Raul, il colchonero che ha fatto la storia dei nemici

Raul Gonzalez BlancoA volte la storia gioca degli strani scherzi. A quanti genitori è capitato che i propri figli diventassero quello che non volevano? Senza addentrarci nel sociale ed attenendoci squisitamente all’ambito sportivo, ci riferiamo ad una “offesa” che a tanti papà capita di subire: il proprio figlio diventa tifoso della squadra sbagliata, magari i rivali di sempre. A qualcuno però va anche peggio. Il padre di Raul Gonzalez Blanco, calciatore che è riuscito ad ottenere numerosi riconoscimenti e a rendersi famoso col suo nome piuttosto che col cognome (meraviglia del balompié spagnolo), lo ha visto addirittura diventare la bandiera, il simbolo, il fulgido esempio della grandezza dei “nemici giurati”. Già, perchè tanto Raul quanto suo padre sono da sempre tifosissimi dei “colchoneros” (così chiamati da quando venne istituita la maglia biancorossa, perché divise del genere erano facilmente ricavabili dai fondi dei materassi, cosa questa che valse ai giocatori e ai tifosi della squadra il suddetto soprannome) e speravano di fare la storia del team della capitale. Raul infatti inizia la sua carriera ufficiale nelle giovanili dell’Atletico Madrid, firmando all’età di tredici anni per la squadra del cuore, dove da esterno di centrocampo segna 55 gol nella sua prima stagione e 65 nella seconda (di cui otto in una sola partita) vincendo sempre il campionato di categoria.Continua a leggere…

Un'Italiana a Bruxelles: la Nazionale agli Europei

Non sono mai stata una grande tifosa. Non seguo il calcio, non ho una squadra del cuore e mi disgusta ricordare che in Italia ventidue società e cinquantadue giocatori sono in attesa di essere processati per un giro di scommesse da milioni di euro.

Ciononostante, è difficile non rimanere affascinati da quell’aura di socialità e senso di appartenenza che rapisce la ragione di chiunque osi mettersi a parteggiare di fronte a un match calcistico. Quando vivi all’estero, la Nazionale si trasforma in una calamita capace di riempire locali con oltre duecento persone che esultano e si abbattono sotto la stessa bandiera, fra italiani per nascita e italiani per scelta…

Dopo la vittoria degli azzurri allo scontro Italia-Germania, Bruxelles si è trasformata nella città del tricolore “verde, bianco e rosso”, sventolato da rumorose macchine di clacson e urla di trionfo. Il centro è presto divenuto il punto nevralgico di festeggiamenti che andavano oltre il risultato della semifinale: un tripudio di incontri inaspettati, abbracci sconosciuti e brindisi senza tregua.

L’occasione per una staffetta al bar marocchino sotto casa, per ritrovarsi di fronte al proprietario con la pelle scura e lo sguardo mediorientale con la maglia azzurra e un sorriso d’intesa. Una nottata a parlare francese e ricambiare giri di birra col ristoratore portoghese, il cuoco algerino e altri volti amichevoli accomunati dal pretesto di una vittoria calcistica da festeggiare. Andare a dormire alle tre e mezza della notte con la testa leggera e un bagaglio di esperienze che senza quegli Europei non avresti mai potuto sperimentare. Una serata che si sarebbe potuta ripetere con la finale di domenica, ma che alla fine ha deciso di concedersi ai tifosi spagnoli.

E adesso che i giochi son finiti, si tornerà giustamente a parlare di tutti gli scandali e la melma in cui sta affondando il mondo del calcio, oscurando quel meraviglioso potere di aggregazione e condivisione che, nonostante tutto, mi ha fatto divertire e mi piace ricordare!

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L'urna ha parlato. Vediamo di risponderle.

L’urna ha parlato. Cosa ha detto? Beh, grosso modo qualcosa del tipo “All’Europeo difficilmente becchi nuovamente la Nuova Zelanda”. Esatto, proprio così. Sperare in un girone abbordabile in un campionato europeo è da folli, specie dove su quattro teste di serie ben due sono i paesi ospitanti. Sgomberiamo il campo dagli equivoci. Solo sedici squadre, tutte europee e concentrare in quattro gironi (il discorso sarà diverso dal prossimo europeo, che sarà a ventiquattro squadre). Niente formazioni caraibiche o oceaniche. Intendiamoci, la figura di me…lma è sempre dietro l’angolo e purtroppo lo sappiamo benissimo, ma è indiscutibile il fatto che quel girone del mondiale sudafricano fosse ridicolo (difatti siamo usciti per osceni demeriti nostri, non certo perchè “kiwi” e slovacchi si siano dimostrati meglio del previsto). Nell’europeo devi entrare in forma subito, non passo dopo passo, solo così si può sperare di vincere.
Avere un girone del genere potrebbe essere un vantaggio. Ma andiamo a vederlo nel concreto.

Spagna (prima nel ranking Fifa), Irlanda (ventunesima) e Croazia (ottava). Naturalmente il ranking lascia il tempo che trova (i croati davanti a noi è quantomeno discutibile) ma ci dice che bisogna lottare da subito. L’esordio è con la Spagna. Campioni in carica e vincitori anche della Coppa del Mondo. Sono i più forti? Assolutamente si. Mezzo Barcellona e mezzo Real Madrid, ovvero le due squadre migliori al mondo attualmente. Il gap non è così ampio come certa stampa ridicola vuol far credere, ma bisogna rispettare chi parte in pole-position. Guardiamo il lato positivo: se dovessimo perdere c’è ancora speranza di rialzarsi e di recuperare (e dipenderebbe da noi) ma se invece ne usciamo indenni la strada sarebbe veramente in discesa. Hanno un firmamento di stelle, ma come abbiamo già sottolineato in passato siamo in crescita costante e Prandelli sta lavorando stupendamente.

Ci sarà poi l’Irlanda del Trap. Vecchia volpe, e sebbene “Cat is not in the sack” bisognerà sudare anche contro di loro. Perchè? Esattamente per quello, per il Trap. Non hanno supercampioni ma tanti buoni giocatori (uno su tutti il fortissimo Duff, campioncino spesso sottovalutato) che però giocano un calcio incredibilmente concreto, improntato al risultato e non al bel gioco che non serve a niente ed è solo fine a sé stesso. Partiamo logicamente favoriti ma guai a sottovalutarli. Infine la Croazia. Che dire sui croati, per la prima volta arrivano ad una competizione senza vere “stelle” circondate da comprimari, ma chi li ha visti giocare avrà notato due cose: innanzitutto che sono un gruppo compattissimo, assai poco slavo (del resto sono gli unici dell’ex-Jugoslavia ad essersi qualificati), e poi che hanno due cosiddetti enormi (vedasi il tre a zero rifilato ai turchi in casa loro nei playoff). In pratica possono essere una grande sorpresa o un flop clamoroso.

Un cosa è sicura, si tratta di quattro squadre che sanno giocare a calcio. Preparatevi a partite molto combattute, magari anche non spettacolari ma che sapranno emozionare. Fare meglio dell’ultimo torneo importante sarà facilissimo, ma si spera che i nostri ragazzi possano arrivare fino in fondo.

La meglio gioventù. Rieccola.

1 Marco Amelia, 3 Emiliano Moretti, 5 Daniele Bonera, 6 Daniele De Rossi, 8 Angelo Palombo, 9 Alberto Gilardino, 11 Giuseppe Sculli, 13 Andrea Barzagli, 14 Cesare Bovo, 15 Marco Donadel, 17 Giondomenico Mesto. Sostituti 12 Federico Agliardi, 22 Carlo Zotti, 2 Cristian Zaccardo,  4 Alessandro Gamberini, 10 Matteo Brighi, 16 Alessandro Potenza, 18 Alessandro Rosina, 19 Simone Del Nero, 20 Andrea Caracciolo, 21 Gaetano D’Agostino. Allenatore Claudio Gentile.
Questa è la nazionale under 21 dell’Italia che vinse il campionato europeo nel 2004. Tre a zero alla Serbia, strapazzata dal gioco degli azzurrini che dominarono il torneo. Cinque di questi ragazzi due anni dopo diventavano campioni del mondo, dopo una strepitosa cavalcata in terra tedesca conclusa con il successo contro la Francia in finale ai calci di rigore. Nomi interessanti, che testimoniano come il nostro vivaio (nonostante i giornalisti amino dire il contrario) continua a sfornare giocatori molto interessanti. Spesso si tende a dimenticarsene, ma per una nazionale è importantissimo avere linfa vitale da quelle giovanili e dopo qualche passaggio a vuoto le cose sembrano tornate alla normalità (perché a livello di under 21 nessuno ha vinto quanto noi, è bene ricordarlo sempre). Il merito di tutto ciò bisogna sicuramente riconoscerlo a Ciro Ferrara, capace di raccogliere un’eredità scomoda e di rilanciare un gruppo che sembrava aver perso la fiducia in sé stesso. La gestione di Casiraghi non era stata delle migliori: dopo sette edizioni la qualificazione alla fase finale dell’europeo non è arrivata. Dopo un clamoroso e fortunoso passaggio alla fase degli spareggi e dopo una vittoria per 2-0 in casa contro una modesta Bielorussia arrivò una ancor più clamorosa sconfitta per 3-0 in trasferta che ovviamente costò la panchina all’ex bomber di Juventus e Chelsea.

Ora c’è un gruppo nuovo, capace di fare sfracelli. Cinque vittorie su cinque, con sedici gol fatti e solo due subiti. In più, un gioco brillante ed a tratti anche spettacolare. Ma vuol dire anche che abbiamo giovani di grande talento? Assolutamente si. Facciamo qualche esempio ruolo per ruolo. In porta c’è Carlo Pinsoglio, da molti descritto come il nuovo Buffon (si vabbè, il nuovo-tal dei tali oramai è una espressione inflazionata) ma che sicuramente ha grosse doti: cresciuto nel vivaio juventino si è messo in mostra anche a Viareggio, ma adesso si è consacrato nel Pescara di Zeman (e se un portiere si dimostra bravo in una squadra del boemo è tutto dire!). In difesa un terzetto nerazzurro con Santon (che oramai conosciamo bene perchè in nazionale maggiore ha già giocato e che adesso è passato al Newcastle) e soprattutto Caldirola e Faraoni (occhio perchè a breve imparerete a conoscerli). Senza dimenticare Camporese della Fiorentina e Crescenzi del Bari. A centrocampo Marrone della Juventus è il nuovo che avanza, a breve lo vedremo fare ottime cose in Serie A, ma di fianco a lui sembrano promettere bene anche Bertolacci del Lecce (ricorderete che ha già castigato la Juventus lo scorso anno) e Saponara dell’Empoli. Inoltre ci sono tre o quattro ragazzi che sembrano partire a fari spenti ma potrebbero accenderli ed abbagliare tutti. Le primizie però sono tutte in attacco. Paloschi e Destro in Serie A ci giocano con continuità e sopratutto il secondo sembra essere uno dal gol facile, mentre l’atalantino Gabbiadini sembra in fase di maturazione. C’è anche il “Faraone” El Shaarawy, che ha già segnato un gol con la maglia del Milan (tra l’altro alla miglior difesa della Serie A fino ad oggi, quella dell’Udinese) e che viene visto da molti addirittura come l’erede di Kakà. Infine un ragazzo che sta facendo sognare i tifosi del Napoli, anche se gioca a Pescara: Lorenzo Insigne. Zeman lo ha scoperto lanciandolo nel calcio che conta e lui l’ha ripagato con numeri incredibili. Diciannove gol in trentatré partite a Foggia, sette in dodici presenze finora in terra abruzzese. Aggiungeteci anche una valanga di assist e tirate le somme.

Tanti giovani promettenti. Se anche solo tre o quattro diventassero giocatori di prim’ordine la nostra nazionale potrebbe arricchirsi in maniera veramente importante per i prossimi dieci anni. Alla faccia di chi dice che di talenti nel nostro calcio giovanile non ce ne sono.

Un uomo solo (era) al comando

Lo storico telecronista del ciclismo Ferretti amava aprire le sue telecronache con una frase: “Un uomo solo al comando, la sua maglia è biancoceleste, il suo nome è Fausto Coppi”. Già, perche Coppi volava ed era sempre solo, in positivo. All’Inter invece c’era un altro uomo solo al comando, purtroppo per lui, però.

Gian Piero Gasperini ha concluso la sua avventura sulla panchina interista senza gloria e con tanto rammarico da parte sua, galantuomo apparso subito inadatto ai colori nerazzurri. Senza esperienza in una grande si dirà, ma non soltanto quello. Vediamo cosa ha portato Moratti e compagni a puntare su di lui. Innanzitutto, c’è da premettere che evidentemente per allenare i nerazzurri ci vuole una persona smaliziata. Mourinho è il re in questo e di conseguenza si è rivelato perfetto, Benitez molto meno e difatti non ha avuto vita facile. Allo spagnolo non hanno lasciato tempo, del resto raccoglieva una eredità pesantissima (ma non dimentichiamoci che parliamo di un tecnico che portava con facilità il Liverpool in finale di Champions League, mentre ora i “reds” navigano in cattive acque) ed il suo gioco diverso da quello del portoghese non ha potuto far dimenticare ai tifosi lo “Special one”. Leonardo in pratica non ha fatto altro che riproporre quello che era il gioco della vecchia Inter di Mou.

Ora, cosa accade quest’estate? Semplice, in pochi vogliono prendersi la patata bollente ed a sedersi su una panchina già rovente è uno che era fra le seconde scelte (immaginate come si possa sentire la persona in questione) quindi già non ci siamo. Doveva andare al Napoli ma poi viene rispedito al mittente dopo il chiarimento fra Mazzarri e De Laurentiis (tanti i tifosi azzurri che hanno tirato un sospiro di sollievo). Il curriculum del Gasp però sembrava buono: giovanili alla Juventus (cosa poco gradita ai tifosi interisti) con un Torneo di Viareggio vinto, esordio col Crotone portato incredibilmente in Serie B e mantenuto poi in cadetteria per due anni. Approda al Genoa e riporta il “grifone” in Serie A, venendo confermato, lanciando Milito e meritandosi addirittura la “panchina d’oro”, premio assegnato al miglior allenatore dell’anno dai suoi colleghi. Diviene il primo allenatore della storia rossoblù a vincere tre derby consecutivi, ma poi il suo rapporto con la città ligure si interrompe con un esonero.

Ok, i presupposti per ritenerlo un buon allenatore di Serie A ci sono tutti. Da grande? Uhm, difficile. Innanzitutto per il suo gioco troppo alternativo per una Inter che non ha mai giocato con la difesa a tre. Un mercato strano, con partenze eccellenti come quella di Eto’o (che dice di credere nel progetto della sua nuova squadra russa, con venti milioni di buone ragioni all’anno) e conferme in extremis come quella di Sneijder, da subito apparso inadatto al suo modulo. Arriva Forlan, ma il sei agosto è già tempo di derby. Supercoppa Italiana, col Milan che capisce che in caso di vittoria non solo porta a casa il trofeo ma mette già sotto pressione una diretta concorrente allo scudetto. Segna proprio Sneijder, ma gioca fuori ruolo e quando i Campioni d’Italia cominciano a fare sul serio sono dolori: prima sconfitta e primi mugugni. La difesa non convince ed un mese dopo a Palermo all’esordio in campionato è tragicomica: quattro reti rosanero e i mugugni diventano proteste. Contro il Trabzonspor, squadra turca dal nome impronunciabile, arriva uno stop casalingo in Champions che ha del ridicolo, con incredibili gol falliti (a tradirlo proprio il “suo” Milito) e nessuna scusa: con una team del genere non puoi perdere nemmeno se giochi in otto. Uno zero a zero con la Roma lo porta sul baratro ed un ko con il Novara (che mancava in A da oltre mezzo secolo) è davvero troppo.

Di chi sono le colpe? Di tutti. Della società, che ha dimostrato inadeguatezza nella scelta sia facendolo sentire da subito un ripiego sia nel non capire cosa veramente servisse. Dei giocatori, con alcuni senatori che hanno remato contro forse (lo scopriremo a breve) ma che sicuramente non si sono dannati l’anima. Del tecnico, perchè troppe scelte sono apparse veramente assurde, ma dettate dalla mente di qualcuno che si sente veramente, ma veramente solo. Fin dall’inizio, contro tutti. Per reggere ci vogliono qualità che Gasperini al momento non ha (magari le avrà in futuro), ma una cosa è sicura: questa storia è cominciata male, è proseguita peggio ed è finita…bah, diciamo solo che è finita.

E adesso? Adesso c’è Ranieri, l’uomo perfetto per l’Inter di oggi. Ai nerazzurri serve tranquillità e l’ex-tecnico di Roma e Juventus porta esattamente quello. Purtroppo nulla di più, visto che è stato battezzato “l’eterno secondo”, ma i presupposti per risalire la china ci sono tutti. Innanzitutto sono arrivate subito due vittorie a risollevare campionato e coppa, poi lo stile di gioco più consono alle caratteristiche dei giocatori ed ultimo ma non ultimo…i giocatori stessi. Perchè a quanto pare Ranieri è al comando, ma a differenza del suo predecessore non è… solo.

…ma non chiamatelo "sciopero"

Per sciopero si intende l’astensione collettiva dal lavoro di lavoratori dipendenti allo scopo di rivendicare diritti, per motivi salariali, per protesta o per solidarietà. Il salario o stipendio che viene detratto è proporzionale alla sospensione lavorativa. Ecco. Qui casca l’asino. Nessun calciatore prenderà un euro in meno. La prima giornata di campionato verrà recuperata, quindi il “danno” ai tifosi è tutto sommato relativo (la mancanza di calcio non è certo un problema, magari chi è tornato prima dalle ferie però non sarà stato contentissimo, anche se ragioni solo in ottica pallonara le tue responsabilità te le devi prendere eccome), ma soprattutto se la “giornata lavorativa” viene solo rimandata. Ma allora che sciopero è? Negli ultimi giorni si è detto tanto sui calciatori viziati, coccolati e superpagati ed effettivamente se si pensa alla loro condizione ed a quella degli operai di Pomigliano è impossibile non storcere il naso. Più semplicemente sarebbe bastato non definirlo sciopero, perchè tale non è, e soprattutto non ci sarebbe stato il delittuoso atto di tirare in ballo quello che lavorano senza percepire stipendi da nababbo. Ora però bisogna cercare di fare un po’ di ordine e capire meglio quali sono le parti in causa e quali sono le questioni spinose.

C’è innanzitutto l’Associazione Italiana Calciatori, della quale è l’ex-romanista Damiano Tommasi il volto rappresentante. C’è poi la Lega Calcio (Beretta) ed infine quello che dovrebbe essere l’organo più importante, ovvero la Federazione Italiana Gioco Calcio (Abete). L’ Aic è una sorta di sindacato dei calciatori, che vuole tutelare i diritti di quest’ultimi e protesta contro gli articoli 4 e 7 del contratto collettivo (a dirla tutta il 7 è quello più importante). La Lega è invece un organo che per anni ha gestito il campionato di Serie A, nato nel 1946 in pieno periodo post-bellico e che è stato fortemente voluto dai presidenti delle cosiddette “grandi” del calcio italiano, portandosi appresso una serie di polemiche roventi: nell’agosto del 1958 il presidente del CONI, Giulio Onesti, accusò gli allora presidenti di Inter (Angelo Moratti), Juventus (Umberto Agnelli), e Milan (Andrea Rizzoli), di spendere troppo per il calcio. La Lega subì di conseguenza un periodo di caos che sfociò nel commissariamento, terminato il quale l’allora commissario Pasquale venne eletto dai membri come Presidente (senza dimenticare il meraviglioso conflitto di interessi legato a Galliani, che era contemporaneamente a capo della Lega e del Milan). Per quanto riguarda la Figc sembra davvero essere un elemento marginale, con i presidenti che vogliono “far fuori” Abete ed avere sempre più potere (purtroppo ci stanno riuscendo appieno).

Torniamo allo “sciopero”. C’è stato anche in Spagna, si dirà, ma lì la situazione è diversa in quanto ci sono giocatori che da un anno e mezzo non sono pagati, visto che molti presidenti fanno contratti pur sapendo di non poterli poi onorare (alla faccia del fair-play finanziario) quindi focalizziamoci sull’articolo 7. Premettiamo per dover di cronaca che l’articolo 4 in breve vede i calciatori contrari a pagare di tasca propria il contributo di solidarietà che potrebbe (condizionale d’obbligo) essere inserito nella prossima finanziaria: questo perchè il loro guadagno è a netto delle tasse come previsto dal contratto, ma la situazione è di difficile interpretazione. Molto più chiaro l’articolo 7, che recita: “in ogni caso il calciatore ha il diritto di partecipare agli allenamenti e alla preparazione pre-campionato con la prima squadra salvo l’esclusione per motivi disciplinari”. Bisogna dire subito che è un articolo che risale agli anni ottanta, quando si avevano in squadra si e no venti-ventidue giocatori, non quaranta come oggi, e che quindi va rivisitato. Altrettanto palese però è che su questo ci sguazzano molti presidenti, che usano questo mezzuccio per mettere alcuni atleti con le spalle al muro (ricorderete il caso di Pandev alla Lazio o quello di Marchetti al Cagliari). Facciamo un esempio: un calciatore viene pagato a peso d’oro e firma un contratto oneroso, ma si rivela assai al di sotto delle aspettative, cosa accade? Il club sa bene che dovrà comunque pagare lo stipendio dopo aver già buttato i soldi per il cartellino e dunque tenta la strada subdola, cercando di fargli una sorta di mobbing (tribuna perpetua, entrata in campo a trenta secondi dalla fine sperando in un “vaffa” all’allenatore) per metterlo fuori rosa per motivi disciplinari riducendogli al minimo lo stipendio (e se chiede di essere ceduto ancora meglio).

Ecco il punto. Non stupisca che fra i più convinti a volere la “giornata saltata” ci sono i presidenti che più di tutti hanno acquistato giocatori e si ritrovano con rose elefantiache. Quindi calciatori viziati sicuramente, ma non ci si dimentichi chi li ha resi tali. Non soltanto dirigenti e presidenti (che hanno una fetta di colpa non indifferente) ma anche i semplici tifosi drogati di pallone, che non riusciranno mai a ribellarsi mandando il mondo pallonaro definitivamente a quel paese. Bando ai pregiudizi dunque. Meglio non fasciarsi la testa prima di essersela rotta. Insomma ognuno la prenda con filosofia, però per favore, non chiamatelo “sciopero”.

C'era una volta in Sudamerica

Nel film cult “L’allenatore nel pallone” che ha consacrato per sempre Lino Banfi c’è una scena spassosa: Oronzo Canà ed Andrea Bergonzoni (interpretato da Andrea Roncato) partono per il Brasile dietro ordine del presidente della Longobarda Borlotti (Camillo Milli) che vuole un pezzo da novanta. Grazie all’occhio attento di Giginho (Gigi Sammarchi), venditore di bibite che si spaccia per agente di calcio, riescono a portare in Italia Aristoteles (Urs Althaus) che sarà decisivo per salvare la squadra. A tuttoggi si continua a pescare campioni in terra sudamericana, perchè il continente continua a sfornare grandi talenti, ma c’è una precisazione da fare. Il calcio sudamericano sta fallendo decisamente.

I singoli giocatori sono grandi campioni, ma quando giocano assieme in nazionale toppano clamorosamente. Tanti i segnali. Tanto per fare un esempio chiacchierato in questi giorni, non ci si spiega perchè Messi col Barcellona segni a profusione e con la “albiceleste” faccia una grande fatica. Il mondiale scorso è stato un calvario per lui, ed anche nel 2006 andò male (solo un gol nella vendemmiata con la Costa d’Avorio). In Coppa America altrettante delusioni, sia nell’edizione 2007 che in quella attualmente in corso (spero vivamente che la “pulga” possa smentire tutti portando la sua squadra al trionfo). Centodiciannove gol in centosettantasette partite coi “blaugrana”, ma in nazionale questi numeri sono chimere. Non ha al suo fianco gente come Xavi, Iniesta e la perfetta macchina che è diventato il Barcellona, ed evidentemente ciò evidenzia ancora di più che il modo di giocare influenza chiunque.

Ma non è solo guardando i singoli. Nelle ultime due edizioni della Coppa del Mondo solo una squadra sudamericana è arrivata in semifinale: l’Uruguay l’anno scorso, che ha battuto negli ottavi la mediocre Corea del Sud e nei quarti il Ghana (e se Asamoah Gyan non avesse calciato alle stelle il rigore all’ultimo minuto…). Fallimenti totali per Argentina e Brasile. Nel 2006 fuori ai quarti contro Germania e Francia (desolante il gioco carioca) punite poi da noi nella corsa che ha portato Cannavaro ad alzare la coppa, mentre nel 2010 i tedeschi hanno dato una lezione di calcio alla squadra di Maradona, così come è bastata una solida Olanda ed un grande Snejider per mandare a casa Kakà, Robinho, Maicon, Lucio e chi più ne ha più ne metta.

A livello di squadre di club meglio stendere un velo pietoso. L‘Internacional de Porto Alegre, squadra che aveva vinto la Coppa Libertadores e rappresentava il continente al Mondiale per Club è stata eliminata dal Mazembe (probabilmente al posto dell’Inter quel trofeo lo avrebbe vinto anche il Lecce di Gigi De Canio), squadre storiche come il Flamengo sono diventate cliniche di recupero per scarti del nostro campionato (vedi Adriano e Ronaldinho) ed altre addirittra retrocedono per la prima volta nonostante dei presunti supercampioni (Lamela ed il suo River Plate). Ora la attuale Coppa America, che prometteva spettacolo e divertimento. Purtroppo però di quel calcio stellare ci sono rimasti solamente gli spot della televisione satellitare Sky, che pubblicizza il proprio prodotto.

Sarà divertente il “joga bonito“, sarà elettrizzante l’idea di un tridente con Messi, Tevez ed Aguero, sarà anche interessante credere che i campioni del nostro campionato come Cavani e Sanchez possano ripetere le loro gesta in nazionale. Purtroppo però per vincere al giorno d’oggi serve altro. Tutte le squadre hanno disciplina tattica, quindi o entri in campo schierato in maniera seria o le finali dei mondiali le vedrai solo in televisione. Specie se sei in Sudamerica.

 

Santa Maradona: la sregolatezza pura mi esalta

Torino. Andrea, Bart, Lucia e Dolores: giovani, carini e disoccupati. Basterebbero queste tre parole per riassumere in breve il senso e la trama di questo lavoro, uno scorcio di vita in una città non più tetra e satanica – come la tradizione vuole – ma che, anche se solare e pulita, respinge in ogni modo i suoi figli. Andrea è quello che le prova tutte per avere un posto di lavoro degno della sua laurea in lettere ma senza fortuna; Bart invece, è sempre davanti alla televisione al limite dello stress; i due sono amici e dividono lo stesso appartamento, in costante gara fra loro a chi racconta cazzate sempre più stupide e inutili. Lucia, indiana, è a un esame dalla laurea mentre Dolores è il compromesso lavorativo della quale Andrea s’innamora. Il lavoro come nuova maledizione che si abbatte su questa città, la Juventus come squadra vincente, il compromesso come tradimento. Saltando da un colloquio di lavoro all’altro, Andrea si innamora perdutamente di Dolores contro la quale sbatte un pomeriggio mentre si precipita correndo a un appuntamento con l’ennesimo direttore del personale. Una storia d’amore improvvisa e appassionata che paradossalmente sarà d’aiuto a tutti i protagonisti, spingendoli a ritentare il salto: inventarsi un nuovo futuro e cambiare tutto ciò che non piace.

Cosa significa il titolo ce lo spiega il regista : “Santa Maradona è una canzone di Manu Chao del 1994, che – compresa la tournée ancora in corso – il cantante franco-spagnolo utilizza per chiudere i suoi concerti. In questa canzone si mescolano cori da stadio, telecronache, musica punk: un modo di rendere epico il mondo del pallone. Maradona diventa un santo protettore che vegliava sugli italiani e che ora non c’è più. Gli hanno aggiunto Santa come per metterlo sul calendario. Nel film c’è questa stessa commistione di elementi: commedia, azione, dramma, cartoni animati, musica, e naturalmente calcio. E un’analoga voglia di rendere epico il quotidiano: due persone che parlano, il volto di una persona che si ama, le chiacchiere quotidiane.”

Ma l’avventura dei quattro avanza rapidamente tra battute salaci e divertenti, fino alla discussione urlata tra Andrea e Bart, che si vomitano addosso verità dure e drammaticamente dolorose.

Questo dialogo serrato è uno scatto ben preciso delle paure, delle insicurezze, dell’insoddisfazione che ci spinge a cercare qualcosa di meglio. Per quelli che dell’aperitivo in centro alle sei, della passeggiata al parco e del cinema la domenica pomeriggio si sono rotti i coglioni. Perché a volte siamo tormentati dal desiderio perenne di cose lontane, dalla ricerca di un altrove che non conosciamo, dalla volontà di fare qualcosa convinti che si possa cambiare e fare meglio.

Perché spesso ci troviamo risucchiati da un vortice, da quel movimento continuo da cui non riusciamo a uscire. E ci rende insoddisfatti, scalpitanti e desiderosi di abbandonare il vecchio per la ricerca di un altrove. Sullo sfondo, una Torino che è sinonimo di sicurezza, continuità e impegno garantiti dalla fabbrica. Con il rischio di perdere la percezione di sé, delle proprie idee e della propria personalità. Perché diciamolo: molti di noi hanno giurato “Non farò mai la fine dei miei genitori”.

Non perché disprezziamo le loro scelte ma pensiamo di volere altro con tempi, modi, ritmi diversi. Cosa sia poi questo altro è da definire.

Ma spesso ci lasciamo travolgere da meccanismi in cui non ci riconosciamo e viviamo come se fossimo distaccati da noi stessi, per inerzia o abitudine. Università, lavoro, amici di sempre, partite di calcetto e magari il grande amore. Accontentarsi? O forse è la normalità la vera rivoluzione?

Andrea Masi: il Re del Sei Nazioni

Voglio iniziare questo articolo facendovi un nome: Andrea Masi. Molti di voi probabilmente neanche immaginano lontanamente di chi stiamo parlando. I più spavaldi crederanno che sia un parente proveniente da qualche ramo dell’albero genealogico del direttore generale della Rai, qualcun altro, che magari ha frequentato la mia stessa università, crederà che si tratti dell’omonimo professore. Invece devo stupirvi tutti, o quasi, perché sto parlando dell’estremo della nazionale italiana di rugby. Masi è stato eletto miglior giocatore del torneo Sei Nazioni 2011. Un successo davvero inimmaginabile per lui. Non solo perché ha giocato soltanto due delle cinque partite della nazionale italiana, ma perché l’Italia si è classificata ultima nel torneo, portandosi a casa l’ennesimo “cucchiaio di legno”, un’istituzione nel Sei Nazioni. Il cucchiaio di legno, curiosamente, nasce da una tradizione ereditata dagli studenti di Cambridge, i quali erano soliti regalare un cucchiaio di legno in segno di scherno e derisione ai compagni di corso che prendevano i voti più bassi agli esami.

Il giocatore aquilano della nazionale azzurra e del Racing Metro, squadra della periferia di Parigi, è il primo rugbista italiano a ricevere il prestigioso riconoscimento da quando la nostra nazione partecipa alla competizione, cioè dal 2000. Masi, che ha esordito in nazionale a soli 19 anni, ha ricevuto il premio a Parigi presso la club-house del proprio club di appartenenza. Ha ottenuto più del 30% dei voti totali dei tifosi di rugby che hanno seguito la manifestazione e che sono rimasti, evidentemente, piacevolmente colpiti dalle due prestazioni del nostro azzurro.

Fino a qualche anno fa se mi avessero parlato del rugby mi sarei messo a ridere, non comprendendo neanche la differenza dal football. Vi assicuro che non vi sto prendendo in giro se vi dico che qualcuno tutt’oggi crede che l’unica differenza tra i due sport sia data dal fatto che nel football si gioca con i caschi e con l’”armatura”, mentre nel rugby senza. Oppure, non mi stupirei, perché qualcuno ha avuto il coraggio di affermare anche questo, cioè che la differenza sta nel fatto che il football si gioca negli Stati Uniti, il rugby in Europa. Cose dell’altro mondo.

Ho avuto il piacere di conoscere un mio coetaneo, amante del rugby e non ci ho messo molto ad appassionarmene. Certo, non è molto intuitivo come sport, richiede una conoscenza approfondita delle regole anche soltanto per riuscire a seguirne una partita. Tutto questo sempre che non vi limitiate a riconoscere una meta, piuttosto che un “calcio”. La cosa che più di tutte, da amante del calcio (ahimé!), mi ha subito affascinato è che per quante botte possano prendere, i giocatori di rugby restano sempre in piedi, se crollano in terra sanguinanti non chiedono i soccorsi e non interrompono mai il gioco. Utopia pura per i calciatori. Le differenze sportive ma soprattutto “etiche” tra i due sport sono infinite, al punto tale che non vale neanche la pena elencarle. Per oggi ci limitiamo a segnalare una vittoria per il nostro sport, quella di Andrea Masi, e un ultimo posto non poi così tragico dato che la nostra unica vittoria è avvenuta proprio contro i nostri cugini d’oltralpe francesi. Bravo Masi, e adesso terzo tempo e birra per tutti.

Il grande traditore (a detta dei tifosi)

Sabato alle ore 20.45 si gioca il derby di Milano. Milan contro Inter, per un match che può valere una stagione visto che le due squadre sono separate solamente da due punti in classifica. Ogni stracittadina è bella, perchè in quel momento che i tifosi tirano fuori il meglio (ed a volte purtroppo il peggio) di loro, con la tagliente ironia che solo un derby è in grado di generare. Le coreografie sono un “cult” in partite del genere, con degli sfottò che a volte sono veramente da applausi, ma che rimangono segretissime fino a qualche minuto prima. Un giornale sportivo (“Tuttosport”) ha però anticipato quella che dovrebbe essere la coreografia della curva Sud, quella degli ultrà milanisti, e che ci porta al nocciolo della questione. La suddetta coreografia dovrebbe avere proprio il tradimento di Leonardo come tema principale, verosimilmente si andrà più sull’ironia che sull’insulto (ma non sono escluse iniziative personali più pesanti) andando a toccare il “cuore” , organo molto spesso citato dall’allenatore per spiegare partite e atteggiamento in campo.

Ora, sul fatto che Leonardo abbia fatto bene o meno ad andare all’Inter se ne è parlato tantissimo. Personalmente non lo ritengo certo “colpevole”, visto che nel calcio si parla comunque di squadre-azienda (non credo che se uno passi dalla Toyota alla Honda venga etichettato come “traditore”) e soprattutto non ha infranto promesse e cose del genere, ma è comprensibile la rabbia del popolo rossonero. La cosa però ci fornisce un interessante spunto per parlare di quelli che sono considerati i grandi “traditori” del mondo pallonaro.

Lionello Manfredonia

Il popolare giornale spagnolo “Marca” ha pubblicato tempo fa una lista con i venti più grandi “tradimenti”, piazzando al primo posto Luis Figo, trasferitosi dal Barcellona al Real Madrid, ed accolto con lancio di oggetti (fra cui una testa mozzata di maiale) al suo ritorno da avversario al “Camp Nou”. C’è al secondo posto Roberto Baggio, per un “passaggio” che i tifosi fiorentini non dimenticheranno mai: dalla squadra gigliata all’odiatissima Juventus. Ce ne sono tanti altri, come Sol Campbell (dal Tottenham all’Arsenal), Romario (dal Flamengo al Fluminense) e Hugo Sanchez (dall’Atletico al Real, a Madrid ovviamente). Del nostro calcio ci sono altri due giocatori in classifica, ovvero Serena e Tardelli, ma mancano alcuni dei più recenti.

Senza scomodare Lionello Manfredonia, che causò addirittura una spaccatura nella curva della Roma e la formazione del G.A.M. (Gruppo Anti-Manfredonia) per il suo passato laziale, si possono citare i vari cambiamenti di sponda sempre in quel di Milano (Ibra e Ronaldo, mai perdonati dai nerazzurri). Ma ogni squadra ha il suo ex mai dimenticato e per questo mal digerito con un’altra casacca. Ci sarà sempre qualcuno accolto malissimo al suo ritorno allo stadio che lo ha consacrato, che verrà chiamato “ingrato”, “traditore” (ovviamente usando solo parole non volgari, eheh). Accadrà sempre. Parliamo però di una questione comunque interessante. Quindi dite la vostra: qual’è stato per voi il più grande “tradimento calcistico” della storia?