Parlando di progresso e povertà

Chiunque non abbia avuto l’occasione di leggere l’Internazionale n° 980, forse potrà essere interessato a leggere questo articolo. È un numero in gran parte dedicato a economia, mercati e finanza, al termine del quale ti pare quasi di aver trovato l’antidoto di ogni male e la soluzione a molti dei problemi della società.

ProgressAndPovertyBookA colpire particolarmente è il pezzo di Christopher Ketcham dello statunitense Harper’s Magazine, dedicato alla storia del Monopoli, il celebre gioco da tavolo “giocato da almeno un miliardo di persone in centoundici Paesi e quarantatre lingue”, inizialmente ideato con lo scopo di insegnare a combattere i monopòli, e poi tramutatosi in una gara dove l’accumulo dei monopòli è invece il principale obiettivo dei giocatori che s’impossessano della pedina a forma di funghetto, bottiglione etc…

Il protagonista del pezzo di Ketcham è Henry George: economista statunitense di fine ‘800, scrittore del famoso “Progress and Poverty” e principale sostenitore della dibattuta “Imposta sul valore fondiario”, secondo cui la terra, così come ogni elemento che si trova in natura, appartenendo a tutta l’umanità, non può apportare benefici solo a coloro che la possiedono, ma la ricchezza ricavata da tale bene comune deve essere sfruttata a beneficio dell’intera comunità. In pratica, ciascuno ha diritto di proprietà su ciò che costruisce con il proprio lavoro, mentre ciò che già esiste in natura non può divenire patrimonio di nessuno: la terra in primis. Henry George arrivò infatti alla conclusione che “il monopòlio era il motivo per cui il progresso portava una maggiore povertà sulla terra”, spiega l’articolo. Deduzione a cui l’economista arrivò dopo aver analizzato che, “dovunque fiorissero industrie e si accumulassero capitali, c’erano sempre più persone povere che vivevano in condizioni disperate”.

Studiando la situazione degli Stati Uniti verso la fine del 1800, George aveva infatti notato che con l’aumentare della popolazione e il progressivo spostamento verso i centri urbani più grossi, i terreni erano sempre in numero inferiore, con prezzi sempre maggiori e con una classe lavoratrice praticamente ridotta a una “schiavitù dell’affitto”, causata dal dover ripagare il costo del vivere e lavorare in quella proprietà. “Per vedere esseri umani che vivono nelle condizioni più abiette e disperate – scriveva George – non bisogna andare nelle sconfinate praterie e nelle capanne di legno costruite nei boschi, dove l’uomo comincia la sua lotta con la natura e la terra non vale ancora nulla, ma nelle grandi città, dove la proprietà di un piccolo appezzamento di terreno costituisce una fortuna”.

dichiarazione-redditi-societa-imago-364--324x230L’articolo procede parlando dello sviluppo dei primi monopòli, della nascita delle prime dinastie di ricconi americani, e di come il concetto di proprietà della terra, nato in occidente, non avesse ancora prodotto nulla di buono. Ma Henry George non riteneva fosse “necessario confiscare le terre. Basterebbe confiscarne la rendita, [che sarebbe] il reddito da capitale derivato unicamente dall’aumento di valore della terra, e quindi distinto dal lavoro investito su di essa sotto forma di migliorie, costruzione di case, uffici e fabbriche o coltivazione di campi. A valorizzare la terra era la mano invisibile del lavoro di una comunità. La capanna diventava preziosa quando veniva scoperta una miniera nella zona, costruita una strada che la collegava alla miniera, aperto un negozio che vendeva provviste per i minatori, quando venivano costruite altre case, arrivava la ferrovia e nasceva una città. Il terreno su cui sorgeva la capanna derivava il suo valore da quello che la società ci aveva costruito intorno. Quindi quell’aumento di valore spettava alla società e secondo George doveva essere calcolato e tassato a prezzo di mercato. Questa ‘imposta unica’ sulla terra e sulle risorse naturali doveva riformare il capitalismo che George pensava di dover salvare dall’autodistruzione e ‘aprire la strada alla realizzazione del nobile sogno socialista’”.

Henry George elaborò una teoria articolata e studiata nei minimi particolari, dove non prendeva nemmeno in considerazione il capitalismo finanziario o qualunque altra forma di reddito da capitale che provenisse da investimenti che non fossero sulla terra, con conseguente abolizione di qualsiasi tassazione su reddito, profitto o lavoro. La sua teoria è stata profondamente sostenuta e pubblicizzata da personaggi del calibro di Mark Twain, Lev Tolstoy e John Dewey e nel 1900 una città nel Delaware (Arden) è stata fondata come esperimento georgista.

Questo articolo fa riflettere molto sulle tasse e le imposte dell’ordinamento italiano. Leggo di un economista filo-socialista che aveva elaborato un sistema di finanziamento della spesa pubblica dalla sola “imposta unica”, e di un recente governo di pseudo liberisti anticipati da un quasi ventennio di cabarettisti incapaci, che sono riusciti solo a inasprire la pressione fiscale e ad aumentare tasse, accise e imposte, dove “la terra” è solo una delle tante proprietà tassate che gravano sui contribuenti. Tutto ciò, senza peraltro migliorare minimamente la qualità dei servizi offerti.

Insomma, potrebbe essere davvero così facile?

 

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