Lo ammetto: Edward Hopper non era tra i pittori che conoscevo di più. Ma la mostra che da poco si è aperta a Roma su questo artista americano, mi ha dato l’occasione di rimediare alla mia mancanza, e di fare la conoscenza di uno stile pittorico davvero unico.

La mostra è stata organizzata in sette sezioni, disposte secondo un ordine cronologico e tematico. Nella prima sala è possibile visitare il primo spazio interattivo della mostra: immersa una luce notturna, vi è la riproduzione scenografica di un quadro di Hopper, “Nighthawks del 1942. Lo spettatore può entrare nel bar raffigurato nel dipinto, e “camminare” quindi in un quadro dell’artista. (Davvero un peccato, però, che l’opera originale non sia esposta!)
Mentre in Europa ancora erano fresche le pennellate dell’impressionismo, e la rivoluzione di Picasso sconvolgeva il mondo dell’arte, Hopper rimane fermo nella sua poetica verista, alla quale resterà fedele per tutto l’arco della sua produzione, tanto da essere considerato il “padre del realismo americano”.
Nella prima sala sono esposti gli autoritratti, che ricoprono l’arco di almeno vent’anni. I primi quadri giocano sulle ombre, sui toni scuri, sull’ocra e sul bruno, accesi qua e là da punti di luce. Solo in un autoritratto più tardo, ritroviamo quei colori vibranti e freschi che caratterizzeranno la sua produzione più matura.
Hopper raggiunse il successo solo a quarant’anni. Fino a quel momento si guadagnò da vivere lavorando come illustratore. Pur non amando tale professione, l’influsso delle tecniche dell’illustrazione si evidenzieranno nelle sue opere pittoriche, dando ai suoi lavori quella pulizia, quella precisione e quella brillantezza che caratterizza lo stile di questo artista.
Dopo una breve occhiata al Hopper incisore, si passa a Parigi, dove il pittore ebbe occasione di soggiornare. Qui cominciamo a riconoscere la poetica propria di Hopper: palazzi, ponti e vedute, il tutto intagliato nel gioco luce-ombra, diventano il suoi soggetti prinicpali, tanto da fargli affermare: “Tutto ciò che ho sempre voluto è dipingere il sole sulla parete di una casa”.
Bella l’idea di far creare ai visitatori il “proprio bozzetto hopperiano”. Tre disegni di Hopper vengono proiettati su fogli di carta asportabili, e ciascuno può ricalcarli a matita, per sperimentare in prima persona il tratto grafico dell’artista. Altra idea, il taccuino “interattivo”: L’artist’s Ledger Book può essere sfogliato grazie a un touch-screen, così da poter curiosare fra gli appunti, gli schizzi, e le riflessioni dell’artista americano.

Con l’opera Stairway facciamo la conoscenza degli interni di Hopper, pittore del silenzio e dello straordinario che si cela nelle scene di vita comuni. Ciò è ancora più evidente in una delle sue opere più famose: Morning Sun, dove una donna, seduta su un letto, ha lo sguardo perduto verso la finestra, dalla quale entra una luce che inonda la parete. Accanto all’opera vengono esibiti i bozzetti preparatori, a mostrare la precisione quasi maniacale con la quale Hopper preparava ogni suo quadro. Nulla è lasciato al caso, ciascun colore è scelto accuratamente prima ancora che il pennello tocchi la tela. Questo, a mio parere, è ciò che rende i quadri di Hopper così puliti, ma anche, forse, così freddi e distaccati. Allo stesso tempo, però, da questa freddezza emerge una sensazione malinconica, che parla di solitudine e silenzio. Le immagini sono precise e realistiche, ma proprio per questo sfiorano il limite di una pittura dalla vaga atmosfera metafisica.
Altro soggetto amato dall’artista: la campagna americana, delineata ancora con grandi e sicure distese di colore, ma stavolta leggermente più sfuggente, come se l’immagine fosse stata vista da un treno in corsa.
Nella sala denominata “l’erotismo di Hopper” ritroviamo figure di donne in pose abbandonate, sdraiate su divani o su cuscini, oppure sedute ai piedi del letto. Ciò che affiora da queste opere è di nuovo il quotidiano. Queste donne non sono né muse né dee, alcune di loro, ritratte in un momento di riposo, paiono persino sciatte, quasi come se il pittore le avesse colte di sorpresa. Nessun lirismo, ma, di nuovo, l’immagine precisa ed essenziale trasforma il quotidiano in un attimo nel tempo pieno di mistero.

Tutto questo si può ritrovare nell’opera Second Story Sunlight, dove, di nuovo, un Hopper ormai anziano ci offre la visione di una casa su cui la zona fra luce e ombra è creata grazie ad un taglio netto, affilato come un coltello. Al balcone, una giovane donna ed un’anziana prendono il sole. Il piano è cinematografico (come in molti quadri di Hopper), e non è un caso che Hitchcock si sia ispirato a quest’opera per la casa di Psycho. Mi chiedo se persino Kubrick non si sia ispirato agli interni e alle geometrie di Hopper per alcune inquadrature di Shining!
A woman in the sun è l’ultima opera esposta. Di nuovo, il soggetto è una donna sola, un po’ sfatta, con una sigaretta in mano, inondata da un taglio di luce che delinea una macchia geometrica sul pavimento. Questa è l’ultima l’impronta malinconica eppure piena di luce e bellezza che la mostra lascia di sé. Una volta abbandonata, non si può non notare con più attenzione come la luce e l’ombra giochino sulla superficie delle cose attorno a noi, rendendo ogni angolo degno di essere dipinto.

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bellissimo articolo…grazie
grazie a te, Ilaria! 🙂