due, con le reti di Barrera e Guardado (nelle immagini della televisione messicana al momento del pareggio si vede una donna statunitense imprecare col dito medio alzato, le prese in giro oggi in Messico si sprecano per quella signorina).

Nella ripresa colpisce ancora Barrera e poi la perla di Dos Santos, che viene rincorso dal portiere Howard dopo un dribbling non riuscito ma con un pallonetto strepitoso che finalizza al meglio l’azione. Quattro a due, tanti saluti a Donovan e compagni. Qualificazione alla prossima Confederations Cup in Brasile (2013, l’anno prima dei mondiali) che è stata ottenuta e tutti contenti a sud del confine. Amarezza invece per gli Usa, che speravano proprio di tornare a giocarsi la Confederations dopo il secondo posto del 2009 . Complimenti al Messico, che a questo punto speriamo di affrontare in terra carioca fra due anni, non tanto per la coppa in sè stessa che è abbastanza ridicola, ma perchè significherebbe che in Polonia ed Ucraina la truppa di Prandelli abbia fatto storia.

Pubblicità

Lukashenko: chi è questo?

In questi giorni si è parlato molto della gaffe televisiva del Ministro della Difesa Ignazio La Russa, che chiedeva e si chiedeva “Chi è Lukashenko?” in una puntata di Ballarò, andata in onda martedì scorso. Ecco il video.

httpv://www.youtube.com/watch?v=CWa9HUTM578

Ma chi è Lukashenko? È l’attuale presidente della Bielorussia. Pensate che il suo mandato è cominciato nel 1994 e, ancora oggi, quasi vent’anni dopo, è ancora là al suo posto.

Sin dalla sua prima elezione Lukashenko ha fatto di tutto per rimanere al suo posto, tanto che le democrazie occidentali non hanno esistato a definirlo “L’ultimo dittatore d’Europa” (fonte). Dopo essere stato eletto nel ’94, promettendo di mandare tutti i suoi avversari sull’Himalaya, il governo Bielorusso fece la sua prima grande mossa quando fu abbattuto, nell’estate del 1996, un pallone aerostatico con a bordo due cittadini americani, colpevoli di aver sconfinato in Bielorussia senza permesso. Settanta parlamentari dell’opposizione firmarono una petizione contro il leader, colpevole secondo loro di aver violato la costituzione bielorussa. Lukashenko, grazie a mediatori russi, riuscì a fare approvare un referendum popolare che estese il suo mandato da quattro a sette anni. Inutile dire che sia gli Stati Uniti che l’Europa espressero forti dubbi per quel 70% e passa di voti favorevoli ottenuti, e addirittura non accettarono la legittimazione del voto. Risultato di questo referendum fu quello di dare ancora più potere all’astro nascente Lukashenko, che per tutta risposta mandò a casa ben 89 dei 110 deputati al governo, ritenuti colpevoli di slealtà.

Il nuovo governo era composto completamente da suoi sostenitori (che libertà!), e siccome questa cosa non andava troppo bene all’Europa, decise di mandare a casa gli ambasciatori di Francia, Usa, Gran Bretagna, Italia, Giappone e Grecia che, a suo dire, cospiravano contro di lui. Per tutta risposta, viste le palesi violazioni dei diritti umani, la Bielorussia venne espulsa prima dal Fondo Monetario Internazionale, successivamente esclusa dai giochi olimpici invernali di Nagano.

Nel 2001, alla scadenza del suo primo mandato (già allungato con quel dubbio referendum popolare), alla rielezione arrivata puntuale, Lukashenko aggiunse un nuovo referendum popolare che prevedeva la totale scomparsa dei limiti dei mandati presidenziali. E così quasi l’80% degli elettori votò a suo favore, e l’ultimo dittatore d’Europa ottenne il benestare per rimanere in carica praticamente per sempre. Inutile dire che anche questa volta l’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) denunciò la violazione del diritto internazionale, e ancora una volta le nazioni democratiche non riconobbero la legittimità del voto. Ma Lukashenko rimaneva ancora in carica, accusando piuttosto gli altri stati di voler escludere la Bielorussia.

Nel 2006 venne eletto per la terza volta, ancora con più dell’80% dei voti a favore, e ancora una volta l’OSCE non riconobbe la legittimità delle elezioni, in quanto avvenute in un paese non democratico e senza la libertà di voto. Soltanto Putin considerava le elezioni Bielorusse come “oneste e pulite”. Secondo gli Usa Lukashenko, come dicevamo, è l’ultimo dittatore d’Europa, è presidente in un paese in cui la libertà di stampa e di informazione è limitatissima (vi ricorda qualcosa?), continua a essere eletto con percentuali di voto quantomeno dubbie, e le stesse campagne elettorali vengono svolte in maniera poco democratica e libera. La Bielorussia è stata anche cacciata dal Consiglio d’Europa. Insomma, tutto il mondo occidentale ha ben capito con chi si ha a che fare quando si parla di Lukashenko. Un leader che rimane al potere per quasi vent’anni, che mette alla porta l’opposizione, che governa con tutti a suo favore, in un paese dove non è garantita la libertà di informazione, di stampa e di voto, non è altro che un dittatore. L’ultimo rimasto in Europa.

Però, oltre a Putin, il buon Lukashenko ha anche un altro amico, l’unico dei governi democratici occidentali che ne ha tessuto le lodi e che gli ha fatto visita. Indovinate un po’ chi è?

httpv://www.youtube.com/watch?v=VS-xYPiHCJY

 

Le informazioni di questo articolo sono tratte da Wikipedia.

Osama Bin Laden è stato ucciso: giustizia è fatta?

Non si parla d’altro oggi. Il web, i media, i giornali, la notizia rimbalza da una parte all’altra del globo. In USA si fa festa grande, si canta l’inno nazionale. “Giustizia è fatta!” le parole di Barak Obama (via | Repubblica.it). Sono passati quasi dieci anni da quel tragico undici settembre rimasto nella storia e impresso nelle memorie di tutti i cittadini del mondo. Quei due aerei che si schiantano sulle Torri Gemelle, le centinaia di morti, l’inizio di una guerra infinita contro il terrorismo mediorientale, l’invasione del Pakistan, dell’Afghanistan, dell’Iraq. E Osama Bin Laden era rimasto vivo, l’unico colpevole non ancora catturato, per ben dieci anni. Naturalmente sono stati in tanti quelli che hanno pensato che in realtà il capo di Al Qaida fosse morto da tempo, che in realtà non fosse più lui a muovere le redini dell’organizzazione terroristica che ha messo in ginocchio i formidabili Stati Uniti d’America. Fino a perdersi nelle nebbie dei complottisti, che hanno spesso visto in Bin Laden una scusa plausibile per permettere a USA e Occidente di imperversare nelle terre del Medio Oriente, alla ricerca dell’oro nero e di investimenti multimiliardari.

Vero o meno che sia -sono già tantissime le perplessità a riguardo, come raccontato in questo articolo di Agoravox– la notizia è che, nel concreto, da oggi Bin Laden non esiste più. È stato “giustiziato” da un commando Usa proprio in Pakistan, dopo anni di indagini, una grande caccia durata forse troppo, o forse fatta durare troppo. Probabilmente non lo sapremo mai, e poco interessa in fondo.

Il terrorismo è stato sconfitto? Giustizia è fatta? Difficile pensarlo e crederlo. Bin Laden giustiziato rappresenta un’incredibile mossa pubblicitaria, che travalica l’evento in sé, diventa propaganda, diventa l’obbiettivo raggiunto dall’amministrazione Obama dove le precedenti amministrazioni repubblicane targate Bush avevano fallito. E ci si rende conto di quanto in realtà l’americano avrà sempre la fondina con l’arma carica, poco importa di che schieramento si tratti. Si chiude oggi un ciclo storico fatto di una battaglia al terrorismo senza quartiere, che ha visto nascere e proseguire guerre infinite che hanno fatto migliaia di morti. Un ciclo che si chiude virtualmente, visto e considerato che da domani sarà tutto uguale a prima, con qualche voto in più e un’icona, un villain, in meno. Senza considerare il concreto rischio martirio (e infatti pare che la salma di Osama verrà sepolta in mare, per evitare pellegrinaggi fondamentalisti).

Rimangono ancora tante domande, a cui probabilmente non troveremo mai risposta, se non chissà tra quanti anni. Ne rimane una che va fatta e ognuno di noi potrà poi rispondere come meglio crede: era davvero necessario un’esecuzione immediata e sommaria senza processo? Portiamo la democrazia e la libertà in posti in cui è negata, e uccidiamo uno dei più grossi criminali della storia dell’umanità con un colpo in testa, appena ritrovato dopo dieci anni di ricerche?

Giustizia è fatta?

Manifesto per la felicità – Recensione

[stextbox id=”custom” big=”true”]Un nuovo autore su Camminando Scalzi.it

Federico esordisce sulla blogzine recensendo il libro “Manifesto per la felicità”. Si presenta con una semplice frase…
Dati Biografici: io sono ancora di quelli che credono, con Croce e Calvino, che di un autore contano solo le sue opere (quando contano, naturalmente). A differenza di loro, io sono ancora vivo

…benvenuto su Camminando Scalzi.it [/stextbox]

Qual è il prezzo che stiamo pagando in nome della nostra prosperità economica?

La nascita di indicatori attendibili per misurare la felicità di un paese ha aperto una lunga serie di dibattiti sulla maniera più efficace per stabilire il livello di benessere di una comunità. Quello che sembra ormai certo è che il PIL da solo non basta.

Scorrendo la classifica della felicità mondiale, troviamo in testa  paesi come Messico, Colombia e Vietnam, tutti ben al di sopra degli USA, che tra i paesi occidentali è il fanalino di coda. Una situazione paradossale. Com’è possibile che un’aspettativa di vita più alta, maggiore democrazia, migliore istruzione e un largo accesso ai beni di consumo non si traducano di fatto in un aumento del benessere dei cittadini? Il libro di Stefano Bartolini analizza il “paradosso della felicità” e individua possibili soluzioni.

Per l’autore il cuore del problema è relazionale: sul lungo periodo, nelle società occidentali, si è registrato infatti un degrado nella qualità delle interazioni sociali. Maggiore individualismo ed esperienze relazionali meno frequenti e gratificanti rappresentano la chiave per spiegare il paradosso.  Secondo Bartolini quindi è possibile e necessario trovare alternative per coniugare prosperità, economia e felicità.

Migliorare la qualità della scuola, del lavoro, della sanità, dei consumi con proposte concrete è la sfida che ci lancia questo libro.

Stefano Bartolini insegna Economia Politica presso la facoltà di Economia “Richard M. Goodwin” dell’Università di Siena. Ha pubblicato numerosi articoli sulle più autorevoli riviste scientifiche.  Questo è il suo primo libro.

[stextbox id=”info” caption=”Vuoi collaborare con Camminando Scalzi.it ?” bcolor=”4682b4″ bgcolor=”9fdaf8″ cbgcolor=”2f587a”]Collaborare con la blogzine è facile. Inviateci i vostri articoli seguendo le istruzioni che trovate qui. Siamo interessati alle vostre idee, alle vostre opinioni, alla vostra visione del mondo. Sentitevi liberi di scrivere di qualsiasi tematica vogliate: attualità, cronaca, sport, articoli ironici, spettacolo, musica… Vi aspettiamo numerosi.[/stextbox]


Quel fumo nero sopra le Torri Gemelle

Domenica 6 marzo il sito web Cryptome ha pubblicato delle immagini inedite dell’11 settembre. Il video è stato girato dagli elicotteri della polizia di New York, nel preciso istante in cui gli aerei hanno colpito le torri gemelle.

Le immagini sono state fornite dal National Institute Of Standards And Technology (NIST), che ha approfittato della legge federale sul diritto all’informazione. Infatti, in base a questa legge il governo Usa è obbligato a permettere l’accesso parziale o totale ai documenti nazionali definiti “classificati”.

Sembra che queste immagini, assolutamente nuove, siano state custodite per tutti questi anni proprio presso il National Institute of Standards and Technology, prima che qualcuno, in forma anonima, le rendesse pubbliche inviandole al sito Cryptome.

L’attacco contro le torri gemelle in queste nuove immagini viene ripreso dall’alto, con in primo piano il fumo nero che esce dalla sommità degli edifici e copre totalmente l’orizzonte. Si percepiscono le voci di paura, terrore e disperazione al momento del crollo al suolo e i primi commenti increduli per cosa stava accadendo. Il video è della durata di circa 17 minuti, e se sinora era rimasto inedito, adesso è stato immediatamente  postato su Youtube ed è visibile su tutti i maggiori siti d’informazione americani. Dopo il sorvolo dell’elicottero sulle Torri, il video mostra l’atterraggio in un parco vicino alla zona del World Trade Center e le migliaia di persone che scappano per strada in preda totale del panico. Poco dopo la disperazione è ancora più dilagante per il crollo della seconda torre, la Torre Sud.

httpv://www.youtube.com/watch?v=36fP3cmNh3c

 

È chiaro che non si tratta delle consuete immagini impresse ormai nella memoria collettiva e divenute simbolo, nel corso di questo decennio, del conflitto tra la cultura occidentale e quella orientale. Il materiale che sinora avevamo a disposizione era basato sul video registrato da coloro che si trovavano in edifici vicini o per strada al momento dell’ impatto aereo, mentre il nuovo filmato mostra le terribili sequenze dell’evento inquadrate da davvero pochi metri di distanza.

Il cedimento strutturale dell’edificio avviene quando il velivolo è già atterrato. Si tratta di immagini le cui riprese sono state notevolmente compromesse dalla presenza del fumo, che offuscava l’intera area. Ed è proprio in merito all’immensa mole di fumo che si sono rivolte le maggiori attenzioni inerenti al filmato, ridando vita a un dibattito – quello tra complottisti ed anti-complottisti – che in realtà non si è mai sopito nel corso degli anni.

Secondo gli esperti sarebbe impossibile creare una così vasta quantità di fumo se non attraverso esplosioni “controllate”. In questi anni  c’è stato, infatti, chi ha sostenuto che il crollo delle twin towers sia avvenuto in tempi troppo rapidi, tanto da far sospettare che i pilastri dei grattacieli fossero stati in precedenza imbottiti di esplosivo, in modo da amplificare le conseguenze dell’incendio e giustificare meglio la successiva invasione dell’Iraq e dell’Afghanistan.

Alla luce del filmato inedito, qualcuno già torna a chiedersi come mai quel fumo possa esser stato generato da fiamme alla temperatura di circa 650 gradi. Una tale temperatura sarebbe infatti incompatibile con lo scioglimento delle travi di acciaio rivestite d’amianto, in grado di sopportare una temperature che si aggira intorno ai 3000 gradi.  Dal video si percepisce veramente tanto fumo, anche più di quanto non appaia dalle riprese viste sinora e con la visuale da terra. E, a dire degli esperti, il fumo così ingente ha un solo significato, cioè  una combustione “incompleta”, a temperature relativamente basse. Il dubbio è il seguente: come hanno fatto delle fiamme a una temperatura che la termografia valuta in 650 gradi al massimo a sciogliere delle travi di acciaio, che resiste fino a 1500 gradi, avvolto nell’amianto (che resiste fino a 3000 gradi)?

La “teoria ufficiale” aveva sempre affermato che il fenomeno in questione, già in precedenza oggetto di vivaci dibattiti, può essere avvenuto solo per un indebolimento delle travi talmente forte da farle cedere sotto il peso dei piani superiori.

Inoltre bisogna fare i conti con il fatto che non c’è il benché minimo resto di alcun pilastro d’acciaio crollato; non si vede altro che fumo, soltanto fumo. È difficile schierarsi con l’una o l’altra teoria, ma i dubbi sono tanti e questo video invece di ridurli li ha enormemente amplificati.

[stextbox id=”info” caption=”Vuoi collaborare con Camminando Scalzi.it ?” bcolor=”4682b4″ bgcolor=”9fdaf8″ cbgcolor=”2f587a”]Collaborare con la blogzine è facile. Inviateci i vostri articoli seguendo le istruzioni che trovate qui. Siamo interessati alle vostre idee, alle vostre opinioni, alla vostra visione del mondo. Sentitevi liberi di scrivere di qualsiasi tematica vogliate: attualità, cronaca, sport, articoli ironici, spettacolo, musica… Vi aspettiamo numerosi.[/stextbox]

 

Meridiano Zero – Egitto: il popolo conta ancora qualcosa

C’è una Tienanmen a un passo da qui e in pochi se ne sono accorti. Tutti presi dal Sexygate, dalle intercettazioni e dal bunga bunga, dalle raccomandazioni, dai festini e da quello che succede nella casa più spiata d’Italia (non quella del Grande Fratello, quella di Arcore), il riordino dell’assetto mediorientale è passato, o comunque sta passando, in secondo piano.

Il connubio Italia-Egitto si è sintetizzato nei kebab, nei resort di Sharm el Sheik e nelle giovani adolescenti tirate fuori dalle questure perché nipoti di Mubarak. Già, proprio lui che, in questi giorni, è assediato dal suo stesso popolo, che gli urla a gran voce di dimettersi. L’ennesimo regime sotto scacco, che segue da vicino le rivolte Algerine e Albanesi. Cosa attendersi ora? E perché ora? La prossima nazione sarà la Libia. Il vecchio Gheddafi, con i suoi cavalli e le sue cavalle con le mostrine, farà posto presto o tardi al figlio, molto più occidentalizzato, al passo con i tempi e più simpatico agli Stati Uniti. Il vecchio troverà sicuramente posto in una dependance di Arcore. Il perché, a mio avviso, è da ricercarsi nel cambio di rotta che stanno prendendo gli Stati Uniti nei confronti di Israele; il partner storico, dopo le disfatte in Iraq e Afghanistan e la difficoltà nelle trattative in Palestina, inizia a essere indigesto, soprattutto alla compagine democratica che, a differenza di quella repubblicana, ha pochi interessi in ballo con le major delle armi&similia. L’America guarda oltre, guarda alle economie cinesi e indiane, cercando di ridisegnare dei confini dentro le quali stringerle: a oriente tra filippine, giappone e siam, a occidente in questo nuovo “medioriente” capitanato da un Egitto in piena rivoluzione.
La prova l’abbiamo avuta pochi giorni fa, quando l’Egitto ha dovuto chiedere l’autorizzazione a Israele per far avanzare i carrarmati nella pianura del Sinai, zona demilitarizzata, autorizzazione concessa e che ha fatto infuriare Hillary. Mentre in America chiedono elezioni e che Mubarak si dimetta per il bene del (suo) paese, Frattini cambia idea come una banderuola cambia direzione in un giorno di vento. Poche ore prima assicura appoggio a Mubarak, poche ore dopo chiede le sue dimissioni, evidentemente informato di aver detto una cazzata. L’esercito è stretto tra due fuochi. Da una parte Mubarak che chiede la soppressione delle rivolte, dall’altro un popolo che chiede ciò che è giusto: giustizia e democrazia. Il Cairo è nel caos. Piazza Tahir è la nuova Tienanmen e il popolo egiziano è la dimostrazione chiara, lampante, splendida, che il popolo conta ancora qualcosa.

Noi, invece, mangiamo popcorn e seguiamo il nostro personale sexygate.

[stextbox id=”info” caption=”Vuoi collaborare con Camminando Scalzi.it ?” bcolor=”4682b4″ bgcolor=”9fdaf8″ cbgcolor=”2f587a”]Collaborare con la blogzine è facile. Inviateci i vostri articoli seguendo le istruzioni che trovate qui. Siamo interessati alle vostre idee, alle vostre opinioni, alla vostra visione del mondo. Sentitevi liberi di scrivere di qualsiasi tematica vogliate: attualità, cronaca, sport, articoli ironici, spettacolo, musica… Vi aspettiamo numerosi.[/stextbox]

La miope strategia della Fiat di Marchionne

Il referendum proposto da Marchionne alla sede FIAT di Mirafiori è passato con 2.735 sì contro 2.325 no. Una percentuale del 54,05% di votanti favorevoli, che pare abbiano raggiunto la maggioranza soprattutto grazie al voto degli impiegati. Ma “il discorso sugli impiegati è fin troppo facile – spiega Paolo Griseri su La Repubblica online del 16 gennaio 2011. – Il loro livello di autonomia sul lavoro è molto alto; non fanno i turni, non hanno il problema delle pause, in buon parte fanno parte del sistema gerarchico di controllo aziendale. C’è da stupirsi che ben 20 abbiano votato no. Gli altri 421 hanno detto sì. Ma se si escludono gli impiegati dal conto, la fabbrica è divisa come una mela: 2.315 sì e 2.306 no”.

Appena 9 voti in più per i favorevoli, anche se tra le tute blu della catena di montaggio, laddove il lavoro è più duro, è stato il “no” a prevalere: chiaro indice della preoccupazione degli operai che subiranno le conseguenze di questo nuovo accordo. Sono loro che dovranno far scendere il livello medio di assenteismo sotto il 6% (ora è all’8%), altrimenti da luglio 2011 i dipendenti che si assenteranno per malattie brevi (non oltre i cinque giorni) a ridosso delle feste, delle ferie o del riposo settimanale per più di due volte in un anno non gli verrà pagato il primo giorno di malattia. Dal 2012 se l’assenteismo non sarà sceso sotto il 4% i giorni di malattia non pagati saranno invece due. Le ore obbligatorie di straordinario passeranno da 40 a 120 all’anno, con 15 sabati lavorativi, e come già previsto per lo stabilimento di Pomigliano, coloro che non rispetteranno gli impegni assunti con l’accordo rischieranno sanzioni in relazione a contributi sindacali, permessi per direttivi e permessi sindacali aggiuntivi allo Statuto dei Lavoratori (fonte: Il Fatto Quotidiano). E questi sono solo alcuni dei punti inseriti dal referendum…

Oggi Marchionne parla di una “sfida per la nuova Fiat, con stipendi tedeschi e azioni per gli operai”. Resta solo da capire se la sfida di investire nel mercato internazionale dei suv troverà un riscontro positivo nella realtà o si trasformerà nell’ennesima illusione di un’azienda incapace di mettersi davvero in gioco.

Viviamo in una società afflitta dall’inquinamento dell’aria, dalla carenza di parcheggi, dal caro benzina e da una crisi economica che non incentiva particolarmente la vendita di automobili troppo costose. Viviamo in una società in cui il mercato dell’auto si è praticamente saturato, con una media di due macchine per ogni nucleo familiare. Viviamo in una società in cui si parla di auto ibride, elettriche, di riduzione del traffico, di incentivi sui mezzi di trasporto pubblico e car sharing, e tutto ciò che la geniale mente di Marchionne riesce a partorire è un investimento su jeep e suv da vendere oltreoceano?! Più che una sfida questa decisione mi pare una scelta miope, tesa ad assecondare solo il peggio del mercato globale, dove la competizione arriva a mettere in discussione le pause degli operai e i loro giorni di malattia per adeguarsi ai peggiori standard di lavoro e produzione. Un sistema in cui si gioca sempre al ribasso, coi diritti e la qualità della vita, perché tanto a rimetterci sono sempre e soltanto i soliti poveri stronzi…

[stextbox id=”info” caption=”Vuoi collaborare con Camminando Scalzi.it ?” bcolor=”4682b4″ bgcolor=”9fdaf8″ cbgcolor=”2f587a”]Collaborare con la blogzine è facile. Inviateci i vostri articoli seguendo le istruzioni che trovate qui. Siamo interessati alle vostre idee, alle vostre opinioni, alla vostra visione del mondo. Sentitevi liberi di scrivere di qualsiasi tematica vogliate: attualità, cronaca, sport, articoli ironici, spettacolo, musica… Vi aspettiamo numerosi.[/stextbox]

La “democrazia” in America

Nel 1835 il filosofo francese Alexis de Tocqueville pubblicava il suo capolavoro: “La democrazia in America”; un poderoso trattato sulla giovanissima repubblica americana, sulla sua società, sui costumi e sui punti di forza e debolezza. Per Tocqueville la vera innovazione della società statunitense stava nel fatto che la democrazia rappresentativa aveva attecchito stabilmente e che questa forma di governo garantisse ai cittadini libertà e diritti che faticavano ad affermarsi nella vecchia Europa.

Molti anni sono passati dalle entusiastiche parole del filosofo francese e le cose, negli Stati Uniti, sono parecchio cambiate. Tante volte, forse troppe, alla democrazia rappresentativa si è sostituito il “partito della pistola”. Negli anni sessanta i fratelli John e Bob Kennedy furono entrambi uccisi a colpi d’arma da fuoco e, qualche giorno fa, a Tucson, in Arizona, un folle ha aperto il fuoco contro la deputata democratica Gabrielle Giffords, ferendola gravemente alla testa e uccidendo sei persone.

Cosa è successo alla Democrazia in America? Il sistema politico statunitense è ancora considerato il più democratico, rappresentativo e liberale del mondo. Ma in realtà le cose sono leggermente diverse. Il diritto di voto, tanto per iniziare.
In quasi tutte le nazioni il diritto all’elettorato attivo e passivo si acquisisce automaticamente, con la maggiore età. Negli Stati Uniti questo non accade. Se un cittadino vuole votare deve obbligatoriamente iscriversi alle liste elettorali e dichiarare la propria affiliazione politica.

Questa pratica, se da un lato dovrebbe instillare nell’elettore il valore effettivo del voto e della partecipazione alle sorti del paese, dall’altro spinge la maggior parte cittadini a disinteressarsi della politica attiva. Altra caratteristica peculiare della democrazia americana sono i gruppi di pressione, o lobbies. Piccole e grandi aziende, organizzazioni, associazioni per i diritti civili, chiese… Tutti questi soggetti influenzano pesantemente la vita politica statunitense in vari modi. In maniera più evidente, finanziando profumatamente le campagne elettorali dei candidati portatori dei loro valori e dei loro interessi. In maniera più sottile, manipolando il voto dei loro dipendenti eo adepti, spingendoli a sostenere il candidato prescelto. L’influenza delle lobbies è forte anche in periodo non elettorale. Tale pressione viene esercitata in molti modi e sempre alla luce del sole. Manifestazioni violente e provocatorie, campagne pubblicitarie aggressive, proselitismo porta a porta, sono tutti strumenti utilizzati giornalmente per indirizzare l’opinione pubblica e forse il voto del cittadino americano.

La contrapposizione,  spesso violenta, tra svariati interessi e i rispettivi gruppi di pressione, oltre a innalzare i toni dei dibattiti, spesso causa la nascita spontanea di nuovi gruppi e organizzazioni. Uno dei casi più recenti è quello del cosiddetto “Tea Party”. Nato negli ambienti dell’elettorato repubblicano, questo nuovo gruppo prende il nome dal celebre “Boston Tea Party”, il gesto simbolo della lotta per l’indipendenza dall’Inghilterra. I membri del “Tea Party” sono degli ultra conservatori estremamente radicali che sostengono un ritorno ai sani vecchi valori puritani che hanno fatto grandi gli Stati Uniti. Anche Jared Loughner, il ragazzo di 22 anni che ha sparato a Tucson, faceva parte di un’organizzazione: “Rinascimento Americano”, un gruppo di suprematisti bianchi antisemiti. La stessa Gabrielle Giffords si era fatta molti nemici negli ambienti conservatori a causa delle sue posizioni pro aborto e a favore della sperimentazioni sulle cellule staminali. Inoltre, il suo nome era  nella “black list” dei nemici da sconfiggere, stilata dall’ex governatrice dell’Alaska, Sarah Palin.

Che sia questa la democrazia americana moderna? È veramente democratica e civile una nazione dove lo scontro politico può sfociare nella violenza fisica e a volte anche nell’omicidio?

[stextbox id=”info” caption=”Vuoi collaborare con Camminando Scalzi.it ?” bcolor=”4682b4″ bgcolor=”9fdaf8″ cbgcolor=”2f587a”]Collaborare con la blogzine è facile. Inviateci i vostri articoli seguendo le istruzioni che trovate qui. Siamo interessati alle vostre idee, alle vostre opinioni, alla vostra visione del mondo. Sentitevi liberi di scrivere di qualsiasi tematica vogliate: attualità, cronaca, sport, articoli ironici, spettacolo, musica… Vi aspettiamo numerosi.[/stextbox]

La macchina del fango si abbatte su Assange…

Persino Il Giornale del 9 dicembre ha scelto di difendere Julian Assange dalle assurde calunnie che gli sono state mosse: “Le accuse di violenza sessuale usate per arrestare Assange – scrive Gian Micalessin – sono dubbie e dimostrano l’inadeguatezza e l’impreparazione con cui grandi potenze, agenzie di sicurezza, diplomazia e giustizia internazionale affrontano i rischi determinati dalla pirateria elettronica e dall’uso di internet come strumento per la diffusione di segreti di Stato”. A ciò si aggiunge l’inadeguato utilizzo della parola “violenza sessuale” da parte di una grossa parte della stampa, che non ha tenuto conto del fatto che il crimine di cui è realmente accusato il noto giornalista legato alla rivoluzionaria vicenda di WikiLeaks è il “sesso di sorpresa”. Un reato che, come si legge su Esse, consiste nel comportamento per cui, se durante un rapporto sessuale con una persona consenziente utilizzi contraccettivi come il preservativo e ne interrompi l’uso (ad esempio perché si rompe) questa condotta per la legge svedese si equipara allo stupro, sebbene sia punito con una multa e non con il carcere, come accadrebbe in caso di violenza sessuale. Un reato che non esiste negli altri Paesi europei, ma che ha comunque permesso di emettere un mandato di cattura internazionale per il terribile criminale dal preservativo bucato.

E’ evidente che la vicenda che ha condotto Julian Assange davanti al magistrato londinese Caroline Tubbs con un’accusa di stupro e due di molestie sessuali non è altro che un imbarazzante stratagemma per legare le manette ai polsi di un uomo la cui sola colpa è quella di aver reso pubblici dei documenti che sono sfuggiti al controllo del dipartimento di stato statunitense. E mentre la Svezia tratta sull’estradizione del pericoloso criminale negli USA, l’Independent, citando fonti diplomatiche, scrive che le autorità di Washington avrebbero avviato discussioni informali con quelle svedesi sulla possibilità di consegnare il fondatore di WikiLeaks alla giustizia americana. Mark Stephens, legale del giornalista più controverso del pianeta, intervistato dalla BBC si è detto “inquieto per le motivazioni politiche che sembrano esservi dietro l’arresto”. E non serve certo un avvocato per capire che si tratta di una incredibile messa in scena organizzata col solo scopo di infangare la reputazione di uno degli uomini più “scomodi” del momento.

“Un profilattico bucato, la gelosia di una femminista rancorosa, la rabbia di una ragazzina illusa. Sono gli unici cavilli di cui dispone la giustizia internazionale per sbattere in galera un uomo colpevole di aver messo a repentaglio la sicurezza planetaria”, scrive Gian Micalessin su Il Giornale, e forse questa volta bisognerà pure dargli ragione. Perché poco importa se alla fine Assange verrà giudicato colpevole o innocente… Nel frattempo le sue vicende personali faranno il giro del mondo, infangando la sua reputazione e impedendogli di concentrarsi sulle importanti informazioni che WikiLeaks avrebbe da raccontare.

[stextbox id=”info” caption=”Vuoi collaborare con Camminando Scalzi.it ?” bcolor=”4682b4″ bgcolor=”9fdaf8″ cbgcolor=”2f587a”]Collaborare con la blogzine è facile. Inviateci i vostri articoli seguendo le istruzioni che trovate qui. Siamo interessati alle vostre idee, alle vostre opinioni, alla vostra visione del mondo. Sentitevi liberi di scrivere di qualsiasi tematica vogliate: attualità, cronaca, sport, articoli ironici, spettacolo, musica… Vi aspettiamo numerosi.[/stextbox]

Corea: Quando la storia minaccia di ripetersi

Esattamente sessant’anni fa, il governo nord coreano, appena nato sotto l’egida sovietica, invadeva proditoriamente la Corea del Sud scatenando quella che gli storici ancora oggi chiamano “La guerra dimenticata”.

Il conflitto che contrappose le due piccole nazioni e che causò quasi tre milioni di morti venne percepito poco e male dall’opinione pubblica europea, ancora sconvolta dagli orrori della Seconda Guerra Mondiale. La crisi coreana del 1950 fu il primo effettivo banco di prova per la nascente Guerra Fredda, infatti, vide contrapposti da un lato gli Stati Uniti, che appoggiavano la Corea del Sud, e dall’altro il Blocco Sovietico con Cina e Urss dalla parte dei nordcoreani. All’epoca non vi erano interessi economici in gioco, vi era da mantenere un fragile equilibrio tra super potenze ed impedire la deriva della “Marea Rossa”. Anche per questo motivo l’esito del conflitto fu abbastanza scontato lasciando immutati, dopo tre anni di carneficina, confini geografici ed equilibri politici internazionali.

Oggi tra le due coree si torna a sparare ma la situazione geopolitica è radicalmente diversa. I due paesi in questi cinquant’anni hanno preso strade molto diverse.

La Corea del Sud, dopo decenni di instabilità politica e di dittature militari ha trovato, negli anni 80, la strada per lo sviluppo economico, diventando, nel giro di un decennio, un paese altamente industrializzato e con un alto tenore di vita. Al contrario, la Corea del Nord, ha continuato ad essere governata da un regime comunista. Sotto la guida del carismatico Kim-il-sung, il piccolo paese asiatico ha avviato un piano di sviluppo economico totalmente sbilanciato verso l’industria pesante. Questa fase si è dolorosamente arrestata con il crollo dell’Unione Sovietica, lasciando la nazione in condizioni economiche gravissime. Nonostante la vicinanza con la Cina, anch’essa comunista, la Corea del Nord, negli ultimi anni ha inaugurato una politica di isolamento economico e politico che ha aggravato ulteriormente le condizioni della popolazione.

L’attacco all’isola di Yeonpyeong ha interrotto bruscamente oltre cinquant’anni di pace vigile e di rapporti sempre tesi tra le due nazioni. Su quello che è accaduto lungo il confine coreano le opinioni sono, ovviamente discordanti. I sudcoreani sostengono la tesi dell’attacco ingiustificato, i nordcoreani, al contrario, dicono di aver semplicemente risposto al fuoco. L’unica certezza sono i caduti e gli sfollati, prime vittime di una situazione ancora poco chiara.

Se però allarghiamo di poco lo scenario, forse, riusciamo a intuire qualcosa di più.

Nelle cronache economiche di questi ultimi mesi, oltre alla sempre presente crisi globale, ha spesso trovato spazio la “guerra monetaria” tra Cina e USA. Gli Stati Uniti accusano il gigante asiatico di tenere forzatamente sottovalutata la moneta nazionale, il Renmimbi, per mantenere competitive le esportazioni cinesi influenzando così l’intera economia globale. Gli stessi USA sono a loro volta accusati dalla Cina di perseguire una politica volutamente inflazionistica, puntando a svalutare il Dollaro a scapito del debito pubblico. Inoltre, una buona fetta del debito pubblico statunitense è in mano alle banche cinesi che così si trovano nell’invidiabile posizione di poter stringere il cappio attorno all’economia americana a loro piacimento. In quest’ottica, una nuova crisi coreana potrebbe, da un lato portare la guerra sulla porta di casa cinese e rafforzare la leadership USA in Estremo Oriente. Dall’altro lato costringerebbe gli Stati Uniti ad uno sforzo economico militare ulteriore in un grave momento di difficoltà e potrebbe servire al governo Cinese per rafforzare il potere del presidente Kim Jong-Il, eroso dalla gravissima crisi economica che ha colpito la Corea del Nord. Il leader nordcoreano, tra l’altro, ha appena nominato come suo successore il figlio Kim Jong-Un, non particolarmente carismatico e poco apprezzato dal popolo. Un eventuale conflitto potrebbe rafforzare la posizione del futuro presidente. Probabilmente, gli eventi di questi giorni in Corea sono l’ennesima puntata di una nuova Guerra Fredda. Se una volta il nemico era l’Urss, ora è la Cina.

Lo scontro ha perso i connotati ideologici ed è diventato contrasto militare ma soprattutto economico. Le due coree sono solo due pedine nell’immenso scacchiere mondiale.

[stextbox id=”info” caption=”Vuoi collaborare con Camminando Scalzi.it ?” bcolor=”4682b4″ bgcolor=”9fdaf8″ cbgcolor=”2f587a”]Collaborare con la blogzine è facile. Inviateci i vostri articoli seguendo le istruzioni che trovate qui. Siamo interessati alle vostre idee, alle vostre opinioni, alla vostra visione del mondo. Sentitevi liberi di scrivere di qualsiasi tematica vogliate: attualità, cronaca, sport, articoli ironici, spettacolo, musica… Vi aspettiamo numerosi.[/stextbox]