Un altro mattone d'Europa che cade: addio all'Erasmus

Non è difficile prevedere che la Crisi (tanto vale ormai scriverla con la maiuscola) rappresenterà negli anni a venire una triste pietra miliare per un’intera generazione, che si è vista scippata di numerosi diritti e agevolazioni ormai considerati acquisiti e che, al contrario, saltano a uno a uno come birilli. È di pochi giorni fa l’annuncio della prossima probabile dipartita di uno di questi.

Sicuramente la prospettiva della scomparsa del progetto Erasmus non fa vacillare la visione del proprio futuro come la mancanza del lavoro, il progressivo sgretolamento dei diritti sociali o il sempre più pallido miraggio della pensione, tuttavia allibisce la trascuratezza con cui si decide di non rifinanziare uno dei fiori all’occhiello del sistema educativo europeo, pur con tutti i suoi difetti. Venticinque anni di Erasmus corrispondono a più di un’intera generazione di persone che hanno sperimentato la sensazione di appartenere a un’entità più grande del loro paese di origine. Per questa marea di persone l’Europa significa qualcosa di più che una suddivisione geografica. Sarebbe interessante portare alla luce il loro punto di vista sul rischio di assistere alla frantumazione di questa idea di Europa che le politiche messe in atto in nome della Crisi stanno causando.

Non si tratta “soltanto” di rinunciare al principale strumento di costruzione del tanto decantato spirito europeo: l’Erasmus rappresenta (ci sia almeno permesso di parlarne ancora al presente) l’opportunità di togliersi per la prima volta le mani dalle tasche e mettersi alla prova. Di rendersi conto che non bastano l’interrail o il villaggio vacanze per dire di aver viaggiato. Di imparare che non di sola pasta vive l’uomo. Di sperimentare sulla propria pelle cosa vuol dire mettersi in fila per conquistare la tessera sanitaria. Di pensarci due volte prima di trattare qualcuno da “straniero”. Di ridere in faccia a chi ti ripete che “moglie e buoi dei paesi tuoi”. Di capire, finalmente, cosa vuol dire essere italiano senza più quel fardello di provincialismo addosso. E magari, una volta tornati (o no?), di guardare con occhi diversi i luoghi e le abitudini di casa propria, consapevoli che l’orizzonte è più ampio di quanto sembri.

Se davvero il progetto Erasmus sta esalando i suoi ultimi respiri, la perdita sarà forse quasi indolore, una puntura fra tante coltellate, ma affatto innocua. Non resterà che confidare nella lungimiranza di chi, potendo farlo, preferirà rinunciare alla macchina o alle vacanze per “autofinanziarsi” l’Erasmus e partire per un anno. Purtroppo, come sempre, a rimetterci saranno quelli che non potranno e resteranno a casa a sognare. Alla faccia della meritocrazia e dell’uguaglianza.

P.S.: chi scrive ci tiene a precisare che non ha, purtroppo, “fatto l’Erasmus” ma vive all’estero (in luoghi diversi) da più o meno cinque anni.

Economia: la scienza intoccabile.

“L’inflazione che caccia nelle mani dell’individuo in un gesto solo miliardi di marchi lasciandolo più miserabile di prima dimostra punto per punto che il denaro è un’allucinazione collettiva”.

M. Sgalambro, dal brano “23 coppie di cromosomi” di F. Battiato.

 

Anche chi non si è mai occupato di economia si trova costretto, di questi tempi, a ragionare su questa scienza che, nonostante le apparenze, della scienza ormai sembra avere poco. L’economia – da “oikos”, casa e “nomos”, legge, ovvero “le regole della gestione dei beni di casa” – con il tempo sembra aver perso gradualmente il suo carattere pragmatico per assumere sempre maggiori qualità astratte. Nell’ancor più misterioso mondo della finanza, sua propaggine,  il denaro si assottiglia, diventa invisibile, si trasferisce in tempo reale, cambia il proprio valore di giorno in giorno seguendo logiche arcane e mappe illeggibili fatte di grafici e sinusoidi. I sensibili mercati tremano a ogni brezza esprimendosi in una lingua fatta di acronimi. Leggere i dati è complicato come interpretare  gli intricati schemi astrologici atti a determinare il fato di un individuo. L’analisi si assimila alla profezia.

Noi che non siamo economisti non possiamo comprenderne le dinamiche. Servono degli intermediari che ci spieghino come stanno le cose. Che ci dicano cosa è giusto e cosa non è giusto fare. Che ribadiscano come, in un mondo globalizzato, la strada intrapresa sia l’unica possibile.

Il fatto è che, a quanto pare, esistono diverse teorie e sistemi economici. Non vi è un solo modo di amministrare i beni di un paese. Ma oramai viviamo in un’Europa dove l’unica voce ammessa è quella della UE. Scritti che dicono altro divengono apocrifi, chi produce un pensiero diverso è un eretico. Nei talk show le teorie avverse vengono descritte come rischiose, se non pericolose o utopiche. Dal punto di vista di chi crede nell’attuale modus operandi, si tratta di  teorie che hanno perso la loro battaglia per concorrere alla guida dei mercati e sono ormai relegate nell’ambito dei saperi strampalati, come tante cose a questo mondo. Da tempo la palma della vittoria è in mano al “neoliberismo”, un sistema che è alla base del nostro attuale assetto economico e che non ammette, a quanto pare, concorrenti.

Nessun riscontro reale sembra chiamare questi difensori del sogno europeo a considerare un aggiustamento di rotta, un adattamento o qualcosa che esca dai binari di ciò che loro credono, con o senza malizia, essere la via.

È come se ormai la pratica non sia più la base per stabilire la bontà di una teoria, bensì l’inverso: la teoria viene per prima e la sua applicazione serve per confermarla. E se ciò produce contraddizioni e problemi, pazienza. Impossibile tornare indietro. Non si può gettare al vento ciò per cui si è tanto lavorato e studiato. E non vogliamo essere screditati né messi da parte. Dopotutto è divertente non essere l’oggetto delle reali conseguenze di scelte astratte.

A mio parere noi, comuni cittadini, stiamo tentando di spiegarci attraverso calcoli qualcosa che non ricade del tutto nella matematica. Trattare la questione attraverso la scienza dei numeri non è sufficiente. Forse sarebbe più soddisfacente guardare al tutto come a qualsiasi opera umana, prendendo in considerazione elementi meno “aritmetici” come l’avidità, il tornaconto personale, il cinismo, il bigottismo e secoli di storia.

Basti pensare che questi intermediari europei vengono chiamati a sedare una creatura di cui loro stessi, o i loro mentori, sono stati creatori. Sempre che sia loro interesse porre rimedio.  Mi chiedo se questa per cui stanno combattendo sia anche la mia visione del futuro. O la tua, la nostra. Beh, comunque sia non ha importanza, poiché né tu né io abbiamo voce in capitolo.

È sotto gli occhi di tutti infatti che se non siamo ricchi, laureati in una qualche prestigiosa università, magari statunitense, e non abbiamo le conoscenze giuste, non decidiamo nulla per quanto riguarda le politiche europee. Nessuno ci ha chiesto un parere sulla firma dei trattati. E se abbiamo risposto di no ci hanno posto la domanda una seconda volta, perché probabilmente eravamo distratti. In generale, comunque, non sono cose che ci riguardano. Che scocciatura, il popolo!

Chi non accetta questa situazione (perché c’è anche chi la accetta, bontà sua), non dovrebbe farsi prendere dallo scoramento. Servono idee, immaginazione e sistemi capaci di creare una maggiore equità e serenità. Come mille volte è stato detto, l’ideogramma cinese per “crisi” nasconde la parola “punto cruciale” (più che “opportunità”, come spesso viene detto). Significa che si aprono diverse strade. Può darsi che siano necessari grandi sforzi. Può darsi che il castello diventi pericolante e basti un nostro soffio. Il futuro ci darà il suo responso (credo molto presto, visto il ritmo precipitoso a cui cambiano oggi le cose). E chissà che questo nostro affanno non serva a produrre un domani migliore.

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Essere donna nel mondo

Oggi è l’8 marzo. Del 2012.

In Afghanistan il 90% delle donne è analfabeta e viene quotidianamente privato dei più elementari diritti. Violenza domestica, abusi, rapimenti, matrimoni forzati, stupri ed esclusione dalla vita pubblica sono all’ordine del giorno. Una condizione che determina un’allarmante crescita dei suicidi fra le ragazze. (Fonte: www.rawa.org).

Un proverbio dell’Arabia Saudita recita “Una ragazza non possiede altro che il suo velo e la sua tomba”; in un territorio in cui le donne non possono andare in bicicletta nelle strade pubbliche né guidare un’automobile. In uno stato dove la “Commissione per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio” – ovvero la polizia religiosa che controlla il rispetto delle norme della Sharia – ha il diritto di decidere l’abbigliamento di una donna e persino di ordinarle di coprirsi gli occhi qualora risultassero troppo sensuali. (fonte).

In Brasile l’organizzazione CFEMEA denuncia che ogni 15 secondi una donna è vittima di un’aggressione, e in Nicaragua, tra il 1998 e il 2008, sono stati denunciati oltre 14.000 casi di violenza sessuale, due terzi dei quali ai danni di ragazze che avevano meno di 17 anni, dove i carnefici sono perlopiù familiari o conoscenti. (Fonte: www.amnesty.it). Nell’intera America Latina inoltre, circa 5 milioni di donne sono oggetto di tratta nei fiorenti mercati intra-regionali per il commercio di persone. (Fonte: www.deltanews.net).

In Senegal migliaia di donne subiscono la mutilazione genitale femminile; la mortalità materno-infantile è altissima e circa il 70% delle studentesse abbandonano la scuola a causa di maternità e matrimoni precoci (Fonte: http://www.cospe.org).

La tradizionale pratica della mutilazione genitale femminile viene infatti praticata in 28 paesi dell’Africa sub-sahariana, ledendo fortemente la salute psichica e fisica di coloro che la subiscono: circa 130 milioni di donne nel mondo, con 3 milioni di bambine a rischio ogni anno secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità. (Fonte: http://www.wikipedia.org).

Nel libro “Schiave”, di Anna Pozzi, viene poi denunciata la tratta di donne provenienti soprattutto dall’Africa sub-sahariana, destinate a incrementare un traffico di prostituzione che ogni anno, secondo le Nazioni Unite, frutta alle organizzazioni criminali circa 32 miliardi di dollari. Giovani strappate alle loro famiglie e costrette a prostituirsi dietro la minaccia di violenze fisiche e psicologiche.

In Europa una donna su quattro è vittima di violenze (fonte), mentre in Italia una recente sentenza ha riconosciuto delle attenuanti a un uomo che aveva stuprato una ragazza minacciandola con un’ascia, in quanto la vittima “sapeva che l’uomo aveva un debole per lei”. In un paese in cui sono stati accertati 651 femminicidi in cinque anni, dal 2007 al 2011, di cui novantadue nei primi nove mesi dello scorso anno. (fonte).

Violenze e soprusi a cui si aggiungono le discriminazioni in ambito sociale e lavorativo. Considerando l’attività complessiva svolta dalle donne, si calcola che in Africa, Asia e America latina esse lavorino in media il 30% più degli uomini, senza che il loro lavoro sia proporzionalmente remunerato né riconosciuto nel suo reale valore. 
E anche nell’Unione Europea si calcola che le donne guadagnino in media, a parità di lavoro, un quarto meno degli uomini: in Grecia, il salario femminile è in media il 68% di quello maschile; in Olanda e Portogallo rispettivamente il 70,6% e il 71,7%; in Belgio, l’83,2%; in Svezia, l’87%. (fonte).

E si potrebbe continuare coi tassi d’occupazione femminile, la rappresentanza politica nei parlamenti, o anche solo accendere la tv e sbirciare un cartellone pubblicitario per rendersi ancora più conto di quanto sia importante oggi celebrare le donne e ricordarsi di quanta strada ci sia ancora da fare…

Un maschilismo latente che domina anche le grandi religioni monoteiste che hanno plasmato le culture a loro immagine e somiglianza. Dove la Bibbia recita “Poi disse alla donna: moltiplicherò le doglie delle tue gravidanze; partorirai i figli nel dolore, tuttavia ti sentirai attratta con ardore verso tuo marito, ed egli dominerà su di te” (Libro della Genesi – Gen 3, 16), mentre nella Sura IV del Corano, il versetto 34 afferma: “Gli uomini sono preposti alle donne, a causa della preferenza che Allah concede agli uni rispetto alle altre e perché spendono [per esse] i loro beni. Le [donne] virtuose sono le devote, che proteggono nel segreto quello che Allah ha preservato. Ammonite quelle di cui temete l’insubordinazione, lasciatele sole nei loro letti, battetele. Se poi vi obbediscono, non fate più nulla contro di esse”.

Giusto per ribadire come cambino i continenti, cambino le religioni e cambiano i tempi, mentre la complessità dell’essere donna rimane una triste costante del genere umano.

Un'Italiana a Bruxelles: il viaggio

Una coppia di giovani speranzosi, una Renault Clio del 2001 e un bagagliaio stracolmo di valige e scatole, dominato da una testa parlante di Darth Fener: totem di ricordi universitari e di una stravagante passione cinematografica.
Una lacrima interrotta e un abbraccio di saluto, per scappare da una quotidianità pagata a quattro soldi, fra pacche sulle spalle e bile nello stomaco.

1200 chilometri da percorrere e sei nazioni da attraversare, con un bagaglio di nostalgia e punti di domanda, diretti verso quell’Estero tanto invidiato. Alle spalle una città di ricordi e l’amicizia delle persone che l’hanno vissuta insieme a te.

Un viaggio da 16 ore, alla scoperta di quei piccoli particolari che i libri di geografia non ti raccontano.

In Svizzera un uomo in divisa ti ferma alla dogana e ti invita a scendere dall’auto per pagare 40 franchi di autostrada (poco meno di 40 euro), con una differenza restituita in spicciolini elvetici mai più riutilizzabili.

In Germania le autostrade non si pagano e la mancanza di limiti di velocità ti invoglierebbe a schiacciare il piede sull’acceleratore, se non fosse per i continui “baustelle” (lavori in corso) “umleitung” (deviazioni) di cui nemmeno gli impeccabili tedeschi riescono a fare a meno.

Una notte nel freddo campeggio della meravigliosa Friburgo e due pasti a base di wurstel e birra prima di ritrovarsi ai caselli autostradali francesi, dove il panico per la mancanza del ticket passa solo dopo aver scoperto che la tariffa è già prestabilita.

Neppure Lussemburgo e Belgio riescono a riportarti al vecchio motto “all’estero la benzina costa meno”, sebbene fare il pieno dopo aver chiesto a due passanti quale fosse il carburante giusto per la tua auto ti faccia provare sensazioni impareggiabili: tra gusto del rischio e cieca fiducia verso il prossimo.

Una coppia di italiani in terra straniera, in una Bruxelles meno fredda e piovosa del previsto, dove la prospettata internazionalità lascia invece ben poco spazio a coloro che non parlano francese e fiammingo. La capitale dell’Unione Europea in cui viene richiesto un interprete per iscriversi all’ufficio di collocamento, e dove scopri che non solo in Italia le persone manifestano una certa avversione per la lingua inglese.

Un’avventura appena cominciata e una pagina bianca da riempire, tra ansie, speranze e mille curiosità…

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C'era una volta in Sudamerica

Nel film cult “L’allenatore nel pallone” che ha consacrato per sempre Lino Banfi c’è una scena spassosa: Oronzo Canà ed Andrea Bergonzoni (interpretato da Andrea Roncato) partono per il Brasile dietro ordine del presidente della Longobarda Borlotti (Camillo Milli) che vuole un pezzo da novanta. Grazie all’occhio attento di Giginho (Gigi Sammarchi), venditore di bibite che si spaccia per agente di calcio, riescono a portare in Italia Aristoteles (Urs Althaus) che sarà decisivo per salvare la squadra. A tuttoggi si continua a pescare campioni in terra sudamericana, perchè il continente continua a sfornare grandi talenti, ma c’è una precisazione da fare. Il calcio sudamericano sta fallendo decisamente.

I singoli giocatori sono grandi campioni, ma quando giocano assieme in nazionale toppano clamorosamente. Tanti i segnali. Tanto per fare un esempio chiacchierato in questi giorni, non ci si spiega perchè Messi col Barcellona segni a profusione e con la “albiceleste” faccia una grande fatica. Il mondiale scorso è stato un calvario per lui, ed anche nel 2006 andò male (solo un gol nella vendemmiata con la Costa d’Avorio). In Coppa America altrettante delusioni, sia nell’edizione 2007 che in quella attualmente in corso (spero vivamente che la “pulga” possa smentire tutti portando la sua squadra al trionfo). Centodiciannove gol in centosettantasette partite coi “blaugrana”, ma in nazionale questi numeri sono chimere. Non ha al suo fianco gente come Xavi, Iniesta e la perfetta macchina che è diventato il Barcellona, ed evidentemente ciò evidenzia ancora di più che il modo di giocare influenza chiunque.

Ma non è solo guardando i singoli. Nelle ultime due edizioni della Coppa del Mondo solo una squadra sudamericana è arrivata in semifinale: l’Uruguay l’anno scorso, che ha battuto negli ottavi la mediocre Corea del Sud e nei quarti il Ghana (e se Asamoah Gyan non avesse calciato alle stelle il rigore all’ultimo minuto…). Fallimenti totali per Argentina e Brasile. Nel 2006 fuori ai quarti contro Germania e Francia (desolante il gioco carioca) punite poi da noi nella corsa che ha portato Cannavaro ad alzare la coppa, mentre nel 2010 i tedeschi hanno dato una lezione di calcio alla squadra di Maradona, così come è bastata una solida Olanda ed un grande Snejider per mandare a casa Kakà, Robinho, Maicon, Lucio e chi più ne ha più ne metta.

A livello di squadre di club meglio stendere un velo pietoso. L‘Internacional de Porto Alegre, squadra che aveva vinto la Coppa Libertadores e rappresentava il continente al Mondiale per Club è stata eliminata dal Mazembe (probabilmente al posto dell’Inter quel trofeo lo avrebbe vinto anche il Lecce di Gigi De Canio), squadre storiche come il Flamengo sono diventate cliniche di recupero per scarti del nostro campionato (vedi Adriano e Ronaldinho) ed altre addirittra retrocedono per la prima volta nonostante dei presunti supercampioni (Lamela ed il suo River Plate). Ora la attuale Coppa America, che prometteva spettacolo e divertimento. Purtroppo però di quel calcio stellare ci sono rimasti solamente gli spot della televisione satellitare Sky, che pubblicizza il proprio prodotto.

Sarà divertente il “joga bonito“, sarà elettrizzante l’idea di un tridente con Messi, Tevez ed Aguero, sarà anche interessante credere che i campioni del nostro campionato come Cavani e Sanchez possano ripetere le loro gesta in nazionale. Purtroppo però per vincere al giorno d’oggi serve altro. Tutte le squadre hanno disciplina tattica, quindi o entri in campo schierato in maniera seria o le finali dei mondiali le vedrai solo in televisione. Specie se sei in Sudamerica.

 

Immigrati: lo show

Bloccata dall’incapacità di risolvere il problema dell’immigrazione, la rappresentanza del Governo che nei giorni scorsi hanno fatto tante chiacchiere e pochi fatti si è recata oggi in quel di Lampedusa, guidata dall’Impreatore Maximo B in persona.

È stato un vero e proprio show, uno di quelli a cui ci ha abituato il miracolato e miracoloso Silvio negli scorsi anni. E così come per il problema dei rifiuti a Napoli (ancora oggi irrisolto), il copione si ripete, con l’annuncio della soluzione del problema nel giro di 48-60 ore, insieme a tutta una serie di butade pubblicitarie degne del peggior venditore di materassi in TV. Il Premier è arrivato a Lampedusa per fare quello che sa fare meglio, propaganda elettorale. D’altronde i risultati degli scorsi anni gli hanno sempre dato ragione, non ha senso cambiare il copione. E così vengono fatte le solite promesse, un piano per ri-valorizzare Lampedusa dal punto di vista turistico, sgravi fiscali (questi non mancano mai), per finire con l’annuncio della casa acquistata su Internet in nottata dal Premier in persona, cosicché possa sentirsi anche lui un “lampedusano”. Addirittura ha parlato di “premio Nobel per la pace a Lampedusa”. Incommentabile.

E gli immigrati? E i problemi di questi giorni? Quali sono le soluzioni? Chi lo sa. Vengono date indicazioni poco precise, basate soprattutto sulla strategia del rimpatrio forzato (“fora da i’ bal”, come dice Bossi) e di accordi con il nuovo governo tunisino per riaccettare in patria i clandestini fuggiti. Insomma, la strategia del nostro Governo, che finora è stata assolutamente fallace e  poco risolutiva sotto tutti i fronti, con l’Italia che insiste per essere aiutata dall’Europa, che annuncia la collaborazione di tutte le regioni italiane per aiutare l’isola di Lampedusa (finora solo la Puglia ha accolto circa mille profughi), che propone soluzioni aleatorie, si trova ad un punto morto. Senza considerare le condizioni in cui risiedono i poveri cittadini lampedusani, abbandonati al loro destino, con un’isola che non può sostenere gli arrivi di migliaia di profughi senza un’opportuno “scambio” con altri centri, magari in tutta Italia, e che si ritrovano oggi il Premier tirato a lucido che fa promesse su promesse, ma che non propone alcun fatto concreto, se non un ipotetico rimpatrio a breve di parte degli immigrati. E ora c’hanno pure un abitante in più, l’Imperatore Maximo in persona (amara ironia).

E non dimentichiamo i poveri migranti, clandestini, profughi, gente che ha sfidato il mare, che ha investito i risparmi di una vita per fuggire da una realtà che non vuole vivere, madri incinte, ragazzi di vent’anni che vogliono un futuro in una nazione libera, che si ritrovano in condizioni disumane in un centro d’accoglienza che è pieno ormai oltre cinque volte la sua capienza. È questo il massimo che l’Italia può fare? L’Italia, quello stesso popolo che subito dopo la seconda guerra mondiale emigrò in massa in tutto il mondo, quello stesso Paese che si è trovato con quattro milioni dei suoi abitanti imbarcati con l’iconica valigia di cartone legata con lo spago, nascosti nelle navi, diretti a Libery Island negli USA, alla ricerca di un futuro, di una possibilità, trattati come capi di bestiame. Cosa abbiamo imparato da questa lezione del passato? Assolutamente nulla, stiamo trattando delle persone, degli uomini e delle donne come un fastidio, qualcosa che sta invadendo e “sporcando” la nostra penisola. Nel 2011 ancora non siamo in grado di fare una politica atta all’integrazione, ad una società multiculturale, moderna, figlia di questo mondo che sta cambiando, che è già cambiato. Senza contare che tanti di questi profughi che arrivano in Italia lo fanno solo di passaggio, le loro mete sono altre, la Francia, la Germania e il resto d’Europa. Evidentemente anche loro lo sanno che qua da noi non è che si stia così tanto bene se cerchi di cambiare la tua vita e fuggire da una situazione opprimente.

È un problema complesso, che va analizzato sotto tanti punti di vista, senza sottovalutare il fattore del rischio criminalità, ma anche lo sfruttamento del mercato dell’emigrazione da parte di chissà quali organizzazioni criminali che mettono delle persone su delle bagnarole per migliaia di euro, senza garantire nulla. Se ti va bene, sarai trattato come una bestia, e verrai forse addirittura rimandato indietro. Questa è l’unica garanzia. Eppure queste persone ci provano lo stesso.

Questo dovrebbe farci capire quanto hanno bisogno di andare via dalle loro nazioni.

I problemi non si risolvono con le chiacchiere ed i proclami. Non facciamoci abbindolare.

E nel frattempo oggi a Roma si discute sul processo breve. Come dire, facciamo casino da un’altra parte, cosicché si distolga l’attenzione. Benvenuti in Italia.

Attaccateci e sarà l'inferno.

Con questa dichiarazione il leader libico Gheddafi ha risposto alla risoluzione decisa dell’ONU. Dopo giorni di colpevole ritardo (ne avevamo parlato nel recente articolo Ribaltone Libico), la comunità internazionale si è finalmente mossa sulla questione libica decidendo una “no-fly zone” per preservare le vite e la sicurezza dei civili.

La “no-fly zone” vieta tutti i voli nello spazio aereo della Libia che non siano voli umanitari, e autorizza i vari stati a intervenire – militarmente; con i caccia, insomma – per garantirne l’attuazione. Francia e Gran Bretagna sono in prima linea, e hanno già annunciato l’invio di caccia, così come il Canada. L’Italia per il momento non prende una posizione netta, ma dovrà mettere a disposizione delle forze Nato le proprie basi militari. L’Europa sembra comunque tutta unita sulla decisione di intervenire: anche Spagna, Belgio e Grecia hanno dato la loro adesione, adesione che crescerà sicuramente nelle prossime ore e nei prossimi giorni. Cosa accadrà a Gheddafi non è ancora dato saperlo (sebbene si prospettino per lui accuse di crimini contro l’umanità), ma sentendo le sue parole minacciose aumenta il sentimento di vergogna nel ricordare baciamani e circhi equestri.

La reazione del dittatore libico, come dicevamo, non si è fatta attendere. In un’intervista alla tv locale ha dichiarato candidamente: “Se il mondo è impazzito, diventeremo matti anche noi. Risponderemo. Trasformeremo la loro vita in un inferno” (via | Repubblica.it ) Minacce di un dittatore ormai alla canna del gas (ed è proprio il caso di dirlo, visti gli interessi energetici dell’Europa con la Libia). Il popolo in rivolta ha accolto la notizia dell’intervento internazionale con scene di giubilo, hanno visto nell'”occidente salvatore” la possibilità di una riscossa, visti i terribili scontri e le perdite dei giorni scorsi. Esclusa per il momento l’idea di un’occupazione militare diretta, la “no-fly zone” non è l’unico intervento deciso nei confronti della Libia: sanzioni economiche, l’embargo forzato e la chiusura pressoché totale dei canali diplomatici prospettano una situazione non certo florida per il regime.

Di sicuro sconvolgono le parole usate dal rais, quella minaccia (forse esagerata, forse no) ai paesi del Mediterraneo e all’occidente “impazzito” rende ancora più delicata la situazione. L’intervento necessario è però arrivato, e nei prossimi giorni finalmente capiremo cosa accadrà nella povera Libia, un paese ormai martoriato dalla guerra civile, dove sono morte centinaia di persone bombardate dal loro stesso leader sotto gli occhi di un’Europa attonita, quasi bloccata dagli interessi economici nella regione. Il popolo si augurava una rivolta lampo e un rovesciamento del regime come era accaduto in Tunisia e in Egitto. Purtroppo non è andata così.

Day 23 Mondiali di Calcio: l'Europa vince la coppa!

Trentadue anni. Tanto hanno aspettato gli olandesi per tornare a giocare una finale del mondiale. C’è un piccolo particolare però. La coppa non l’hanno mai vinta, ed in tutta onestà l’avrebbero meritato sia nel 1974 che nel 1978. L’Olanda sta disputando un ottimo mondiale, con sei vittorie in sei partite (ciliegina sulla torta il successo contro il Brasile) e con Sneijder e Robben che si giocano il Pallone d’Oro. Il successo sull’Uruguay (che dovrà accontentarsi della finale per il terzo posto) è una bella fotografia di quello che sono gli “orange”. Gioco veloce, magari non è il “calcio totale” che giocavano Cruijff e compagni, ma senza dubbio è un calcio piacevole e giocato con qualità ed intelligenza. Ripartenze rapidissime e improvvise conclusioni. Direi che è abbastanza per dire che è sacrosanto vedere la truppa di Bert van Marwijk giocarsi tutto domenica sera. Onore e merito però ai “charrua”, che hanno fatto sognare i loro connazionali, ripetendo quasi i fasti del 1950.

Forlan si conferma un bomber di livello internazionale e Suarez (eh quanto è mancato ai compagni) è giovane e può davvero fare come dice il mitico spot di Sportitalia, ovvero giocare nella Eredivisie per poi partire alla conquista del mondo. La semifinale è stata molto bella, ricca di reti e senza dubbio emozionante.

Ora tocca a Germania-Spagna, ma una cosa è già sicura ed onestamente mi piace sottolinearla: una squadra europea ha vinto il mondiale. Non era mai successo al di fuori del vecchio continente e finalmente si rompe anche l’altalena Europa-Sudamerica, visto che conquistiamo due mondiali consecutivi. Viva l’Europa!

SPECIALE CLASSICS – Wozzeck e Histoire du Soldat, opere di guerra.

Wozzeck di Alban Berg e Histoire du Soldate di Igor Stravinsky sono due opere-capolavoro per teatro in musica, scritte negli anni della grande guerra: la prima, composta negli anni 1917 -1921, fu messa in scena nel 1925; la seconda risale al 1918.

SFONDO STORICO CULTURALE DELL’EUROPA DEL XIX SECOLO

Fino allo scoppio della “grande guerra” l’Europa, a partire dal 1815 – data della sconfitta di Napoleone –  aveva trascorso un secolo di moti insurrezionali sulla scia delle nuove idee liberali della neonata repubblica francesce, specie in Italia. Ci fu un secolo di costanti e profondi mutamenti, dal punto di vista politico, culturale e del progresso economico. Si venne ad affermare la nuova potenza della Germania, ora al pari dei paesi leader nel mondo, dopo la prestigiosa vittoria nella guerra franco-prussiana. Nel corso dell’800 si sviluppò la società industriale, con la nascita della borghesia e della classe operaia. In Europa avvenne una grande espansione economica e demografica, un boom dei trasporti marittimi che favorì il neonato fenomeno del turismo. L’invenzione del telegrafo segnò un netto cambiamento nel campo delle comunicazioni. La scienza abbandonò l’illimitata fiducia nelle leggi e negli schemi costituiti in cui si era illusa di poter racchiudere l’infinita ricchezza dell’universo.  Con l’avvento delle equazioni di Maxwell, delle trasformazioni di Lorentz e infine della relatività di Einstein venne meno il concetto, fino ad allora dato per scontato, di tempo assoluto. Il tempo e lo spazio sono legati insieme a formare quello che viene chiamato spaziotempo. Nel 1896 Freud in un suo articolo parlò esplicitamente di “psicoanalisi” come metodo di ricerca e trattamento terapeutico nel settore della psicopatologia. Lo stesso Freud, dopo la prima guerra mondiale affermò l’impossibilità della fine delle guerre, in quanto l’aggressività, fondamento di ogni guerra, è radicata indissolubilmente nell’uomo.

Si ebbe mano a mano una percezione generalizzata del progressivo tramonto di un vecchio mondo. Di pari passo il crollo di strutture statali e di valori considerati immutabili favorì il sorgere di movimenti artistici e filosofici miranti alla piena giustificazione e spiegazione della nuova realtà.  L’atteggiamento dominante di molti letterati, poeti, drammaturghi, pittori, musicisti sembrò essere quello della rivolta al passato. La necessità degli artisti di sentirsi all’avanguardia divenne una dichiarata e programmatica volontà di modificare profondamente il contenuto culturale della tradizione. Fu un atteggiamento che senza dubbio ha la sua radice nel romanticismo ottocentesco. Ma mentre l’arte dell’ottocento aveva cercato costantemente un equilibrio tra il vecchio e il nuovo, tra i modelli tradizionali e la soggettività dell’individuo, una buona parte dell’arte del ‘900, invece, sancì l’annullamento dei modi espressivi correnti e abusati. Tuttavia ci fu chi reagì all’eccesso di radicalismo delle avanguardie evocando stilemi espressivi di una tradizione lontana o vicina, di valori acquisiti dal passato.

LA PRIMA GUERRA MONDIALE

In Europa, al fianco delle superpotenze secolari come Inghilterra e Francia, emerse la Germania. Nel giovane stato tedesco – inesperto in politica internazionale – si insinuò, in maniera del tutto particolare, l’idea che non si doveva mai smettere di crescere sul piano politico ed economico. Quest’ideologia, detta darwinismo sociale, decretò nei tedeschi non solo invidia e rabbia nei confronti degli stati nemici, ma sovvertì anche i motivi della guerra: una guerra non di offesa, come in effetti fu, ma di difesa dai vicini malvagi che ledevano le ambizioni espansionistiche della Germania.

La prima guerra mondiale (1914-1918) fu la prima guerra “totale” perché non impegnò solo gli eserciti ma la vita intera degli Stati nei suoi vari aspetti, politici, sociali, economici e persino culturali; fu guerra di massa: gli uomini al fronte, le donne in fabbrica. Si svolse in terra, in mare e, per la prima volta, in cielo, con l’impiego di armi mai prima usate (aerei, carri armati, sommergibili, gas asfissianti). Fu la prima “grande guerra”, combattuta fino all’esaurimento delle risorse dei belligeranti e si concluse con il crollo di quattro imperi; Austria-Ungheria, Germania, Russia, Turchia.
Le cause profonde che scatenarono il primo conflitto mondiale vanno ricercate innanzitutto nella crisi spirituale e culturale che, alla fine del XIX secolo, aveva provocato la decadenza dei valori tradizionali e la perdita della fiducia nella ragione e nelle idealità liberali e democratiche per lasciar posto a teorie che esaltavano il superuomo e la guerra come “selezione naturale” e  sola “igiene del mondo”.  A questa profonda crisi dello spirito vanno aggiunte le tensioni provocate dallo sviluppo del capitalismo, che aveva trasformato il nazionalismo del primo ’800 in imperialismo.

La guerra fu caratterizzata sul fronte occidentale da staticità: Francia e Inghilterra si scontrarono con la Germania per lunghi anni su posizioni di trincea, senza ottenere significative vittorie. La vita dei soldati lungo la linea di combattimento era un incubo: costretti a vivere nascosti, sporchi tra fango e topi, senza possibilità di lavarsi per settimane, sotto la minaccia costante del fuoco nemico. Assistiamo alla perdita di qualsiasi significato della vita umana, un’intera generazione è falcidiata. Le esperienze della guerra portarono a una sorta di trauma collettivo in tutte le nazioni partecipanti.

Pertanto l’ottimismo svanì quasi completamente e gli ex-combattenti iniziarono a esser conosciuti come la “Generazione Perduta” poiché non si ripresero mai completamente da quell’esperienza. Molti soldati furono affetti da  disturbo post-traumatico da stress, fenomeno ancora sconosciuto alla psicologia di allora.

In Francia moltissimi giovani erano stati uccisi o feriti durante il conflitto. Negli anni seguenti molte nazioni (fra cui anche l’Italia) vollero celebrare il proprio dolore per i tanti propri figli persi e migliaia di memoriali vennero eretti in molti centri grandi e piccoli d’Europa.

GRANDI STATISTICHE

VITTIME CIVILI – ALLEATI

▪       Belgio 30.000

▪       Regno Unito 30.000

▪       Romania    270.000

▪       Francia 40.000

▪       Russia     1.500.000

▪       Grecia 7.000

▪       Serbia     270.000

▪       Italia   50.000

Totale:             2.197.000


VITTIME CIVILI – IMPERI CENTRALI

▪       Austria-Ungheria 300.000

▪       Bulgaria 275.000

▪       Germania 750.000

▪       Turchia 2.000.000

Totale:                  3.325.000

Totale complessivo: 5.522.000 vittime

Nazione Mobilitati Morti Feriti Dispersi o prigionieri
– Imperi Centrali –
Impero austro-ungarico 7.800.000 1.200.000 3.620.000 2.220.000
Impero Germanico 11.000.000 1.773.700 4.216.058 1.152.800
Impero Ottomano 2.850.000 325.000 400.000 250.000
Bulgaria 1.200.000 87.500 152.390 27.029
– Intesa –
Belgio 267.000 13.716 44.686 34.659
Impero britannico 8.904.467 908.371 2.090.312 191.652
Francia 8.410.000 1.357.800 4.266.000 537.000
Grecia 230.000 5.000 21.000 1.000
Regno d’Italia 5.615.000 650.000 947.000 600.000
Giappone 800.000 300 907 3
Montenegro 50.000 3.000 10.000 7.000
Portogallo 100.000 7.222 13.751 12.318
Romania 750.000 335.706 120.000 80.000
Impero russo (fino al 1917) 12.000.000 1.700.000 4.950.000 2.500.000
Serbia 707.343 45.000 133.148 152.958
Stati Uniti 4.355.000 126.000 234.300 4.500
Totale 65.018.810 8.678.013 21.187.715 7.687.798

WOZZECK

Il Wozzeck di Berg è il capolavoro della seconda “Scuola di Vienna”, un’opera espressionista esemplare. Fu composta nel 1917-1921 ed andò in scena per la prima volta all’Opera di Stato di Berlino il 25 dicembre 1925, ottenendo un successo immediato. Fu eseguita nel decennio successivo ben 166 volte, tra Europa e America.

Il testo dell’opera fu ricavato dal Woyzeck (1836) di Georg Buchner, reputato il massimo drammaturgo tedesco nell’epoca di Berg. L’opera è divisa in tre atti, ognuno dei quali suddiviso in cinque scene.

– Nel primo atto si ha la presentazione dei personaggi principali: il soldato Wozzeck, la sua compagna Maria, il capitano, il dottore, il tamburmaggiore. Alla fine del primo atto si consuma il tradimento di Maria.

– Il secondo atto sancisce l’impossibilità di Wozzeck di riscattarsi dai soprusi dei suoi aguzzini.

– Nel terzo atto, la redenzione di Wozzeck dalla sua sofferenza: uccide Maria e muore annegato.

I contorni temporali non vengono specificati nell’opera. Il nucleo tematico del dramma di Buchner è la condanna di una società che non ha saputo riscattare i personaggi dalla loro miseria morale e materiale, li ha sfruttati e quasi costretti fatalmente a compiere atti delittuosi. Il misero soldato, attorno al quale ruota la tragica vicenda, si trova chiuso tra un mondo feroce e ingiusto e la sua personale disintegrazione psichica – tipica tematica espressionista. Berg ha il merito di condensare il testo originario di 29 scene in sole 15 scene, sperimentando, prima di tutti gli altri, con grande arditezza i nuovi mezzi di composizione su lunghe durate di tempo: la ricchezza e la varietà dei caratteri musicali è nel Wozzeck inesauribile, e la grandiosità della disposizione architettonica le si dimostra pari in tutto.

HISTOIRE DU SOLDAT

Durante la permanenza in Svizzera, dove si trasferì appena prima della Grande guerra, Stravinsky scrisse Histoire du soldat (1918), un’opera da camera articolata in 19 numeri musicali e comprendente narrazione, mimica e danza, su libretto in francese di Charles-Ferdinand Ramuz. Il clarinettista ed industriale Werner Reinhart, in seguito dedicatario dell’ Histoire du soldat, fu il finanziatore dell’impresa. Stravinsky scelse sette strumenti appartenenti ognuno ai tipi rappresentativi delle varie famiglie strumentali per registro acuto e grave: violino, contrabbasso, fagotto, clarinetto, tromba (cornetta a pistoni in Fa/Si bemolle), trombone e percussioni. L’organico è quindi un piccolo ensemble, che doveva quindi girare non solo per le grandi città svizzere ma anche tra i vari paesini montani. Fu anche una scelta dettata, probabilmente, anche per compensare la mancanza di strumentisti a causa del conflitto mondiale.

L’opera narra la storia di un soldato, Josef, che cede il suo violino al diavolo in cambio di un libro magico che gli procurerà denaro e potere. Le vicende sono  raccontate  e recitate da tre attori: il narratore,  il soldato e il diavolo. Dall’opera Stravinsky ricavò una suite da concerto di cinque numeri dedicata al suo mecenate Werner Reinhart, per clarinetto, violino e pianoforte. Fu messa in atto successivamente una versione per balletto.

TRAMA E STRUTTURA

I/1 Marcia del soldato.
Il soldato torna al suo villaggio natale per una licenza di quindici giorni.

Piccola aria presso il ruscello.
Viene avvicinato dal diavolo, travestito da vecchio acchiappafarfalle. Il diavolo ottiene il violino del soldato in cambio di un libro magico e lo invita a passare tre giorni insieme.

Breve ripresa della marcia del soldato

I/2 Pastorale.
Il soldato, raggiunto il paese natale, scopre che sono passati in realtà tre anni e tutto è cambiato. Il diavolo, travestito da mercante di bestiame, lo invita a far fortuna con il libro magico.

Ripresa piccola aria presso il ruscello

I/3 Il soldato scopre che il libro funziona ma dopo poco tempo è ormai completamente disilluso dalla ricchezza. Il diavolo, vestito da mezzana, gli mostra le sue merci, fra cui il suo violino: lo ricompra ma non riesce a farlo suonare così lo scaglia dietro le quinte con il libro.

Piccola aria presso il ruscello

II/4 Marcia del soldato.
Il soldato, povero, giunge in una città dove la figlia del re è malata e viene promessa in sposa a chi la guarirà.

Marcia reale.
Il soldato incontra il diavolo, vestito da virtuoso violinista, e gioca a carte con lui facendolo ubriacare per recuperare il violino.

Piccolo concerto.
II/5 Il soldato suonando guarisce la principessa che balla un tango, un valzer e un ragtime.

Tango, valzer e ragtime.
Poi abbraccia il soldato ma entra il diavolo: il soldato lo costringe a ballare (Danza del diavolo), riabbraccia la principessa (Piccolo corale) e poi trascina il corpo dietro le quinte. Mentre il diavolo pronuncia la sua maledizione (Canzone del diavolo).  Soldato e principessa sono di nuovo abbracciati. (Grande corale).

II/6 Poco dopo il matrimonio i due vanno nel paese natio di lui ma, varcata la frontiera, il soldato cade in potere del diavolo che ha di nuovo il suo violino.

Marcia trionfale del diavolo.
Il soldato lo segue senza opporre resistenza.

LA GUERRA VISTA DAI DUE AUTORI

A inizio ‘900 in campo musicale esisteva una pluralità di tendenze senza dubbio sconosciuta a qualsiasi altro secolo,  con compositori talvolta assai lontani nei loro mondi espressivi, con caratteri e connotazioni ideologiche fra loro molto diverse. Berg e Stravinsky sono due figure emblematiche di questo periodo, entrambi compositori innovativi e di grande talento, molto diversi tra loro. Eppure entrambi hanno avuto l’esigenza, per motivi differenti, di riferirsi al tema della guerra.

Wozzeck e Histoire du Soldate sono entrambe opere frutto di percorsi diversi che si riproducono ciclicamente sull’evento Grande Guerra, pur tuttavia non facendo mai un esplicito riferimento ad essa. Berg opta per un’opera sperimentale che presenti inequivocabilmente gli chocs, puntando a impressionare molto gli spettatori; Stravinsky invece, dovendo tenere conto dei gusti del pubblico, si affida ad una visione edulcorata, meno traumatica, quale ci offre la fiaba, il racconto epico, che tra l’altro collima pienamente con la sua aspirazione di diventare un classico. Volendo obiettare un gesto “snob” del compositore russo, perché volutamente distaccato dagli orrori dei conflitti bellici, si potrebbe commettere un errore: la scelta della fiaba può essere ragionevolmente valida ad instillare una morale che ha sua ragion d’essere nell’infantilismo, lo stato primigenio di ogni coscienza, quindi volta a scuotere inconsciamente i nostri animi. Mentre l’operazione di denuncia di Berg è evidente, in Stravinsky apparentemente potrebbe essere assente: in realtà essa rifugge da qualsiasi ragionamento a priori, presentando le vicende come “classiche”.

Nel quadro generale del primo novecento entrambi i compositori hanno in comune il desiderio di un’aumentata complessità della musica, volta a dare un esplicito significato spirituale e filosofico. In Stravinsky gli ammiccamenti al jazz, ciò che è semplice e chiaro, istintivo ed ingenuo, si disgregano. Berg concepisce il materiale già svincolato dalla tonalità e disgregato in elementi cellulari del ritmo, accordo o singola altezza.

Riprendendo il discorso di denuncia consapevole in Berg e subdola in Stravinsky, si noti come questa finalità sia raggiunta per antitesi di linguaggio tra le due opere: atonalità per il Wozzeck contro tonalità (se pur allargata) della Histoire;  massima varietà delle forme, di verso coesione; aspetto intellettuale della composizione contro ammiccamento a generi di massa. Ma entrambe le composizioni portano a questa conclusione: i due soldati sono due uomini non liberi per loro stessa condizione in essere. La guerra forgia degli schiavi: in Berg il protagonista è reietto dalla società ed è succube della sua follia; in Stravinsky diviene servo del diavolo, delle tentazioni, dell’ambizione sfrenata. Si assiste alla perdita di qualsiasi moralità, l’aspetto comune che entrambi i musicisti vogliono esprimere, se pur a tinte diverse. La scelta di abbracciare una determinata forma o stile che sia, non deve far perdere di vista la causa di tutti i mali – che è la guerra – e l’effetto, ossia la disumanazione dell’individuo, la perdita di valore della vita umana, a prescindere appunto da qualsiasi mera speculazione intellettuale. Ai due compositori questo va dato atto indistintamente.

E in questo caso, quando si affronta di argomenti che sconvolgono l’animo umano, non può meravigliare che il Wozzeck, se pur possa risultare un’opera ostica per le orecchie del pubblico e dura da assorbire, tuttavia abbia riscosso un grande successo, replicato diverse centinaia di volte.  Il rapporto con il pubblico, a confronto del sec. XIX, è sì cambiato, ma altrettanto le coscienze, e il Wozzeck è segno di questo cambio di passo, e per questo un capolavoro. Di certo Berg non rincorreva il successo o tantomeno i denari.

Stravinsky invece ci lascia una fiaba  morbida e delicata, per gli spettatori monito da raccontare a tutte le età, con un auspicio: che ognuno di noi non si venda la propria anima al diavolo. E se pure a volte il compositore strizza l’occhio alla massa, prendendo spunti compositivi da repertori commerciali,  in realtà egli non ricerca necessariamente il denaro; egli cerca gli aspetti più ingenui (e logori) della società, quasi in una sorta di rituale feticistico. L’ingenuità è per Stravinsky una buona pietra per scolpire un’opera d’arte, nel suo caso un capolavoro.

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Schiavi del calcio

In Italia si parla sempre di calcio… Ogni giorno. Si parla di pre-partita, partita e dopo-partita. C’è la Coppa Italia, la Champion, i Mondiali etc. Si parla di calciatori, della loro vita privata e di quante veline sono state a letto con loro. Si parla anche di scandali e Calciopoli, ma solo quando la questione diventa troppo palese per poter essere ignorata…

Anche Sold Out parla di calcio, ma approfondisce dei temi che solitamente vengono evitati con cura. È un video-documentario del 2002 che parla della cosiddetta “tratta” dei ragazzini nel Mondo del calcio, tra l’Africa e le grandi società sportive d’Europa. Il filmato apre con il primo piano di un ragazzino che afferma “I wanna be a superstar”, e poi prosegue mettendo in luce gli aspetti di quella che viene definita come la versione moderna del commercio di schiavi studiato sui libri di storia.
Anche il giornalista Corrado Zunino ha approfondito questo argomento nel suo video-reportage Il Mercato della Coppa D’Africa, concentrandosi su Accra, la capitale Ghanese dove nel 2008 si è disputato il grande campionato calcistico richiamato nel titolo. Un documentario che mostra la passione con cui centinaia di giovani inseguono il mito del calcio, cercando in questo sport una possibilità per cambiare la propria vita. Un sogno che ogni giorno gli dà la forza di svegliarsi all’alba per un duro allenamento sulla spiaggia o sui campetti costruiti attorno alle discariche. Si chiamano “pitch”, e rappresentano la meta di quelle folle di adolescenti che quotidianamente si impegnano in estenuanti allenamenti: scatti, addominali e ripetute tra cocci di vetro e pneumatici abbandonati sulla sabbia… Sognano il mito di Appiah ed Eto’o, con la determinazione e l’ingenuità che solo la fantasia di un quindicenne può concedere. Loro si rifiutano di credere che questi loro campioni appartengano solo ad una ristretta minoranza: i pochi fortunati che emergono da una più oscura maggioranza di esperienze nettamente diverse.

Dietro la gloriosa facciata di questi rari fuoriclasse del calcio, infatti, si cela un mondo completamente diverso… Documenti falsificati e dati anagrafici modificati per aumentare l’età di un ragazzo troppo giovane. Famiglie che si indebitano sino al punto di vendere la propria casa per avvicinare i propri figli agli osservatori e magari anticipare i costi di un viaggio in Europa per un provino. Procuratori senza scrupoli che non si fanno problemi a scomparire quando questi aspiranti calciatori non riescono a superare la prova. Giovani abbandonati in un Paese sconosciuto, senza i soldi né la forza di tornare a casa ed ammettere il proprio “fallimento”, ad una famiglia che ha impiegato tutti i suoi risparmi per quella occasione. Ragazzi che piuttosto che tornare indietro scelgono di restare in Europa, anche a costo di vendere borse per strada o spacciare droga per racimolare soldi e tentare di risanare il debito dei loro genitori. “Clandestini” giunti nel continente europeo con finti contratti di lavoro costruiti ad hoc per aggirare le leggi…

Un fenomeno che in Francia è monitorato dall’associazione Culture Football Solidaire, che in un’indagine di un paio di anni fa ha censito fra le strade di Parigi 800 ragazzi africani diventati solo ex calciatori. Una questione da cui l’Italia non è immune, come denunciava un articolo dello stesso Corrado Zunino quando smascherò il “Matera Calcio” mentre tentava di costruire una cooperativa di lavoro fittizio per far entrare 4 ragazzi ghanesi da imbianchini.
Un mondo praticamente sconosciuto, sostenuto dalle robuste colonne di società calcistiche troppo potenti per poter essere contrastate, e dalla passionale tenacia dei tanti sogni che troppo spesso si infrangono contro il bisogno di avere, solamente, una nuova possibilità…

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