Da qualche parte in Africa

[stextbox id=”custom” big=”true”]Una nuova autrice su Camminando Scalzi.it

Nica Pescetta è un medico specializzando in Anestesia e Rianimazione. In questo articolo ci racconta la sua esperienza in Africa come medico volontario. Buona Lettura.  [/stextbox]

Era stagione secca e il sole non amava trattenersi all’orizzonte, ma bruciare. Da mattina a sera stava a picco sulle cose, imbiancando il cielo senza tregua. Mancava più di un mese alla prima pioggia, quando il sudore di questi giorni accecanti si sarebbe raccolto a dare forma alla prima nuvola. E l’acqua sarebbe tornata a essere degli uomini, la terra rossa a sfamarli.

Era stagione secca e il pomeriggio seguiva al mattino senza variazioni di luce. L’ombra, sempre calpestata dai passi, stentava ad allungarsi. Fino al buio, che arrivava senza preamboli per spegnere l’ardore di un altro giorno infuocato.

Scendeva presto la notte. Che non era d’uomini, ma di presenze sottili. I fuochi si accendevano qua e là ad infondere coraggio. Solo il ritmo dei tamburi osava attraversare quel buio senza paura. A parte me, che ignara di tutto andavo a calpestare la notte e a prendere in spalla il peso delle stelle. Non avevo ancora imparato il senso delle cose, mettevo un passo in fila all’altro senza intuirne il significato.

I mie occhi non sapevano distinguere nel buio, i miei piedi non riconoscevano il sentiero segnato nella sabbia, l’aria profumava di resina bruciata senza che io ne conoscessi il nome. Per questo, quella sera, ancora mi aggiravo nonostante il giorno stesse per finire. Amavo chiacchierare, in quella mia lingua mozza, con i ragazzi della scuola tecnica, che incuriositi dal mio bianco e da quello che facevo avevano sempre qualche domanda per me. Le mie risposte azzoppate poi, facevano finire il discorso in una risata collettiva.

Mi divertiva farmi prendere in giro così.

Così, mi capitò tra le braccia Andrasio. Un ragazzo di quelli con un corpo già d’uomo nei suoi 17 anni, e la pelle carbone. Alcuni compagni intorno stavano ancora ridendo e anch’io; quelli che invece l’avevano trascinato fin lì erano seri. Più increduli che spaventati, ma seri. L’avevano trascinato fuori dal dormitorio e appoggiato lì, a una panca, con la schiena contro il muro. Lo tenevano per le spalle, ma appena. Gli occhi erano chiusi e tutto assomigliava a uno scherzo. Alcuni cominciarono con le solite battute: “anch’io voglio farmi visitare dalla dottoressa bianca”, “doctora ho un terribile mal di pancia”, “io invece mi sento proprio svenire”… Sorridevo e questa volta ero io a prenderli in giro.

Ma uno piccoletto mi prese per il braccio e disse piano che Andrasio da qualche ora non si svegliava. Che era stato male tutta la notte, che la mattina aveva lasciato la lezione per correre al bagno e poi l’avevano trovato loro, i compagni di stanza, disteso sul letto con i pantaloni sporchi e gli occhi chiusi come da un sonno… Nessuno rideva più.

Andrasio non si svegliava davvero. La sua pelle era fredda contro la mia. I suoi battiti erano sottovoce e rapidi come d’uccellino. Non ricordo di aver detto molte parole e già i ragazzi se l’erano caricato in spalla per portarlo al “Centro de Saude”. Sopra quella processione di corpi, tutti insieme, cominciavano a brillare le prime stelle. Il buio era già. Il sentiero che seguivamo era nei loro passi. In lontananza l’ospedale era riassunto in poche lampadine. Solo il “pronto soccorso”, fatto di due letti, un tavolo, un lavandino e qualche farmaco era illuminato dai neon. Quella luce aliena straripava attraverso le persiane nella notte, alterando il paesaggio insieme al ronfo incessante del generatore.

Deve essere malaria” dicevano tutti. E in mancanza del laboratorista e dei suoi vetrini, anche il test rapido rafforzava quell’opinione.

Indipendentemente da ogni sospetto tuttavia, a uno malato così sarebbe toccata la solita “acqua appesa” e  il chinino. Iniziò la lotta. Armati d’aghi e intuito, il sangue si trovava a fatica. Infine l’acqua cominciò a scorrere, insieme alla medicina. Ma buio era già. Gli uccelli della notte spingevano lontano il loro grido, i tamburi degli uomini tacevano ormai.

Niente convinse Andrasio a svegliarsi più da quello che continuava a sembrare un sogno.

Questo fu il primo di una serie di decessi, durante quegli ultimi mesi riarsi prima dell’arrivo delle piogge. Si trattava di morti per disidratazione in seguito a diarree acute non prontamente o adeguatamente trattate. Le manifestazioni cliniche facevano pensare che si trattasse di colera, ma passò molto tempo prima che arrivasse una conferma da parte delle autorità sanitarie competenti. Dopo un mese dai primi casi continuava a esserci difficoltà nel rifornimento di soluzioni re-idratanti per uso endovenoso, essenziali per il trattamento.

Durante lo stesso periodo in due Stati confinanti1 un’estesa epidemia di colera richiamò l’attenzione e gli aiuti internazionali.

Ogni anno nel mondo si contano più di duecentomila nuovi casi di colera, di cui il 99% in Africa2.

Mi chiedo quanti siano, invece, i casi che non (si) contano.

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(1) riferimento all’epidemia di Colera che si sviluppò in Zimbabwe nell’autunno del 2008, estesasi poi al Malawi con l’inizio del 2009: link 1link 2

(2) Centers for Disease Control and Prevention, Epidemiology and Risk Factors.

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